di Piero della Putta*
Parlare dell’adolescenza è quanto di più difficile si possa chiedere ad una persona.
Delle età evolutive è quella più ardua da affrontare: apparentemente sempre in salita, è ricca di contrasti, di mutamenti, di tempeste ormonali che collegano il periodo della fanciullezza a quello dell’età adulta.
Parlare della mia, di adolescenza, mi riesce ancora più difficile: farlo in chiave sportiva aiuta, e non poco. E’ difficile farlo perché di essa ricordo tante aspettative, proiettatemi addosso non da due genitori straordinari, nella loro semplicità e bontà, ma da un contesto sociale, da una bolla nella quale ognuno di noi vive e deve affermarsi. Deve, poi. Non ho capito perché, ma nemmeno io sfuggivo a questa regola, quella di volere e dovere piacere, dovere e volere ritagliarsi un ruolo, di dovere e volere non deludere chi ci stava accanto.
Non ero quello che avrei voluto essere, come tutti gli adolescenti. E mi vedevo, in questo mio non esserlo, molto peggio di quanto fossi. Ecco perché, in un periodi di grandi riflessioni, di amare constatazioni, fare leva sullo sport è stato fondamentale. Non che fossi un campione, sia chiaro: come amo dire spesso, a quattordici anni ho compreso che non avrei giocato nell’NBA, a sedici ho intuito che non avrei vestito la maglia della nazionale, a diciassette ho rinunciato alla serie A, e lentamente a tutte le categorie sino all’attuale C2, nella quale ho giocato a sprazzi. Poco conta il livello, per me contava la passione che mi ha fatto consumare il gesso giocando nel cortile dell’oratorio cittadino di San Giorgio.
Pallacanestro, dicevamo, sport che ho scelto dopo aver lentamente abbandonato il tennistavolo, dove peraltro avevo raccolto risultati interessanti. Ma i risultati non possono e non devono esser tutto, sono solo il logico raccolto di un percorso faticoso, e spesso non direttamente proporzionale a un fattore sopravvalutato ma essenziale quale l’impegno. Già, perché – e questa convinzione la debbo ai miei tormenti e alle mie riflessioni adolescenziali – impegno e divertimento non possono essere il fine di un atleta. Non lo possono essere non perché non siano importanti, ma perché dovrebbero essere scontati.
Ed è proprio in virtù di ciò che posso dire di aver vissuto, da sportivo, una adolescenza felice. Perché in un gruppo – e qui ritorniamo al riconoscimento, al ruolo, all’affermazione che sono riuscito ad ottenere – spesso il talento non conta se non è affiancato da questi due fattori. Come il bambino passa la palla solo al più bravo ed al suo migliore amico, il gruppo riconosce le capacità, ma anche quelle cose che gli stolti non vedono. La parola giusta per il compagno in difficoltà, l’esserci, lo sbucciarsi le ginocchia per recuperare un pallone fanno la differenza. E qui – vado avanti e indietro, mescolo le cose – torniamo all’esempio dei miei genitori. Non diventare il migliore, ma impégnati per fare le cose al tuo meglio: non so se me lo abbiano detto o fatto comprendere con l’esempio di persone semplici, che non finirò mai di ringraziare.
Come non finirò di ringraziare lo sport, che mi ha regalato quanto di più prezioso ho, i miei migliori amici. Grazie a loro sono passato attraverso mille delusioni, cadendo ma sapendomi rialzare: delusioni sportive, relazionali, sentimentali, lavorative, amicali. Grazie a loro ho imparato a passar sopra – senza dimenticare, io purtroppo non ne sono capace – ad allenatori e dirigenti non sempre capaci di parlare il mio linguaggio, quello di un adolescente con i suoi sogni. Se non fossi stato sportivo, un adolescente sportivo, il “chi sono Moro e Brusamarello?” (i più forti tra i nostri coetanei, ndr), che ci chiese dopo pochi minuti di allenamento con la selezione provinciale il responsabile delle nazionali giovanili, mi avrebbe abbattuto come un tornado.
Perché per dirti che non conti nulla, e che eran li solo per vedere due atleti, ci sono un sacco di modi. E chi non rispetta le persone, i ragazzi e gli adolescenti sa trovare sempre il peggiore.
Ecco, se son fiero di poter dire di non essermi mai comportato così, o di avere fatto il possibile per utilizzare i linguaggi più adatti ai ragazzi che alleno, lo devo proprio a questo. Lo devo ad un’adolescenza difficile come quella di tutti noi, ma ad una adolescenza che grazie anche allo sport mi ha insegnato il rispetto ed i valori che cerco di trasmettere in ogni cosa che faccio.
*Superata da un po’ – dice inconsapevolmente, mentendo spudoratamente a sé stesso – la soglia dei cinquant’anni, piero della putta è rimasto ciò che era: istruttore nazionale e delegato provinciale minibasket, allenatore, operatore nella vita vera delle politiche giovanili presso l’Informagiovani di Pordenone. Lavora – divertendosi – con i bambini ed i ragazzi da sempre, dopo una breve parentesi nella gestione di team senior non altrettanto appagante. Europeista, viaggiatore, crede fermamente che una società che non investe nei più giovani sia una società fallita o destinata al fallimento, unica parentesi negativa in una visione del mondo piuttosto rosea.
Piero, un educatore prima che un allenatore è una persona davvero speciale. Spero che mio figlio possa trovare ancora nel suo percorso esempi come lui
Siamo assolutamente d’accordo
Grazie Piero, le tue riflessioni mi aiutano a sentirmi meno solo, sopratutto in questo momento in cui mi trovo ad affrontare con mio figlio adolescente una serie infinita di problematiche legate alla
sua crescita ed alle sue insicurezze e non condivisione di valori e regole che ritenevo assodati.Tutto si trasforma per diventare una serie di contraddizioni continue che la ragione non riesce a spiegare.
Spero che mio figlio continui a praticare la Pallacanestro, proprio per le considerazione che hai esposto e che come te anche io ho vissuto e condivise nella squadra.