Ma chi me lo fa fare?

di Diego Fratus*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo con questo articolo e quello di martedì 16 giugno ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Ripercorrere dopo così tanti anni i corridoi delle mie scuole medie mi ha fatto uno strano effetto: mi è sembrato tutto così piccolo, dai corridoi alle classi, persino l’aula magna stessa; probabilmente perché sono passati più di dieci anni e, forse, anche perché sono molto diverso dal ragazzino che li frequentava a quel tempo.

Sono ormai più di cinque anni che frequento nuovamente le aule con il progetto “A Scuola Per Conoscerci” come volontario, portando la mia storia e la mia esperienza di omosessuale dichiarato a ragazzi che di “mondo gay” hanno in mente solo i personaggi della TV; e in mezzo a un sacco di domande, sia semplici che complicate, ce n’è una che quasi sempre mi viene fatta: “Perché sei qua?” oppure “Perché fai il volontario?”, e se vogliamo “Perché scrivo questo articolo?”. Una domanda semplice che richiede una risposta lunga perché essa racchiude sia il passato che, volendo, il futuro.

Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri (Internet non era diffuso come ora) e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me.

In un certo senso l’essere un ragazzo sempre attaccato al computer e, quando divenne possibile, sempre connesso online, mi aiutò, perché mi permise, grazie alla protezione di uno schermo, di aprirmi sentendomi al sicuro con un gruppo di persone che consideravo quasi una famiglia alternativa e mi fece conoscere il primo ragazzo apertamente gay che capì come mi sentissi e, a modo suo, mi guidò verso l’accettarmi.

Questa esperienza mi diede coraggio e decisi di fare coming out con alcuni compagni di classe, cosa che andò bene e in seguito, mi dichiarai anche coi miei genitori. Anche con mia madre andò bene e anzi, il nostro rapporto migliorò ulteriormente, mentre con mio padre, col quale avevo già un rapporto instabile, ci fu un momento di scontro per poi semplicemente non parlarne più.

Qua c’è un primo indizio sul perché sono attivista: nessuno dovrebbe sentirsi solo, abbandonato, isolato dal mondo, per l’essere semplicemente se stesso, per una parte importante di se stessi, che ricordiamo è scientificamente provato sia naturale.

Lo sono diventato con l’obiettivo di poter aiutare qualcuno, anche un solo ragazzo a sentirsi “normale”, accettato da chi lo circonda, conscio ci sia qualcuno che lo capisca e sia pronto a supportarlo nel suo percorso; ma ancor di più per sensibilizzare chi sta attorno a quel ragazzo a stargli vicino, perché le più grandi soddisfazioni me le hanno date le persone che più avevo paura potessero rifiutarmi, quando mi hanno accettato dandomi una pacca sulla spalla dicendomi “E quindi? Qual è il problema?”

Quando iniziai ad uscire dalla mia bolla online mi resi conto che i luoghi (sicuri) per conoscere qualcuno erano pochi, difficilmente raggiungibili e/o non adatti al chiacchierare, e poi, timido com’ero, era impossibile spingermi a muovermi da solo. Così mi addentrai nel magico mondo delle app per incontri, tristemente il mezzo principale per noi per conoscere altre persone. Qui conobbi altri ragazzi omosessuali, mi feci delle nuove amicizie, e incontrai il mio primo moroso che non stesse a chilometri di distanza.

Questo racchiude un altro indizio. Siamo portati a pensare la vita affettiva sia una parte piccola della nostra persona ma, in realtà, è enorme: conoscere altri ragazzi gay è parecchio complicato, principalmente perché siamo in pochi a essere a nostro agio a vivere la nostra sessualità alla luce del sole; i locali sono pochi e non è raro ci siano casi di bullismo e/o aggressioni, oltre ovviamente all’esposizione pubblica.

A quel punto un ragazzo giovane cosa fa? Si rivolge ai siti e alle app, con i loro ovvi difetti e limiti, dati dal filtro di uno schermo o dall’assenza di empatia.

Nel 2016 andai al mio primo Pride a Treviso e, nonostante avessi un’idea di cosa fosse e una conoscenza teorica di cosa significasse, soprattutto storicamente, in realtà solo una volta in mezzo ne ho capito il reale contenuto. In un periodo in cui ancora non ero del tutto sicuro di me stesso, in cui non mi sentivo sicuro della mia sessualità camminando per strada da solo, mi sono sentito al sicuro.

Ero in mezzo a persone che mi capivano, in mezzo a persone che condividevano un percorso simile al mio, e soprattutto, a persone che mi, che ci, supportavano: omo ed etero, uomini e donne, giovani e anziani, single e famiglie, tutti per ricordare al mondo che siamo tutte persone uguali e meritevoli dello stesso rispetto e degli stessi diritti. Che ognuno dovrebbe poter camminare per le strade di qualsiasi città tenendo per mano chiunque si voglia. Quella sensazione di sicurezza che dovrebbe essere presente sempre.

Arriviamo così al mio reale inizio come attivista, ossia quando mi fu proposto di partecipare come volontario al progetto scuole. Mentalmente ripercorsi la storia che vi ho brevemente raccontato e accettai, senza davvero sapere a cosa andavo incontro, pensando non sarei durato perché, beh, non sempre sono bravo a parlare di me.

E invece è stata, ed è tutt’ora, una delle migliori esperienze io abbia mai fatto. Ero convinto che il mio contributo non sarebbe servito, che mi sarei trovato davanti a classi disinteressate, un po’ come quelle assemblee che facevo io in aula magna dove l’unico pensiero era “Quando suona la campanella?”.

Invece ho, quasi sempre, trovato ragazzi che mi hanno ripetutamente stupito per la loro curiosità e profondità, che non mi sarei aspettato da ragazzi così giovani. Soprattutto mi sono stupito di me stesso, di come io mi sia trovato a rianalizzare pezzi della mia vita che credevo ormai chiari, per poterli raccontare. Il trovarmi davanti a ragazzi onestamente curiosi di capire le mie ragioni, il perché fossi lì, mi ha messo davanti a domande che non mi ero fatto o alle quali non avevo ancora dato una risposta.

In definitiva, “Chi me lo fa fare?”

Me lo fa fare il ragazzino che alle elementari si sentiva solo al mondo.
Me lo fa fare l’adolescente, quello che fingeva gli piacessero le ragazze, e che nascondeva al mondo un’intera fetta del proprio essere, anche alle persone a lui vicine.

Me lo fa fare l’adulto che vede attorno a se una situazione che, nonostante sia migliorata molto, può ancora migliorare.

E scrivere questo articolo mi ha portato a pormi una domanda: “Chi è per me un attivista?”.
La prima immagine che potrebbe venire in mente è probabilmente la piazza piena di manifestanti, magari a chi conosce un po’ la storia viene in mente la nascita del movimento di attivismo LGBT a Stonewall, eppure io credo che ora abbia assunto un “sapore” diverso la parola.

Le piazze sono ancora necessarie ma serve altrettanto che le piccole cose non siano più fatte nell’ombra. “Che lo facciano a casa loro!”: questa frase rappresenta quello che deve essere apertamente combattuto. Siamo attivisti quando abbracciamo un amico senza quella paura del “magari ci vedono e pensano male”, quando teniamo per mano un amico o il partner per le strade di un paesino, quando su una panchina appoggiamo la nostra testa sulla sua spalla o quando condividiamo un panino per poi darci un bacio fugace, col sorriso sulle labbra.

Possiamo essere tutti attivisti, gay o etero, rendendo “normale” l’amare chiunque si voglia amare. Rendiamo il mondo un po’ più colorato, e che “l’arcobaleno sia sempre con voi”!

*Mi chiamo Diego, prendo tutto così seriamente da non far altro che scherzarci sopra. Metallaro, food lover, nerd quanto basta, un pizzico di ipocondria e una vagonata di ansia. A modo mio provo a capire il mondo e cerco sempre una strada per, magari, renderlo un po’ più bello. Ma in fondo c’è già la pizza, può esserlo di più?

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