di Francesca Del Rizzo
Molti ragazzi arrivano da me e sanno già dare un nome alla loro sofferenza: si chiama ansia e prende la forma di attacchi di panico, momenti di terrore, paura estrema di alcune situazioni, irrequietezza, incapacità di fermarsi o rallentare o al contrario, paralisi.
La sentono nel corpo, prima ancora che a livello emotivo: nel respiro che si fa affannoso e nel cuore che sembra scoppiare, o nella testa che fa male, tanto male, oppure nella tensione dei muscoli, nella pancia che duole e nello stomaco che si chiude. Per alcuni di loro la sofferenza fisica è così importante da arrivare a limitare di molto la loro quotidianità, da diventare una presenza quasi costante.
Prima andava tutto bene, poi, ad un certo punto della loro vita, è arrivata questa cosa. Inizialmente hanno cercato di farvi fronte con gli strumenti che avevano a disposizione e con l’aiuto dei familiari. Hanno provato a risolvere le loro difficoltà con strategie pratiche ed i familiari hanno spesso oscillato tra l’accudimento condiscendente e la sfida a farcela, “che tu sei più forte della tua paura”.
Quando un figlio o una figlia mostrano segni di così forte sofferenza non è facile per i genitori, ci si sente in colpa e responsabili, un po’ a prescindere. Certo, cerchiamo di capire, ma siamo così coinvolti che non possiamo essere molto lucidi nell’analisi e nella comprensione di ciò che sta accadendo.
E poi ci sentiamo impotenti.
Parlarne con un esperto ci può fare paura: da un lato significa accettare e dirci davvero che c’è qualcosa che non va, dall’altro temiamo che ci verranno dette parole che non vogliamo sentirci tanto dire, e cioè che c’è qualcosa, nel nostro stile educativo, che sbagliamo, che non facciamo bene.
E allora ci concentriamo sulla gestione dei sintomi. Essi diventano un po’ il focus dell’attenzione di tutti: della ragazza o del ragazzo, perché li fanno stare male, e della famiglia, perché a loro appaiono come il vero problema.
Ma non è così. Per illustrare il mio modo di concepire il ruolo dei sintomi d’ansia vorrei proporre una metafora che calza solo in parte, ma che trovo talvolta utile: immaginare il sintomo come una spia di allarme sul cruscotto dell’auto: quando la spia si accende il problema non è il malfunzionamento della lucina rossa né del cruscotto, il problema è da qualche parte nell’auto. Semmai, la spia è il primo tentativo, da parte del sistema auto, di trovare una soluzione al problema sottostante.
Ecco, spesso l’ansia è proprio questo: il primo maldestro tentativo, da parte della persona, di risolvere un problema, un tentativo che poi crea ulteriori problemi, ma su di un altro piano.
Pensiamo ad esempio a cosa può accadere quando un ragazzo ha un attacco di panico. Solitamente i genitori si allarmano: la prima impressione è che ci sia qualcosa che non va a livello fisico. Si parte quindi con una sequenza di accertamenti più o meno immediati che hanno l’effetto di concentrare sul ragazzo tutta una serie di azioni di cura e di accudimento piuttosto prevedibili. I genitori vengono così temporaneamente distolti dalle loro attività quotidiane, dalle usuali preoccupazioni, dal flusso della loro vita, e calamitati sul sintomo e sulle modalità per eliminarlo. Abbastanza velocemente scoprono che per fortuna non c’è nulla che non vada a livello cardiaco e, se da un lato ciò è indubbiamente tranquillizzante, è anche spiazzante: se c’è qualcosa di fisico se ne occupano i medici, che sanno cosa fare, ma così no, se ne devono occupare loro. E quindi, il più delle volte, cominciano a ristrutturare la loro vita in modo da rispondere ai nuovi bisogni (di sicurezza, vicinanza, presenza) che il figlio sembra reclamare. E la loro routine cambia: fra le loro occupazioni si colloca prepotentemente il prendersi cura in modo diverso di questo figlio grande che, per certi versi, si comporta però come se fosse piccolo e che in questo modo condiziona scelte, tempistiche e logistiche. Vorrebbe infatti smettere di fare le cose che fanno i ragazzi della sua età: prendere l’autobus, uscire con gli amici, andare in palestra o a scuola, giocare le partite di basket, perché lì si sente male, gli viene l’ansia, l’attacco di panico.
Risultato netto: grazie al sintomo il ragazzo ha riavvicinato a sé i suoi genitori, ha fatto in modo che si occupassero di lui, che si sostituissero a lui in alcune faccende, che smettessero, magari, di fare alcune delle loro cose e, contemporaneamente ha rivoluzionato la sua vita, interrompendo alcune attività consuete, o facendole solo talvolta e magari con accompagnamento. È stata una manovra consapevole? No, certo che no, ma è ciò che è accaduto, e se, per un attimo, concepiamo tutto questo come il tentativo di risolvere un problema, da parte del ragazzo, ci possiamo chiedere: ma quale era il suo problema?
Era forse spaventato da qualche compito evolutivo (qualche importante passaggio a livello scolastico, relazionale, sociale, sportivo) che sentiva di non essere in grado di affrontare? Era preoccupato perché vedeva i suoi genitori molto impegnati nelle attività axtrafamiliari e si sentiva abbandonato?
Non si può certo rispondere a queste domande in astratto, per quanto il caso che vi ho raccontato sia un caso in astratto. Per rispondere a queste domande è necessario comprendere quale sia la percezione che la singola persona ha della situazione, di se stessa e delle sue figure di riferimento.
E questo è principalmente compito della psicoterapia.
Ciò che voglio però sottolineare è, appunto, che “si fa presto a dire ansia”, come se con un singolo sostantivo, con l’atto di dare un nome, di porre un’etichetta verbale, si concludesse il processo di comprensione di una sofferenza. In realtà, la comprensione vera è un processo che a quel punto, il punto dell’etichettamento, deve ancora cominciare, e sarà solo grazie a quel processo che sarà possibile individuare il cuore della sofferenza. A quel punto, poi, paziente e terapeuta potranno assieme aprire a nuove possibilità.