di Francesca Del Rizzo
Questo articolo fa parte di un dittico che ho pensato di dedicare alla rabbia ed alla sua espressione: esso ne costituisce la prima parte, dedicata all’emozione in sé, ed è idealmente completato da “Sono arrabbiato!!” che invece si focalizza sull’espressione della rabbia. Non distinguerò in questa occasione fra la rabbia dell’adulto e quella dell’adolescente, a questa distinzione, infatti dedicherò un ulteriore dittico, che Teen&20 pubblicherà in futuro.
A volte, pensando all’emozione della rabbia, mi scopro ad immaginarla, esercizio che chiedo spesso di fare alle persone che vengono in studio da me. Non immagino però la mia, di rabbia, ma la rabbia in generale, la rabbia come emozione, appunto. E non la vedo accesa, energica, ribollente, non immagino qualcosa di rosso e potente e dinamico, ma mi scopro a vederla un po’ spenta, sconsolata, debole ed al contempo livida, incupita, che mi guarda di traverso. Insomma, non mi fa paura, ma un po’ tristezza e pena. Perché la considero una delle emozioni più incomprese e maltrattate.
Il vocabolario della Treccani così la definisce: “Irritazione violenta prodotta dal senso della propria impotenza o da un’improvvisa delusione o contrarietà, e che esplode in azioni e in parole incontrollate e scomposte. Quindi anche furia bestiale, violenza non controllata e moderata dalla ragione. In altri casi indica un’irritazione grave e profonda ma contenuta, interna. In senso attenuato può significare impazienza stizzosa e seccata, disappunto vivo e dispettoso per essere costretto a fare ciò che non si vuole o per non aver ottenuto ciò che si voleva.”
In questa definizione possiamo apprezzare come, nell’uso comune della lingua, nella parola rabbia confluiscano sia l’emozione, il sentire, che il comportamento rabbioso. Troviamo anche l’irragionevolezza, la mancanza di controllo e la violenza. Se questa è la costellazione di significati legata all’emozione della rabbia, è a mio avviso piuttosto comprensibile perché essa possa essere incompresa e maltrattata.
Se infatti la rabbia viene vista come sinonimo di comportamento aggressivo, incontrollato, scomposto, irrazionale è piuttosto prevedibile che le persone la temano, sia quando ne sono vittime che quando ne sono protagoniste, e cerchino di evitarla, controllarla, a volte negarla, anche a se stesse.
Ho conosciuto persone che affermavano di non arrabbiarsi mai… alcune di loro semplicemente si arrabbiavano raramente, altre si arrabbiavano, invece, e molto, ma non se ne rendevano conto, non se ne potevano rendere conto, perché, nel loro mondo di significati, essere arrabbiate equivaleva a sbagliare, mancare di rispetto all’altro, perdere le relazioni, soffrire e fare soffrire.
Ed allora la rabbia che, naturalmente, ogni tanto, avrebbe avuto occasione di accendersi, rimaneva silente, presente ma sottotraccia, come brace sotto la cenere. E semplicemente non arrivava a coscienza, ma agiva comunque, proprio come la brace che, coperta dalla cenere, non manifesta il suo colore, ma scalda con il suo calore.
Ma la rabbia non è l’espressione della rabbia. Vorrei distinguere questi due piani e riservare alla parola “rabbia” il riferimento allo stato emotivo, al vissuto, a quello che sentiamo dentro di noi quando siamo arrabbiati. Al contempo preferirei chiamare “espressione della rabbia” tutto ciò che facciamo per dire al mondo, ed a noi stessi, che siamo arrabbiati. Penso che questa distinzione sia utile perché ci permette di separare l’emozione, che quando sorge ha una sua profonda ed assoluta legittimità, dai modi in cui la esprimiamo, che invece non sono tutti legittimi, equivalenti, utili.
Quando sentiamo rabbia è perché il mondo (una persona, una situazione, un’istituzione, un evento, noi stessi) ha fatto qualcosa che ha negato una parte di noi. Un bimbo può arrabbiarsi tantissimo quando la mamma si rifiuta di permettergli di giocare con il martello del suo papà; uno studente perché un insegnante lo ha valutato in modo, secondo lui, ingiusto; un adolescente perché i genitori non lo lasciano stare fuori fino a mattina il sabato sera ed i genitori perché il figlio non rispetta il loro divieto di usare il cellulare a tavola. Il problema, per quel bambino, non è il martello ma lo stop al suo desiderio di esplorare. E per lo studente non è solo il voto a fare male, ma il naufragio, di fronte al roccioso “arbitrio” dell’insegnante, della possibilità di determinare, con il proprio impegno e la propria prestazione, il risultato di una verifica. All’adolescente che si sente grande, viene sbattuto in faccia che non lo è, ed ai genitori, che vivono come un riconoscimento del loro ruolo il rispetto delle regole che impongono, quel riconoscimento viene negato.
Dal loro punto di vista, tutti stanno soffrendo perché è stata loro negata la possibilità di fare qualcosa che è diretta conseguenza del modo in cui essi concepiscono la loro identità. Si arrabbiano, insomma, perché hanno sentito minacciato qualcosa di profondamente nucleare. E di fronte a questa minaccia gridano, attraverso l’emozione della rabbia, un sonoro no.
Potremmo quindi immaginare la rabbia come una spia di allarme che si accende sulla plancia di comando e segnala che qualcosa di grave ed importante sta succedendo, per cui è necessario mobilitare le nostre energie per risolvere il problema.
Essa è infatti una emozione potente, forte, che prepara all’azione, al fare. Quando siamo arrabbiati non sentiamo fatica né dolore, il nostro pensiero è completamente calamitato da quella spia accesa. Tutto il resto sparisce.
Ed allora talvolta accade che, appunto, facciamo cose in modo impulsivo, “incontrollato”, noncuranti delle reali conseguenze. Questa tuttavia non è più rabbia, ma espressione della rabbia, espressione che può essere meno legittima, corretta, utile. Perché ci sono molti modi di esprimere la rabbia e non sono equivalenti. E noi possiamo scegliere.
Purtroppo però una sorta di psicologia del senso comune, di cui è imbevuto anche il nostro linguaggio, tende a dipingere la rabbia come un demone che si impossessa di noi e rispetto al quale noi siamo passivi (ed allora è chiaro che il nostro sforzo deve concentrarsi sull’evitare di arrabbiarsi…). Consideriamo ad esempio le espressioni: accecato dalla rabbia, divorato dalla rabbia, dominato dalla rabbia. Come se con questa emozione (ma con le emozioni in generale) non fosse possibile un rapporto diverso da quello della dominazione: o la persona domina le emozioni o ne è dominata.
Sono profondamente convinta non solo che esistano altre strade, ma che nemmeno sia sensato puntare al “dominio” della rabbia per evitare di esserne dominati. Questa emozione è importante, quando arriva ci dice che ci sta accadendo qualcosa che merita la nostra completa attenzione, ci parla di noi, delle cose che per noi sono importanti e che, in qualche modo, avvertiamo in pericolo, è preziosa e possiamo ascoltarla, dialogare con lei per comprendere cosa ci sta accadendo. È preziosa Se non la giudichiamo sbagliata a prescindere, se non ci spaventiamo ma la frequentiamo, impariamo a conoscerla, ad abitarla, se mettiamo a servizio di questa potente molla per l’azione la nostra capacità di riflettere, comprendere ed anticipare scenari, se, insomma, ci concediamo di arrabbiarci e di scegliere come esprimere la nostra rabbia, nel rispetto di noi stessi e degli altri.