La scuola ai tempi del CoronaVirus

di Sara Feltrin

Alzati, sono le 9!

Non è la solita sveglia delle 7 del mattino che preannunciava l’ennesimo giorno di scuola. E’ una sveglia più soft, quasi come quella della domenica mattina. 

Ma non è domenica mattina.

Alzati che tra mezz’ora hai videolezione con la prof di inglese!” 

Una lunga colazione, l’abituale TG di sottofondo, e via, davanti allo schermo del computer, con la felpa di scuola indossata sbrigativamente per coprire il pigiama, tutti pronti a fare lezione così, a piedi scalzi e un biscotto mezzo masticato in bocca.

Doppio click sulla cartella 1B. Inglese. D’un tratto, dal nulla: “Ah, eccovi! Ecco ecco, vi vedo quasi tutti….mancano Stefano e Giulia…” è la voce dell’insegnante, leggermente imbarazzata ma, stranamente, calma. Sì perché in classe non esiste “la calma” e si urla sempre per farsi comprendere. Agli occhi dei ragazzi l’immagine dell’insegnante suscita un’inaspettata, rassicurante familiarità. Per un attimo, sembrava di essere in classe. 

Si è trasformata così la scuola ai tempi del Coronavirus, alunni e docenti separati da uno schermo e connessi attraverso il network dell’era digitale che asseconda operosità e produttività senza lasciare spazio a emozioni e sentimenti. Si perchè si può digitalizzare un documento, un’immagine, un suono, ma non si può digitalizzare uno stato d’animo. 

Vi lascio i pdf da completare e riconsegnare nella cartella “lezioni settimana 16-21 marzo”, mi raccomando, entro sabato! Ci vediamo la prossima settimana, a presto ragazzi!

Le lezioni “in classe” durano 20-30 minuti al massimo perchè “Oh raga, non ho più internet, ho finito i giga” , “Bro, non ho capito l’ultima parte perchè c’era poca connessione” oppure “Ciao raga vi mollo perchè mia sore rompe che le serve il pc”, senza contare chi manca come Stefano e Giulia della 1B che a casa il wi-fi non e ce l’hanno proprio. Esistenze affidate totalmente agli schermi, che poi va a finire che “Oh ma raga, voi avete capito dove la prof mette i compiti?” e ci si perde, ci si esclude, per mancanza di segnale.  

Mai come in questo momento, navigare in internet ha portato un mal di mare così angosciante: un totale disorientamento annessa ad una profonda estraneazione. 

Sì perchè, chi lo poteva immaginare che quel saluto così sbrigativo ai miei amici, tre settimane fa, poteva mancarmi così tanto, ora? Chi lo poteva sapere che mancasse così tanto non vedere i volti dei miei compagni di scuola, compagni di vita?

Eh ma li puoi vedere su skype o su Whatsapp, o su Messenger!” 

Sì, ma non è la stessa cosa. Possiamo guardarci, possiamo parlarci, ma non ci possiamo avvicinare, non possiamo stare vicini. No, non è la stessa cosa.

Ora, della scuola è rimasta solo la parte peggiore: quella dei compiti e delle verifiche (che poi, che verifiche sono se posso tenere il libro sotto il naso?). 

Per non parlare poi delle boccate d’aria pura: sport, condivisioni al parco, le passeggiate con gli amici del paese, eccetera. 

Ora ringraziamo il cielo per aver permesso l’esistenza della tecnologia che ci permette di amplificare la nostra esistenza in ogni dove, distraendoci dal qui ed ora, dalla realtà attuale. Perché è proprio questo che fanno i telefoni, i tablet e qualsiasi schermo sia connesso ad internet: portarci via dal qui ed ora. Proiettarci in un realtà virtuale pericolosissima: quella del nostro “cerco, voglio”, estranea e lontana a quella del nostro “evito, scappo”. Quella dei desideri lontano da quella delle paure. 

E oggi, questi mostruosi quanto indispensabili, schermi sono diventati l’equilibrio tra quell’inesauribile “voglio tutto” e il catastrofico “vietato uscire”. 

Sono diventati la libertà di chi a casa non sa stare. 

Come siamo arrivati a tutto questo?

Ci sorprendiamo di noi stessi quando facciamo fatica a gestire la nostra vita a casa, quando ci hanno insegnato che la casa è il luogo più sicuro e rassicurante di tutto il mondo. Com’è che ora, la nostra casa, fa così paura? Perchè la percepiamo così pericolosa? Perché sentiamo l’esigenza di uscire a tutti i costi?

Siamo diventati un popolo più adattato al lavoro che a casa, più “al sicuro” nel fare (lavoro) anziché nell’essere (casa). Beh, la risposta sembra ovvia: perchè a casa non siamo abituati a stare, come non siamo abituati a gestire non tanto la casa in sè, ma noi stessi, nell’essere e non nel fare.

Noi stessi, senza gli impegni quotidiani, i doveri delle cose da fare, lo stress per gli obblighi del lavoro, le mansioni da svolgere a casa e le rassicuranti, quanto angoscianti immagini del lavoro del giorno dopo. Noi stessi. 

Questo siamo diventati. Un popolo alla mercé dell’operosità. E ora, che ci è chiesto a tutti di #stareacasa, facciamo fatica a farlo. 

Forse è il caso di abbandonare tutti quel caotico e continuo fare e ci lasciamo andare a quel difficile essere che sì, ci mette in discussione, ma mette alla prova emozioni e risorse che forse prima non sapevamo nemmeno di avere. 

Risorse che in questo momento ci possono salvare in una situazione di emergenza come questa, in cui sono necessari spirito di adattamento e gestione emotiva. 

Lontano dai telefoni, lontano dagli schermi. 

Guardate di fronte a voi, guardate in alto nel cielo. Per farlo, non serve raggiungere la cima più alta di una montagna e nemmeno il lungomare di una suggestiva spiaggia. 

Basta una sedia, fuori nel terrazzo accompagnati da un buon libro, un calice di vino, un giornale, un gatto sulle gambe o assolutamente nulla. 

Voi e nient’altro.

Aprite gli occhi. 

Avete il mondo, quello vero, davanti a voi. 

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