Sappiamo tutti che la DAD è stata l’unico modo grazie al quale i nostri ragazzi hanno potuto mantenere un rapporto con la scuola e con il mondo degli apprendimenti. Sappiamo tutti che è stata una risorsa, e siamo altrettanto consapevoli di quali siano stati e siano i suoi limiti, stiamo pian piano capendo quali sono le implicazioni dell’aver fatto così tanto affidamento su di essa. E’ stata una fortuna che ci fosse, ma probabilmente questo è stato anche uno dei fattori che ha reso così facile, immediato e rapido decidere di interrompere la frequenza scolastica in presenza non appena i numeri del contagio salivano. Come se la scuola fosse solo apprendimenti, come se la scuola non fosse primariamente relazione.
Più di ogni altra fascia d’età, in questo tempo di Covid, le ragazze e i ragazzi sono stati deprivati del loro mondo relazionale: via lo sport, via la scuola… Azzerato lo scenario che normalmente è co-protagonista della loro crescita.
Come è cambiato il loro mondo?
Quanto è cambiato?
Hanno la possibilità di riflettere su questi temi? Di provare a dare un senso a tutto questo?
E i loro genitori come stanno?
Come è stato averli sempre a casa, vederli sempre di fronte ai monitor, assistere al loro cambiamento mentre anche la famiglia cambiava le sue routine e il lavoro chiedeva nuovi adattamenti?
Vorremmo provare a rispondere assieme a queste domande e proponiamo due percorsi di confronto di gruppo, uno per adolescenti e uno per genitori, che possano essere di sostegno e stimolo in questo sforzo comune di rielaborazione. La conduzione del gruppo sarà professionale, a garantire la sicurezza emotiva di ciascuno e di tutti, e ogni incontro svilupperà un tema specifico: la scuola, le relazioni amicali e quelle più periferiche, la famiglia e il modo in cui il corpo ha risposto all’isolamento.
Gli incontri per i ragazzi si svolgeranno nei pomeriggi di venerdì dalle 18.00 alle 19.30, quelli per i genitori nelle serate del mercoledì dalle 21.00 alle 22.30.
Diversi anni fa ricordo una famosissima pubblicità di una nota marca di dopobarba che citava: “per l’uomo che non deve chiedere…mai!”, pubblicità che, enfatizzando la prestanza fisica del protagonista, raccontava, senza neanche troppi mezzi termini, quanto fosse importante per un uomo “non chiedere” ed essere sempre pronto a conquistare una donna.
Ricordo anche che non fosse così strano o così inusuale pensarla allo stesso modo: un uomo è una persona che si occupa del lavoro, che preferisce film crudi e violenti, che non si fa spaventare da nulla; un uomo è quello che arriva a casa e si siede davanti ad una cena fumante, che raramente si occupa dei propri figli e, quando lo fa, deve ricevere dettagliate istruzioni o addirittura essere supervisionato; un uomo può riparare la lavatrice, ma non sa come stendere il bucato, può dare una mano in casa, ma poi il suo lavoro lo porta fuori.
Sono passati almeno vent’anni da questo spot, l’ultimo risale al 2005, mentre i primi sono degli anni ’80, e lo slogan nel corso del tempo non è mai cambiato: “per l’uomo che non deve chiedere mai!”.
In questi giorni, invece, in un pullulare di notizie serie di cronaca, politica, economia, arriva lui: un uomo sui 30 anni, tatuato dalla testa ai piedi, vestito con le sue ciabatte di una notissima marca di abbigliamento di lusso, seduto su una poltrona, che piange con in braccio la sua bimba nata da poche ore; lo stesso uomo che, tradito dall’emozione su un palco tanto emotivamente impegnativo come San Remo, ha la voce rotta e si commuove nel corso della sua prima esibizione. E si scatena una bagarre di commenti, di disappunto, di risate per l’uomo Fedez che piange pubblicamente, come se piangere fosse proibito per un maschio, o quantomeno ridicolo.
Ecco: Fedez è un personaggio che può piacere o non piacere, lo si può criticare per la sua vita, per l’ostentazione, per i tatuaggi, per la musica, per le sue scelte. Però un aspetto di lui va indiscutibilmente riconosciuto: sta combattendo, più o meno consapevolmente, contro la cosiddetta “mascolinità tossica”, un concetto nato nelle aule universitarie ma che è entrato nel vocabolario comune per indicare “un insieme di comportamenti e credenze che comprendono il sopprimere le emozioni, mascherare il disagio o la tristezza, il mantenere un’apparenza di stoicismo, e la violenza come indicatore di potere” (basti pensare al “non deve chiedere mai”). Peccato che i primi a farne le spese sono proprio i maschi, dal momento che viene impedito loro di esternare le proprie emozioni e sentimenti, con il rischio di sentirsi continuamente in dovere di essere prestanti, perfetti, inflessibili, inscalfibili.
Rivendicare il diritto di essere deboli, emotivi, umanamente fragili può essere solo panacea per i giovani uomini del domani. E per tenere a mente questo concetto, vi propongo la visione di un video girato pochi anni fa da Gillette: because the boy is watching today will be the man of tomorrow – perché i ragazzi che oggi ci guardano saranno gli uomini di domani.
Fino a qualche giorno fa pensavamo che questi, forse più di quelli natalizi, sarebbero stati giorni di festa per i nostri ragazzi. I giorni del ritorno alla didattica in presenza, i giorni in cui si sarebbero rivisti e avrebbero di nuovo fatto gruppo.
Non è stato così. La scuola superiore riprende a distanza.
L’evidenza ci dice che in questo paese, ed in alcune regioni in particolare, del benessere degli adolescenti interessa veramente poco a tutti. Proviamo rabbia, come genitori e come cittadini, e ci sentiamo impotenti.
Come professionisti ciò che possiamo fare è ribadire perché la scuola in presenza sia un bisogno primario delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Lo è perché è essenziale all’apprendimento il condividere uno spazio-tempo in presenza: la persona nella sua interezza viene coinvolta in ciò che accade, può partecipare e costruire attivamente l’esperienza, rielaborare in modo attivo ciò che avviene nel contesto classe. Chi ancora pensa che la scuola trasmetta contenuti si ricreda: quando funziona essa fa molto di più e di meglio, favorisce infatti esperienze di apprendimento che cambiano le persone coinvolte, insegnanti compresi.
Ma la scuola in presenza è essenziale anche perché in adolescenza le ragazze ed i ragazzi devono stare fra di loro, imparare a costruire relazioni fra pari, sganciarsi dall’ambiente domestico, dall’influenza dei genitori, e costruire gli strumenti per rapportarsi in autonoma con il mondo adulto. Devono poter fare la fatica di guardare negli occhi un professore “difficile” ed inventarsi un modo per andarci a patti, affrontare gruppi di compagni “antipatici” e “stronzi” superando insicurezze e timori di essere giudicati. E devono poter sperimentare vari modi di essere un po’ adulti, negli affetti, nelle passioni, nelle amicizie, negli errori e nei fallimenti.
Questi mesi di didattica a distanza ci stanno invece regalando l’opposto: ragazzi chiusi in casa, una scuola che si limita a tentare di inculcare contenuti, sperimentazioni sociali, relazionali, affettive, amicali ridotte a meno del minimo.
Ed il risultato è una generazione sempre più fragile, insicura, impaurita, spaventata. Il mondo fuori fa sempre più paura, perché c’è il Covid, certo, ma anche perché si teme tutto ciò che non si frequenta e non si conosce. Aumentano i segnali di disagio e sofferenza (ansia, fobie, attacchi di panico, depressione) e si ricorre sempre più al terapeuta. Non si contano più le ricerche che lo attestano scientificamente.
Le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di tornare a scuola e hanno necessità di sentire che attorno a loro c’è un mondo di adulti che si prende cura di loro e delle loro esigenze.
Poche settimane fa su Teen&20 scrivevo un articolo, La guerra dentro, nel quale descrivevo il forte malessere e la profonda sofferenza che caratterizza la gran parte degli adolescenti di oggi, chiusi e bloccati dentro le mura domestiche, come pettirossi in gabba, rossi dalla rabbia.
La guerra, ora, è scoppiata davvero.
Le manifestazioni con cui i giovani hanno provato a farsi sentire e urlare a gran voce nelle piazze o fuori della scuola, vestiti a strati con berretto, guanti e una coperta stesa a terra come clochard lungo la strada, sono state parecchie. Telegiornali e notiziari ne hanno parlato molto, li hanno intervistati, ma nulla è cambiato. I continui DPCM tentennano tra salvare il mondo da una pandemia mondiale e l’Italia da un collasso economico, lasciando aperti fino a sera i centri commerciali per i regali di Natale, ma le scuole perennemente chiuse.
Risale a pochi giorni fa (5 dicembre 2020) la vicenda presso il Pincio di Roma in cui centinaia di giovani, gran parte minorenni, si sono raccolti, un sabato pomeriggio, per assistere ad una rissa tra due ragazze. Una di loro, però, non si è presentata ma ciò nonostante la rissa è esplosa lo stesso, tra gruppi di ragazzini guidati da rabbia e sete di vendetta. La diretta e inevitabile conseguenza è stato quindi un grande affollamento di centinaia di giovani arrabbiati che, senza l’utilizzo di mascherine, si è ribellato nel centro di Roma. Ma i pugni, incitamenti, aggressioni, e violenze scagliate uno contro l’altro, nonostante l’intervento delle Forze dell’Ordine in tenuta anti sommossa, non sono bastati a frenare la rivolta.
E su Tik Tok, Telegram e WhatsApp, circola già il messaggio “Confermata al 100% la rissa il prossimo sabato” ma sta volta i pugni e calci non basteranno e le armi della “rivincita” saranno lame e coltelli.
Ci impressioniamo di tanta violenza, maleducazione, vandalismo e intemperanza. Questo, alla fine, colpisce. L’attenzione è diretta alle conseguenze più che alle cause e si cerca un modo per frenarli e disarmarli con tute antisommossa quando invece dovremmo fermarci ad ascoltarli, con le parole. Perchè mettersi ancora contro di loro non fa altro che aumentare la distanza, e più saranno lontani e più loro urleranno.
I numeri parlano chiaro: dallo scorso anno il numero degli atti vandalici provocato da ragazzi nella fascia adolescenziale è aumentato dal 16% al 22%; le risse ora sono al 24%, l’utilizzo di armi o oggetti pericolosi all’8% e l’aggressività su persone al 35% (Osservatorio Nazionale Adolescenza).
I nostri non sono più ragazzi e adolescenti che si ribellano per trovare dei limiti o dei confini per la definizione di sè; sono ragazzi demotivati, arrabbiati; sono adolescenti stufi di ribellarsi e che quindi, lottano. Lottano (o meglio, lottavano) a scuola dove attenzione e concentrazione sembrano capacità irraggiungibili e una buona comunicazione con insegnanti e compagni una grande utopia. Lottano nelle strade contro una società che li giudica e li considera un peso anziché una ricchezza. Lottano infine nelle piazze, unico luogo in cui ritrovare la voce e le urla dei coetanei arrabbiati e sconfortati come loro per scagliarsi insieme contro un mondo che non dà opportunità e sa di amaro. Ma lottano soprattutto in casa e in camera in particolare, contro se stessi. Mancano obiettivi, tante volte mancano perfino i sogni, mancano figure solide, mancano punti di riferimento verso le quali dirigere la rotta, manca la rotta e manca la motivazione che lascia spazio alla noia. E la noia di un vuoto, soprattutto in un’età in cui istinti e ormoni prendono il sopravvento, porta a frustrazione e percezione di scarsa autoefficacia (non faccio quindi non imparo quindi evito di fare per non fallire). Mettiamoci un futuro senza certezze del domani, una pandemia in corso che limita gli spostamenti bloccando i contatti fondamentali e la ricetta è pronta.
Così, abbandonati alla noia e all’angoscia, l’unica strada rimane quella dell’esplorare l’oltre, una pseudo realtà fatta di adrenalina e autoefficacia che restituisce sensazioni di libertà, coraggio, competenza e vita. Ed ecco che spesso si ricorre all’alcol, alla droga, alla violenza, ai killer selfie, ai knockout, alle challenges virali spesso mortali, sfide ricche di sensazioni fortissime, devianze nate non più per raggiungere dei limiti ma per scavalcarli.
E’ una guerra spietata quella che sentono dentro e ce lo stanno dimostrando in tutti i modi, arrivando a volte persino al suicidio.
Ora tocca a noi ascoltarli, senza giudicarli e senza pretendere da loro chi vorremmo che fossero, ma accettiamoli, comprendiamoli e aiutiamoli con tutti gli sforzi che stanno facendo per crescere in un mondo così astioso come l’attuale. Hanno bisogno di noi, figure di riferimento, autorità competenti e persone da stimare che possono insegnare loro come sconfiggere lo sconforto e la frustrazione, per recuperare i sogni perduti e per poter credere che dopo ci sarà qualcosa di buono per cui valga la pena lottare ma soprattutto, per cui valga la pena vivere.
Mi è capitato, recentemente, di sentire spesso questa domanda attraversarmi la mente. Pensandoci credo che incontrare costantemente persone nuove, approfondire la conoscenza di persone che conosco da tempo, ma soprattutto, vedere crescere figli adolescenti possano forse essere gli inneschi per questo tipo di interrogativo.
Professionalmente incontro le persone e sono profondamente impegnata nel tentativo di comprendere loro ed il mondo che le circonda. Nella mia vita privata frequento amici che posso dire di conoscere da tempo eppure ho sempre la sensazione che qualcosa mi sfugga. Di fronte a mio figlio in rapida e disarmante trasformazione, poi, mi sento talvolta priva di bussola e disorientata. Ed è mio figlio, me lo sono visto crescere giorno per giorno. Ho cercato di stare attenta e di non perdermi nulla della sua evoluzione, eppure…
Eppure mi trovo a dire che forse non lo conosco davvero. E la domanda si ripresenta: cosa significa conoscere una persona? I vari sistemi psicologici hanno dato, nel tempo, vari tipi di risposte a questa domanda, ma nessuna è davvero esauriente. Mi sembra che conoscere una persona non equivalga a conoscerne la storia, misurarne i processi cognitivi, valutarne emozioni e motivazioni, né che sia sufficiente mappare il sistema di relazioni in cui è immersa.
Nel costruttivismo diciamo che per conoscere una persona dobbiamo comprendere che cosa è fondamentalmente impegnata a fare. Credo sia una buona idea ed un ottimo punto di partenza. Se comprendo, infatti, che la mia amica è fondamentalmente impegnata a non essere di peso sulle altre persone, non mi stupirò quando non mi dirà che sta male o se non mi chiederà aiuto quando ne potrebbe avere bisogno. E dovrò stare attenta alle proposte che le farò: c’è il rischio che mi compiaccia per non darmi un dispiacere… Sapere che cosa è fondamentalmente impegnata a fare mi permette di anticipare a grandi linee, ed a volte in modo più raffinato, cosa farà e come si sentirà in una certa situazione. Per farlo dovrò guardare alle varie situazioni dal suo punto di vista, attraverso i suoi occhi: dovrò essere in grado di capire cosa esse significhino per lei. ma per guardare il mondo dal suo punto di vista un po’ la devo già conoscere…
Ecco allora che conoscere una persona mi sembra il frutto di un processo ricorsivo: provo a guardare il mondo dai tuoi occchi, anticipo cosa potresti fare in quella situazione, vedo se lo fai… e se lo fai posso dire di conoscerti, almeno relativamente a quell’aspetto, altrimenti c’è qualcosa che non torna… devo mettere in discussione un pezzo della mia comprensione di te e riprovare.
Il che potrebbe anche funzionare, se l’altro si limitasse ad “essere se stesso” e a “fare se stesso” in maniera coerente e stabile nel tempo. Cosa che precisamente le persone non fanno, per fortuna. Le persone cambiano. A volte i cambiamenti sono minuscoli, altre un po’ più importanti, altre ancora considerevoli. Ed allora scopriamo che non riusciamo più a capire così bene, ad anticipare così efficacemente. Ci sentiamo sorpresi, spiazzati, a volte molto spaventati. Quante volte abbiamo sentito dire, o abbiamo detto: “Ma, non è da lei/lui, non ha mai fatto così, non me lo aspettavo proprio!”
Talvolta siamo così confusi da non riuscire a prendere atto del fatto che, evidentemente, qualcosa non è più come prima e cerchiamo di fare tornare l’altro nell’alveo della nostra passata conoscenza di lui. Per cui, se il nostro adolescente improvvisamente non ci racconta più nulla, niente, non ce la facciamo ad accettarlo… e insistiamo, proviamo in un altro modo, lo facciamo sentire in colpa, lo minacciamo… Siamo così affezionati alla nostra passata comprensione di lui – comprensione che ci dava anche un preciso posto nella sua vita – che non riusciamo a mollarla, perchè mollarla implicherebbe anche lasciare andare una parte di noi, la parte di noi che aveva un certo ruolo con quella persona che era così come era, nella relazione con noi.
Quindi, riassumendo, possiamo dire di conoscere un po’ l’altro quando riusciamo a guardare il mondo dal suo punto di vista e ad anticipare come lui si sentirà ed agirà in una certa situazione, ma, siccome l’altro non è fermo ma in continuo cambiamento, possiamo prevedere che spesso la nostra conoscenza si dimostrerà incompleta o sbagliata. Sembra che siamo arrivati ad una specie di paradosso: conoscere l’altro significa sapere di non conoscerlo davvero.
Ora che lo guardo bene, questo paradosso mi piace tantissimo, perché la consapevolezza che la mia conoscenza dell’altro (o dell’altra) è sempre in procinto di mostrare i suoi limiti non può che tenere sempre aperti la mia curiosità ed il mio interesse nei suoi confronti, mi impegna a mettermi in gioco con lui (o con lei) senza mai dare nulla per scontato, e mi porta ad una continua rimodulazione della nostra relazione: infatti se l’altro cambia, cambia anche la sua relazione con me.
Faticoso? A volte può esserlo molto (cfr. l’adolescente di cui sopra), ma sicuramente entusiasmante. Disorientante, più spesso del gradito, ma vitale e vivo, anche un po’ misterioso, se volete, che, a mio avviso, non guasta.
Ti svegli col suono della radiosveglia che dedica canzoni a coppie dello stesso sesso. Non appena ti siedi per fare colazione, il tuo sguardo cade sulla scatola dei cereali che raffigura i benefici delle vitamine e dei minerali contenuti attraverso una famiglia che corre in un campo di grano: due padri, il loro figlio e un setter irlandese. Accendi la televisione e trovi una trasmissione in cui parlano dei nuovi ritrovati cosmetici per le drag queen.
Esci per andare a lavoro, incroci alcuni vicini che ti salutano: Melissa e Iris e più avanti Giovanni e Michele. Non appena sali sulla metro, guardi la pubblicità che hai intorno per passare il tempo: la più conveniente assicurazione di viaggio per le coppie omosessuali, la pubblicità del reggiseno: “Fatevi avanti, ragazze”.
Alla fermata successiva sale un uomo e qualcosa ti fa sospettare che anche lui sia eterosessuale. Lui incrocia il tuo sguardo e ti fa un sorriso come segno di averti riconosciuto. Tu pensi: “Allora sei anche tu etero, ma forse nessun altro qui lo ha notato”! Ridi tra te e te e ti diverti dell’esclusività del contatto.
Arrivi a lavoro, una tizia dell’amministrazione sta mostrando delle fotografie delle vacanze che ha appena fatto con la sua fidanzata a Lesbo. Non appena ti avvicini al gruppo, ti viene chiesto: “Dove hai trascorso le tue ultime vacanze?”. Tu ammetti che eri a Corfù, una destinazione ben nota per le vacanze eterosessuali, e ti chiedono con chi ci sei stata. Alla fine della giornata, le persone vanno per un drink al gay bar più vicino. Alcuni portano i rispettivi partner. Tu inviteresti il tuo, sapendo che potrebbero esserci in giro dei colleghi? Colleghi di cui non conosci le opinioni sull’eterosessualità. Oppure vai per un paio d’ore e poi vai via? Senza davvero altre valide alternative, decidi di andare dritta a casa. Non appena prendi la decisione, ti arriva un sms del tuo fidanzato che dice di incontrarvi alla fermata della metro sotto casa, visto che anche lui sta rientrando. Tu sorridi e un collega che non conosci bene cattura il tuo sguardo e ti dice: “È un messaggio della tua ragazza? Come si chiama?”. Che fai? Menti o dici di essere troppo impegnata per una relazione? Ti chiedi quale sarebbe la loro risposta se uscissi allo scoperto: accettazione completa; totale mancanza di interesse e cambio di argomento a causa dell’imbarazzo; oppure potrebbero immaginare che adesso hanno la facoltà di farti delle domande personali visto che “alcuni dei loro migliori amici sono eterosessuali” e anche loro sono stati in un bar per etero e non hanno alcun problema, tipo: “Quindi da quando sai di essere etero?” “Che peccato, non avrei mai detto fossi etero” “I tuoi genitori lo sanno?” “Il sesso è meglio?”
Alla fine raggiungi la fermata della metro di fronte casa e, come promesso, il tuo fidanzato è lì che ti aspetta. Senti un senso di sollievo nel vederlo e realizzi quanto sei stanca. Ma lo accogli baciandolo davanti a tutte le persone che ci sono intorno? Non appena ti incammini verso casa e percorri una strada tranquilla, cominciate a prendervi per mano, contenti del contatto. All’improvviso, un gruppo di giovani gira l’angolo e voi li lasciate passare. Avranno visto che vi tenevate per mano? Andranno a dire qualcosa in giro per deridervi? O peggio ancora, potrebbe degenerare in violenza? Subito affrettate il passo, arrivate dietro la porta di casa e ve la chiudete alle spalle insieme a un senso di sicurezza.
Decidete di ordinare una pizza. Il tuo compagno è in cucina quando suona il campanello e non realizza che tu hai già aperto. Ti dice che va lui ad aprire e tu noti che l’uomo della pizza sta cercando di nascondere una risata alla vista del tuo fidanzato che entra nell’ingresso dietro di te.
Vi sedete sul divano e accendete la TV. Niente incontra il vostro gusto:
Rai 1: il film “Quando Giovanni incontra Enrico”.
Rai 2: una rassegna della versione contemporanea di Romeo e Dario.
Rai 3: i video più divertenti sui matrimoni omosessuali.
Canale 5: il Grande Fratello, con la puntata in cui il concorrente etero esce allo scoperto.
Italia 1: il miglior sesso gay.
Decidi allora di sfogliare una copia dell’unico giornale per etero che ti sei ricordata di prendere l’ultima volta che sei stata in centro, visto che non puoi prenderlo nel tuo quartiere. Resti sorpresa dalla notizia di una manifestazione di baci dopo che a una coppia etero era stato chiesto di lasciare la sala d’attesa dell’aeroporto a seguito di una manifestazione pubblica di affetto.
Comunque, resti delusa quando leggi che la legge 29 ancora una volta non è stata votata dal parlamento, nel timore che, qualora le relazioni etero venissero riconosciute almeno nelle scuole, potrebbero portare le giovani adolescenti a voler sperimentare uomini più grandi, o i ragazzi donne più grandi. “Questo paese ha bisogno di mantenere alti i valori omosessuali che lo fortificano”.
Decidi di non leggere più il giornale e prendi il libro che hai appena comprato con tanto entusiasmo perché il protagonista era etero. Alla fine, scopri che il personaggio era una mediocre rappresentazione di tutti i clichès eterosessuali.
La fine di un altro giorno nell’Homoworld.
Homoworld è un testo ideato da Butler nel 2004, è la storia di una persona eterosessuale che vive in un mondo dove la maggioranza della gente è omosessuale.
Tratto da “Educare alla diversità a scuola – scuola secondaria di primo e di secondo grado”, opuscoli tratti dal progetto omonimo, destinato alle scuole di ogni ordine e grado. Commissionati all’Istituto A. T. Beck –Terapia cognitivo-comportamentale di Roma da parte dell’UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali.
Zona rossa, zona gialla o zona arancione. Bar e ristoranti tornano a chiudere le serrande, i negozi hanno le ore contate e le scuole perennemente in ballo tra lezioni in presenza e lezioni online. Non si parla d’altro ormai, il Covid-19 è tornato al centro di ogni comunicazione, protagonista indiscusso delle nostre giornate. Ci troviamo di nuovo costretti a seguire delle direttive che limitano inevitabilmente il ciclo delle nostre giornate, cambiano le abitudini e non siamo più liberi. Oltre agli effetti più strettamente pratici e concreti, la pandemia sta portando ad una serie di conseguenze psichiche importanti e i più recenti studi lo dimostrano: ansia, panico, fobie, depressione e angoscia risalgono come un deja-vu, ma non è un deja-vu. E’ la seconda ondata della pandemia e coinvolge tutto il mondo, grandi e piccini. Ma gli adolescenti? Quella miriade di ragazzi e ragazze che in questo delicatissimo momento storico, stanno costruendo le fondamenta per il loro futuro e le basi della loro personalità. Quella fetta di popolazione che vive nel limbo tra la fanciullezza e l’età adulta, tra l’abbandono di un mondo, quello infantile, non più adatto alle loro esigenze e il lancio verso un mondo ignoto, quello dell’età adulta, in cui vengono proiettati bisogni, aspettative, sogni e desideri. Loro dunque, dove li abbiamo lasciati? Un pò come con i banchi con le rotelle, ci si è concentrati così tanto sulla didattica scolastica, sulle lezioni in presenza oppure online, su una parte del tutto, che si è perso il focus della una visione più generale e delle vere priorità che caratterizzano il mondo adolescenziale, che non è solo la scuola. DAD (Didattica A Distanza) o DDI (Didattica Digitale Integrata), qualsiasi acronimo il Ministero voglia utilizzare, il principio però, non è la didattica fine a se stessa, perchè la scuola non è solo didattica, ma anche rapporti sociali, relazioni, confronti, fuori e dentro la scuola, l’esporsi al mondo con tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti, stili personali, modi di vestire, truccarsi e comunicare, che solo l’esperienza sul campo può offrire. Uscire di casa, andare a scuola, andare a basket o a musica, significa proprio questo: vivere quella linfa vitale e quegli istinti che devono essere vissuti, toccati, conosciuti, per poter costruire la propria identità, creare la propria strada, con la tenacia e l’autoefficacia formatesi durante queste fondamentali esperienze di vita che danno forma e senso alla loro esistenza.
Tutto questo è stato spostato sulla rete ormai da un pò, soprattutto con l’incremento dei social network e di tutte quelle piattaforme che portano alla creazione di un’identità digitale e, con essa, una fitta rete di relazionidigitali che favoriscono costanti confronti e ricerca di conferme. Come si fa quindi, a fare esperienza online, dove ogni situazione e ogni relazione viene creata e gestita ad hoc, su misura di un proprio avatar che difficilmente rispecchia l’identità della vita reale, ma un’identità ideale e immaginaria spesso irrealizzabile nella realtà. Come si fa a fare esperienza dietro uno schermo, dove emozioni e sentimenti vengono digitalizzati o scansionati in jpg o, meglio ancora, in pdf così tutti possono leggerli e nessuno può modificarli. Tanti sono i sentimenti che non riescono ad esprimersi, perchè per poterlo fare hanno bisogno di essere compresi e contenuti con empatia, condivisione, contatto e presenza.
E ora, con la pandemia, dove qualsiasi forma di contatto o presenza è vietata, tutto questo si è amplificato a dismisura, ingigantendo il bisogno di uscire, di vedere gli amici, di mostrarsi al mondo e di essere liberi. Più di tutti quindi, in questa pandemia, ci stanno rimettendo loro, i bambini di ieri e gli adulti di domani, che si trovano bloccati e rassegnati a schiacciare impulsi e desideri sotto un cuscino.
Rassegnazione, frustrazione, delusione e tristezza: queste sono le emozioni che prevalgono; di rabbia ce n’è poca, perchè la rabbia nasce quando c’è un fuoco dentro che brucia, un’energia vitale che arde per un desiderio o un obiettivo che in qualche modo ci viene ostacolato, e ci si arrabbia, sii reagisce, si lotta. Ma oggi, per la gran parte dei nostri adolescenti quel fuoco dentro si è trasformato in una piccola fiaccola alimentata da una lieve speranza che “le cose passino in fretta e che si sistemi tutto al meglio”. E più le delusioni procedono, più quel fuoco rischia di spegnersi, come si spengono impulsi e istinti, essenza vitale del corpo umano (e non solo adolescenziale). E’ facile capire, quindi, come la curiosità, l’intraprendenza e la motivazione inizino a mancare e come dall’essere attivi si passi all’essere passivi verso il mondo, il mondo esterno, ma soprattutto il mondointerno.
D’altronde come fa un ragazzo, oggi come oggi, ad immaginarsi un futuro? o semplicemente a proiettarsi, tra qualche anno, in vesti di chi vorrebbe essere? Il futuro, lo indica il nome stesso, non è mai stato certo per nessuno, però, costruirlo in un presente più o meno chiaro e ricco di opportunità di crescita è ben diverso dal costruirlo in un presente di totale confusione e incertezza: in questo momento è difficilissimo per i nostri giovani definirsi, percepire i loro bisogni e desideri. Se somministrassimo loro un tema di italiano con la classica consegna “descriviti e racconta di te” penso che non potremo proporgli un lavoro più arduo e angosciante.
Occorre quindi aiutarli a trovare la motivazione e la voglia di investire su se stessi, oggi più che mai; aiutarli ad avere massimo contatto con la loro sofferenza, la loro delusione e la rabbia nascosta dietro un profondo senso di frustrazione e rassegnazione. Dobbiamo aiutarli ad esprimersi, ad urlare, a pretendere e lottare per il loro futuro, per un ritorno alla vita reale molto diversa e, per certi aspetti anche spaventosa, della realtà digitale. Compiere questo passaggio, abbandonare il Sè virtuale/ideale e rientrare nelle vesti del complesso Sè reale, non sarà affatto semplice. Come non sarà semplice riprendere contatto con quelle relazioni difficili che il digitale ci consentiva di dimenticare.
Cari adulti, cari mamma e papà: il Covid e le restrizioni che esso porta con sé non devono diventare dei muri insormontabili, ma opportunità di relazione, di stare assieme, con noi stessi e in famiglia. Coltivare tempo e spazio di vitareale anziché connessi ai social o alla rete. Il mondo dei vostri figli è prevalentemente tecnologico oramai e non possiamo eliminare questa componente importante dalla loro vita, essendo quello l’unico contatto col mondo esterno, potete però insegnargli e guidarli ad un utilizzo consapevole e limitato di dispositivi elettronici, smartphone e tablet. Comunicate con la loro lingua tecnologica, partecipate alla loro vita digitale ma insegnategli a utilizzare lo smartphone per chiamare o scrivere agli amici, usare il pc per le videolezioni e lo studio; aiutateli ad allontanarsi dalla costante ossessione dei social network, dalle lunghe attese dei like, dei feedback rinforzanti che non fanno altro che alimentare il loro Sè precario fatto spesso di incertezze e timori. Ascoltate i loro bisogni, le loro necessità, aiutateli a riprendere in mano le loro passioni e i loro interessi perchè le risposte non si trovano dietro uno schermo ma dentro di loro, dentro di voi insieme a loro, nelle scelte che fanno, nella vita che conducono e negli spazi che vivono.
Infine, cari ragazzi, care ragazze: avete tutta la ragione per essere delusi e frustrati dalla realtà che vi si pone davanti, però il futuro siete voi e il futuro, per cambiare, ha bisogno di un fuoco che arde e che lotta per perseguire obiettivi e desideri. E noi, come adulti, vi aiuteremo ad accendere quel fuoco e quell’energia vitale per pianificare gli anni che verranno, senza gli sbagli delle generazioni passate e con la resilienza di chi ha saputo reggere una guerra dentro e la tenacia di chi ha saputo pazientare e vincere.
A costo di ripetere concetti triti e ritriti, vorrei affrontare con voi la questione “voto”. La ragione per cui credo sia importante ribadire alcuni punti è che continuo ad incontrare ragazzi e ragazze ossessionati dai voti, dalle medie e da tutto quello che ruota attorno all’idea di prestazione nel mondo della scuola.
I ragazzi e le ragazze che vedo non sono studenti che arrivano a stento alla sufficienza, sono invece persone che si impegnano molto ed ottengono buoni, o ottimi, risultati di cui, però, non riescono a godere per due motivi: il primo è che, dal loro punto di vista, per quanto un voto sia bello non lo è mai abbastanza; il secondo è che sono comunque talmente terrorizzati dall’idea di prendere un brutto voto, alla prossima interrogazione o verifica, che la soddisfazione e la gratificazione del buon risultato di ora durano, se durano, lo spazio di qualche secondo… e forse è più sollievo – per il brutto voto sventato – che reale appagamento…
Vorrei sottolineare che non si tratta di “capricci” o di isterismi da prime donne, la loro sofferenza è reale ed intensa. E lo è perchè sui voti questi ragazzi e queste ragazze misurano la loro intelligenza ed il loro valore personale. E’ per loro abbastanza scontato pensare che chi prende brutti voti (dal loro punto di vista lo è tutto ciò che è sotto l’8) è uno stupido e che, quindi, se vogliono capire se sono o meno intelligenti, è ai loro voti che devono chiedere il verdetto. Ed è altrettanto scontato per loro pensare che solo chi è intelligente vale, chi non lo è non vale nulla. Credo peraltro che queste credenze siano condivise in gran parte anche dal mondo degli adulti, altrimenti non se ne spiegherebbe la pervasività nei ragazzi.
Mi piacerebbe pensare che sia un’operazione superflua tentare di confutare queste idee, ma l’evidenza indica che non è proprio così, che forse è necessario ribadire e ripetere, affinchè le consapevolezze si possano consolidare.
Cominciamo dalla convinzione che il brutto voto sia frutto di stupidità. Immagino che chi legge abbia chiaro in mente che un brutto voto possa essere il frutto di scarso impegno, comprensione insufficiente, giornata storta (mal di testa, pancia, febbre…), preoccupazione ed ansia. Sì, perchè quando siamo molto preoccupati ed in ansia, la nostra mente è talmente sovraccarica di pensieri legati ai nostri timori, che non ha proprio lo spazio per elaborare efficacemente le consegne di un compito di matematica, o impostare la traduzione di una versione di greco, o costruire la scaletta di un testo di italiano. Ed allora accade che, nonostante un’ottima preparazione, il risultato della prova non sia eccellente. Cioè, può accadere che il timore di prendere un brutto voto generi una situazione di confusione mentale tale da generare proprio le condizioni per una prestazione scadente. Tra ciò che sappiamo e come lo dimostriamo, insomma, ci sono molte variabili, anche, ma non solo, di tipo emotivo.
Tuttavia, forse è venuto il momento di capire cosa sia questa stupidità. Mi si potrà rispondere che essere stupidi è l’opposto di essere intelligenti. Ma, anche accettando questa definizione per negazione, ci rimane da definire cosa sia l’intelligenza. Ed a questo punto avremmo bisogno di interi scaffali di biblioteche di psicologia, perchè è questo un tema su cui fin dagli albori della disciplina si è esercitata la riflessione degli studiosi. Io però non vorrei andare a ripescare la letteratura scientifica. Intanto vorrei cercare di capire cosa intendono i ragazzi, ed i loro genitori, con la parola intelligenza e poi mi riserverei di proporre un diverso punto di vista. Ho l’impressione che i ragazzi – in particolare quelli che temono i brutti voti – spesso pensino all’intelligenza come ad una sorta di app che possono avere o non avere nel loro sistema cognitivo e di cui emerge la presenza o l’assenza nei momenti delle verifiche e delle interrogazioni. Una sorta di dotazione di base che, o ce l’hai o non ce l’hai. Credo anche che spesso ereditino questa concezione dal mondo degli adulti che li circonda, mondo che tende ad enfatizzare, nella prestazione di atleti di eccellenza, ma anche di musicisti, attori, artisti, scienziati… il ruolo del talento a scapito di quelli della passione, dell’impegno, del duro lavoro e della perseveranza di fronte agli insuccessi (che sono i veri determinanti della prestazione eccellente).
Ricapitolando, fino ad ora, fra le nostre cause possibili per un fantomatico brutto voto, non abbiamo ancora rinvenuto la “stupidità”. Forse anche perchè, se ci fermiamo a pensare un attimo, ci rendiamo conto che le verifiche riguardano i contenuti di un insegnamento non le abilità delle persone. Ma procediamo con la nostra riflessione. Ribadisco, fino a qui possiamo dire che fra le cause di un brutto voto non sembra esserci la stupidità.
Ora, se i ragazzi partono dal presupposto che l’intelligenza sia una dotazione innata, è chiaro che vivono le verifiche come il momento in cui verrà sancito se sono stupidi o meno. Questo presupposto, però, non è vero: l’intelligenza non è una caratteristica “genetica” che alla nascita o c’è o non c’è, come gli occhi azzurri.
Dal mio punto di vista l’intelligenza è un qualcosa che ha molto a che fare con la capacità di imparare. Ritengo che questo un punto di vista sia utile almeno per un paio di ragioni. Innanzitutto ci permette di focalizzarci su qualcosa, l’imparare, di cui possiamo fare esperienza diretta ed inoltre, poiché è evidente che tutte le persone possono in generale imparare, ci permette di concepire l’incapacità di imparare, la stupidità, come un’eccezione alla regola, eccezione che deve essere spiegata di volta in volta da ragioni specifiche.
Ad esempio, sappiamo che esistono dei disturbi dell’apprendimento che hanno a che fare con la difficoltà specifica ad apprendere a svolgere alcune attività, come leggere o scrivere, ma non altre. Una persona con dislessia è in grado di imparare tantissime cose, è molto intelligente, ma fa molta fatica ad apprendere i meccanismi della lettura. Oppure sappiamo che gravi condizioni di denutrizione pregiudicano la capacità di imparare, perchè, in questo caso, sono proprio i meccanismi neurobiologici di base ad essere messi in difficoltà dalla mancanza dei nutrienti necessari al corretto funzionamento dei circuiti neuronali. Sappiamo anche che la nostra capacità di apprendere dipende tantissimo dalla nostra attenzione e sappiamo anche che quest’ultima viene molto influenzata dalle nostre emozioni. Per cui, banalmente, di fronte ad un medico che ci comunica una diagnosi, agitati come siamo, non riusciamo ad essere attenti e non memorizziamo bene ciò che ci dice.
Insomma ci siamo capiti: tutti possiamo imparare e, se a volte non ci riesce, la cosa interessante ed utile da fare è capire perchè, non pensare che siamo stupidi (=incapaci di imparare), perchè è evidente che non lo siamo (magari siamo dei maghi di Fortnight, o siamo in grado di suonare la Patetica di Behethoven senza spartito, o ancora ricordiamo perfettamente i compleanni di tutti i nostri amici). Allora, come adulti potremmo provare a trasmettere ai ragazzi la curiosità per i loro processi mentali piuttosto che dei giudizi sulla loro persona, l’entusiasmo per l’apprendere piuttosto che la paura dello sbagliare, e la serenità della consapevolezza che sì, sono in grado di imparare e quindi sì, sono intelligenti.
Un’ultima breve riflessione sul collegamento fra valore personale ed intelligenza.
Potete in parte intuire la mia linea argomentativa, immagino. Se con intelligenza intendiamo la dotazione di base che o c’è o non c’è, legare il valore personale all’intelligenza significa affermare che esistono persone che valgono e persone che non valgono. Legare, dall’altro lato, il valore personale all’intelligenza come capacità di apprendere significa, di fatto, affermare che tutte le persone hanno valore, ma apre alla possibilità che questo valore possa essere situazionalmente diminuito (come negli esempi fatti sopra), temporaneamente diminuito (come nei casi legati a patologie neurologiche reversibili o stati di shock) o definitivamente azzerato (come nei casi di gravi traumi cranici e demenze). Credo che la soluzione possa essere, semplicemente, pensare ed insegnare ai nostri ragazzi che come esseri umani il loro valore è assoluto e non risiede nella loro biologia, nella loro genetica, nella loro fisiologia o nella loro prestazione, ma nel loro essere persone, ai loro stessi occhi ed agli occhi delle altre persone.
Il termine identità di genere indica il genere in cui una persona si identifica, ovvero se si percepisce uomo, donna o se si inserisce in qualcosa di diverso da queste due polarità: questa consapevolezza interiore porta, dunque, la persona a dire “io sono un uomo”, oppure “io sono una donna”.
L’identità di genere, come abbiamo già visto le scorse settimane, è un costrutto che non riguarda direttamente l’orientamento sessuale e non deriva dal sesso biologico: sebbene, nella maggior parte delle persone, l’identità di genere coincide con l’identità biologica di nascita, ci sono dei casi in cui, invece, non c’è corrispondenza tra i due costrutti e la persona prova malessere, disagio nella propria identità biologica.
Proviamo a spiegare e a chiarire.
L’identità di genere è un tratto di personalità che possiamo definire:
precoce, poiché inizia a costruirsi durante la primissima infanzia, ovvero già verso i 3/4 anni di età e prosegue per tutta la vita, fino a stabilizzarsi nel periodo post adolescenziale;
profondo, perché ha a che fare con qualcosa di nucleare per la persona, ovvero con una percezione di sé molto intima, difficile da spiegare e da definire con le parole;
duraturo, dal momento che si stabilisce presto e permane per il resto della vita della persona.
Nel corso dell’adolescenza, la definizione e la costruzione della propria identità assume un carattere fondamentale, poiché si tratta di una fase di ridefinizione del Sé e dell’immagine di Sé che si mostra agli altri e che si percepisce: in questo periodo della vita, dunque, la persona realizza un’idea di sé che assume sempre maggiore consapevolezza. E tale consapevolezza si inserisce, a sua volta, nella cultura di appartenenza e nel periodo storico a cui facciamo riferimento, dal momento che l’identità di genere è un costrutto strettamente legato al contesto in cui la persona è inserita – pensiamo, ad esempio, ai “due spiriti” della cultura dei nativi americani, agli eunuchi o ai “fa’afafine” di alcune società polinesiane, oppure alle persone definite “hijra” in India e “khawajasiras” in Pakistan.
Essere/sentirsi maschi o femmine, oggi o ieri, in questa o in un’altra cultura cambia notevolmente il significato che l’identità di genere possiede, proprio alla luce delle altre componenti dell’identità sessuale (ruolo di genere e orientamento sessuale) ed in relazione ad esse, sebbene non vadano confusi.
Anche il corpo diventa una parte fondamentale nel processo di costruzione dell’identità, sebbene non sia esso a predeterminare né a causare le forme e i contenuti psicologici personali, le attitudini, le capacità e le possibilità della persona. Essere in un corpo e non riconoscerlo come proprio è un’esperienza che è difficile comprendere: è come indossare una scarpa destra al piede sinistro. Di per sé non è “sbagliato” – sempre di piedi e scarpe si tratta – ma camminare in quella condizione è molto scomodo, e rischia di procurare molto dolore. Per molto tempo si è detto che le persone che si identificano in un genere diverso da quello che il loro corpo dimostra soffrissero di “disturbo dell’identità di genere” e che questo fosse un disturbo mentale. Solo nel 2013 il DSM – Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (che raccoglie tutti i disturbi mentali) ha smesso di parlare di “disturbo” ed ha usato il termine “disforia di genere”, un’espressione che si usa per indicare il disagio sperimentato da alcune persone che non si riconoscono nel sesso dei loro organi genitali: appunto, come un piede sinistro in una scarpa destra.
La disforia può avere diversi gradi e ci sono persone che non si identificano pienamente con il proprio sesso biologico (definite “transgender”), altre per le quali il disagio rispetto al proprio sesso biologico è talmente forte che sono disposte a sottoporsi a cure ormonali e operazioni chirurgiche con l’obiettivo di conformare il proprio corpo alla propria identità di genere (in questo caso si usa il termine “transessuale”).
La disforia di genere è un fenomeno complesso che, sebbene raro, ha a che fare con l’adolescenza e con la ricerca di sé tipica dell’adolescente. Da tempi immemori se ne discute, e, come abbiamo visto, è presente in molte culture, anche in quelle molto lontane dalla nostra. Per questo motivo, in un momento storico in cui si discute di leggi a tutela della persona, di prevenzione alla discriminazione e alla transfobia, ribadiamo che è importante conoscere i termini corretti e provare ad indagarne i significati, in maniera tale da capire di cosa si sta parlando e, soprattutto, da comprendere la necessità di difendere l’unicità di ogni persona.
Affronto oggi in questo articolo un argomento a me molto caro: il rapporto fra adolescenti e sport.
Le statistiche dicono che l’adolescenza è il momento in cui molti fra i ragazzi e le ragazze abbandonano la pratica sportiva. Le ragioni sono molte ma le prevalenti hanno a che fare con l’aumento degli impegni scolastici e con fattori legati alla relazione fra allenatori ed atleti. A mio avviso hanno una certa importanza anche variabili legate alla struttura dello sport giovanile: in adolescenza la pratica sportiva diventa agonistica e 1) non tutti hanno le doti per la pratica agonistica e 2) non tutti i ragazzi e le ragazze hanno voglia di investire nello sport così tanto del loro tempo e delle loro energie: molti vorrebbero semplicemente continuare a fare un po’ di movimento in compagnia, ma non ci sono molte opportunità in questa direzione.
Quindi mollano. Ed è un peccato.
Abbiamo ospitato in queste pagine il contributo di Piero Della Putta che ci ha incantato con l’intensità delle parole con cui ha raccontato la sua esperienza sportiva in adolescenza. Per Piero sport ha significato, in adolescenza, amicizia, impegno, maturazione, conoscenza di sé e degli altri, costruzione di un futuro professionale, benessere e salute.
Ed è proprio così un po’ per tutti gli sportivi, sebbene secondo declinazioni e con sfumature specifiche ed individuali.
Ma non è questo l’aspetto su cui mi voglio concentrare ora. Nel rapporto fra i ragazzi e le ragazze e lo sport hanno un ruolo non secondario anche i genitori e c’è un loro comportamento che io trovo estremamente discutibile e che mi fa molto innervosire. Occupandomi anche di sport ho spesso sentito i genitori dire qualcosa tipo: ha tanto da studiare, non ha tempo per allenarsi.
Ecco… non ci siamo, non ci siamo proprio. Salvo eccezioni puntuali, legate a concomitanze occasionali di verifiche ed interrogazioni plurime, i ragazzi e le ragazze possono allenarsi e studiare. Per gli atleti il cui impegno sportivo è particolarmente intenso, poi, grazie ad un protocollo di intesa fra Coni e Miur, le scuole possono riconoscere alcune facilitazioni specifiche, che permettano la conciliazione degli impegni presenti in entrambi i fronti.
Ragazze e ragazzi possono quindi, appunto, studiare ed allenarsi, anzi, mantenendo attivi entrambi gli impegni imparano ad organizzarsi, ad ottimizzare il loro tempo, ad evitare di disperderlo inutilmente.
Inoltre i genitori possono essere rassicurati dalle ricerche che dimostrano ormai ampiamente come l’esercizio aerobico stimoli la comparsa di nuovi neuroni nel cervello, in particolare nelle aree deputate all’apprendimento. In generale l’attività fisica stimola la produzione del fattore neurotrofico cerebrale (Bdnf – brain-derived neurotrophic factor) che consente il rimodellamento e la crescita delle sinapsi dopo l’esposizione a stimoli nuovi. Il Bdnf in altre parole facilita l’apprendimento e permette al cervello di essere più resistente ai danni derivanti da traumi ed infezioni. Ed ancora, l’esercizio fisico regolare aumenta il flusso di sangue nel cervello, alterandone in meglio la struttura e la funzionalità. Infatti l’esercizio stimola la sintesi, a livello muscolare, di una molecola chiamata fattore di crescita dell’endotelio vascolare (Vegf – vascular endothelial growth factor) responsabile della crescita della rete dei minuscoli vasi sanguigni che portano l’ossigeno e le sostanze nutritive alle cellule. Dai muscoli, infatti il Vegf si diffonde in tutto il corpo, anche nel cervello, dove, appunto, contribuisce alla migliore nutrizione dei neuroni.
Altre ricerche si sono invece concentrate sul cambiamento delle caratteristiche di personalità in funzione dell’esercizio e ciò che evidenziano è che la mancanza di esercizio è correlata ad una diminuzione dell’apertura mentale, dell’estroversione e dell’amicalità.
Infine l’attività fisica ha un ruolo importante nel migliorare l’umore, tanto che vi è una linea di ricerca impegnata a cercare di capire se camminare, ad esempio, possa essere considerato un fattore terapeutico nella cura della depressione.
Insomma ce n’è abbastanza per riflettere: praticare uno sport fa bene al corpo ma anche alla mente, se poi si tratta di un gioco sportivo (pallavolo, rugby, pallacanestro, calcio, tennis etc.) ai benefici dell’attività aerobica si aggiungono i benefici legati al giocare. Di nuovo: le ricerche dimostrano come giocare favorisca la produzione del Bdnf nelle aree cerebrali frontali e prefrontali, quelle legate allo sviluppo delle capacità di riflessione, autocontrollo, empatia, ragionamento prosociale, autoregolazione emotiva, pianificazione ed immaginazione, creatività.
Credo che come genitori dovremmo quindi considerare la pratica sportiva un elemento necessario al benessere generale dei nostri ragazzi.
Nel momento in cui cerchiamo di definire l’identità sessuale di una persona dobbiamo fare riferimento ad un costrutto molto complesso, che necessita prendere in considerazione quattro aspetti distinti tra loro ma imprescindibili l’uno dall’altro:
L’identità biologica – ovvero il sesso biologico con cui nasciamo, maschio o femmina, in termini di cromosomi e di anatomia sessuale;
l’identità di genere – ovvero, come ci sentiamo, la percezione di noi come a nostro agio o meno all’interno del nostro corpo. Ha a che fare con il percepirsi uomo o donna;
il ruolo di genere – ovvero tutti quei comportamenti che una persona adotta come manifestazione pubblica della propria identità di genere. Ha a che fare con come ci si percepisce all’interno di una società e come la società ci percepisce;
l’orientamento sessuale – ovvero un “modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso gli uomini, le donne o entrambi i sessi” (APA, 2008) e che ha a che fare con chi è la persona che ci piace e dalla quale siamo attratti fisicamente e mentalmente.
Come dicevamo all’inizio, le quattro componenti dell’identità sessuale sono strettamente legate tra di loro, nel senso che si influenzano a vicenda e i relativi significati, le percezioni che ne abbiamo, contribuiscono a costruire la complessità dell’identità sessuale.
Soffermiamoci oggi sul ruolo di genere.
Il ruolo di genere, dunque, è un insieme di aspettative rispetto ai ruoli che uomini e donne dovrebbero avere, in considerazione del periodo storico, della zona geografica, della cultura in cui sono inseriti. Queste aspettative si traducono, a loro volta, in comportamenti che la persona mette in atto per indicare agli altri la propria identità femminile o maschile:
il modo di parlare e la gestualità (es. uso delle parolacce, accompagnare le parole coi gesti)
gli attributi fisici (es. grandezza del seno, gestione dei peli, colorare i capelli)
la gestione delle emozioni (es. piangere o rimanere impassibili)
la cura di sé (es. curare il proprio corpo o meno)
il modo di vestirsi (dal colore agli accessori)
i tratti di personalità (es. socievolezza e timidezza)
i giochi e gli interessi (es. bambole o macchinine; cura della casa o informatica)
gli sport e il tempo libero (es. danza classica o calcio)
professioni e mestieri (es. camionista o insegnante della scuola dell’infanzia)
desideri e aspettative per il futuro (es. proseguire gli studi e fare carriera o restare ad accudire la casa e la famiglia)
modo di fare riferimento a sé stessi.
Alla nascita ciascuno di noi ha ricevuto un fiocco rosa, se siamo femmine, o un fiocco azzurro se siamo maschi. Questi colori non indicano soltanto il nostro sesso biologico, ma portano con sé tutte quelle aspettative a cui abbiamo appena fatto cenno, e da quel momento in poi tutto ciò che facciamo rientrerà nella dicotomia maschio vs femmina.
Fiocco rosa: “sarà una brava donnina di casa”, “quanti figli vuoi avere?”, “mi raccomando, parla bene e non usare parolacce”, “una brava ragazza sa stare al suo posto!”, “ho regalato alla mia nipotina la cucina di Barbie”, “la danza è una attività per bambine, vedrai che ti farà venire un corpo armonioso e quando diventerai grande i ragazzi ti guarderanno”, “fare la maestra è un lavoro che solo le femmine possono fare”.
Fiocco azzurro: “dai, su, non piangere, sei un maschietto!”, “beh, è un maschio, per Natale gli regalo delle macchinine e dei camion”, “le propongo questi colori maschili: blu, azzurro e navy”, “agli uomini sta bene un po’ di panzetta”, “per l’uomo che non deve chiedere mai!”, “beh, è un maschietto, è normale che non riesca a stare fermo”, “i maschi non ne capiscono nulla di come si trattano i bambini”.
Di per sé gli stereotipi legati al ruolo di genere non sono giusti o sbagliati, proprio perché fanno parte di una cultura, sono legati ad eventi storici ben precisi, sono un modo per regolare la società stessa e per “riconoscere” il ruolo di una persona all’interno di quella società.
La questione però è un’altra: ogni qualvolta una persona non si conforma alle aspettative che la società ha costruito per lui o lei, la società stessa lo considera strano, tende a farlo sentire sbagliato rispetto ad uno stereotipo di riferimento, ad un “modello” a cui è “necessario” fare riferimento. E, possiamo aggiungere, in questo concetto c’è la base attorno a cui si costruisce il bullismo omofobico: “fai danza classica, sei una femminuccia”, “fai calcio, sei lesbica e un maschiaccio”; “quel bambino sta giocando con le bambole, sarà gay da grande”, “a quella bambina piacciono le macchinine, diventerà sicuramente lesbica”; “lei si muove proprio come un maschio”, “lui si atteggia da femmina”; “è lesbica, quindi non può avere dei figli”, “quell’educatore è gay, non voglio che stia vicino ai bambini dell’asilo”; “sei lesbica perché hai quel tono di voce”, “sono sicura che il mio parrucchiere sia gay” e via dicendo, di esempi potremmo essercene migliaia.
Gli stereotipi, nel momento in cui si trasformano in pregiudizi granitici, impediscono alla persona di scegliere, di essere quella che è, e fanno male alle femmine, tanto quanto ai maschi: una società in cui il maschio, per esser considerato tale, deve essere sempre forte, emotivamente e fisicamente, sempre un passo avanti, sempre in grado di gestire la situazione, deve raggiungere sempre i massimi livelli, e dove la femmina deve essere sempre un passo indietro, deve sentirsi chiedere quando vuole dei figli (e non SE), deve mantenere un ruolo dimesso, corre il rischio di impantanarsi in questi modelli e di perdere di vista la sensibilità e la ricchezza che maschi e femmine, indistintamente, possiedono.
“Come si fa a dirlo: non avrei conosciuto mio figlio”
“Occorre piangere e studiare”
“Ha permesso a me, genitore, di conoscere una parte del mondo di cui non conoscevo proprio l’esistenza”
In occasione dell’11 ottobre – Coming Out Day prendiamo in prestito le parole dei genitori che fanno parte dell’Associazione AGEDO (Associazione GEnitori Di Omosessuali – www.agedo.roma.it) per ricordare l’importanza del coming out: un atto di amore nei confronti di sé stessi e delle persone che ci amano.
Ma perché proprio l’11 ottobre?
Il primo Coming Out Day si è tenuto per la prima volta nel 1988 negli USA, su suggerimento di uno psicologo e di un attivista LGBT, con l’obiettivo di aumentare e rafforzare la coscienza e la consapevolezza all’interno della comunità LGBT. La data scelta, l’11 ottobre, ricorda la marcia per i diritti di gay e lesbiche, svoltasi a Washington l’anno precedente.
Quanta intrepida attesa per il rientro a questa “normalità”, a quella quotidianità che ha sempre saputo scandire, con ordinaria costanza, le nostre giornate, i nostri impegni, i nostri appuntamenti di vita. Per quanto l’abbiamo aspettata, questa rassicurante quotidianità, dopo mesi e mesi di un lockdown che ha messo un freno ai quotidiani programmi in agenda, ai progetti futuri e a quelle banali ma fondamentali abitudini che sanno di conforto e ci danno la sensazione di avere il controllo delle cose, avere in mano la nostra vita!
Quella rassicurante quotidianità che per bambini e ragazzi significa alzarsi ogni mattina per andare a scuola, fare una colazione da campioni per tenere a bada stomaco ed energie fino all’ora della ricreazione, prendere il bus e tenere il posto all’amico o percorrere la strada in auto in compagnia delle solite raccomandazioni di mamma o papà; significa anche l’entusiasmo e la voglia di ritrovarsi fuori della scuola con amici e compagni e, perché no, anche meno amici e concorrenti, perché anche loro, in qualche modo, rientrano in quella significativa famiglia, la seconda famiglia, che dà senso di appartenenza ad un gruppo, comprensione e vicinanza; significa anche didattica: interrogazioni e verifiche che hanno sempre portato quel pizzico di sale e angoscia per delle prestazioni che poi finiscono sempre con un voto, un giudizio, un numero, capace di portare l’umore alle stelle o affondare nello sconforto. Rassicurante quotidianità per i nostri giovani significa anche responsabilità scandita a piccole dosi, e l’ottica di un futuro prossimo nel prepararsi vestiti e zaino per la curiosa aspettativa del giorno dopo.
Per i più grandi invece, la rassicurante quotidianità può significare un rientro al lavoro più pacifico e distante dal pensiero dei figli bloccati a casa; può significare più tempo libero per sé: dallo sport allo svago dello shopping, le uscite in famiglia e gli appuntamenti con gli amici; rassicurante quotidianità vuol dire anche riprendere il proprio ruolo professionale, tornare alle proprie competenze lavorative, con stress più o meno annesso, e a quella sensazione di padronanza che fa sentire vivi, attivi e intraprendenti; significa anche stipendio, possibilità economica e progetti, magari lasciati in sospeso.
Dopo lunghi mesi vissuti in balìa di un Virus, direttive e regolamenti ministeriali, ognuno si riprende i propri desideri, obiettivi, oneri e doveri. Ognuno si riappropria, pian piano, della propria libertà e della propria autonomia tornando ad essere protagonista attivo e proattivo verso il futuro. Quel futuro che era stato lasciato momentaneamente da parte perchè “con sto Virus non si può sapere”; quel futuro che era stato frenato improvvisamente perchè l’incertezza era all’ordine del giorno.
E’ da poco iniziata la scuola, siamo a due settimane dalla ripresa e ancora ci sono ragazzi che quest’anno la scuola non l’hanno ancora mai vista e che, dopo un lungo, lunghissimo periodo in cui anche le vacanze estive si sono mescolate alla penombra del lockdown, si sono trovati nuovamente di fronte allo schermo di un pc in attesa della videolezione o della chiamata del compagno di classe che riferisse i compiti assegnati.
Un flashback.
Un déjà-vu.
Ecco che allora espressioni come “Sono stufo. Non ho voglia di alzarmi. Voglio tornare a scuola e basta. Svegliarmi, prendere il bus e rompermi le scatole perchè non ci sono posti” diventano lecite di fronte all’aspettativa dell’entusiasmante rientro a quella rassicurante quotidianità a cui tutti siamo ancorati. Perché sì, nel marasma dell’incertezza, anche quelle piccole, seppur scomode, incertezze diventano abitudini significative e pilastri resistenti a cui appendersi in caso di oblio. Parlo di oblio perché è difficile pensare ad un panorama fiorito, per loro, in questo momento. E’ difficile immaginarlo per noi adulti, figuriamoci per chi, come loro, non riesce nemmeno ad immaginarsi in che direzione sia il futuro, né, tanto meno, che strada intraprendere. Così sogni e desideri, già annebbiati e insicuri in partenza, faticano sempre più a trovare conferma e un collocamento stabile in quel futuro che, chissà. E’ vero che sogni e desideri sono sempre stati, per definizione, concetti astratti in cui credere e sperare. Questa volta però, in questi anni a venire, manca l’ingrediente fondamentale: la motivazione. Si è motivati nel momento in cui si crede profondamente che la scelta fatta sia valida e piacevole e che l’obiettivo porti serenità e soddisfazione, nonostante ostacoli e difficoltà. Si è motivati nel momento i cui si crede nei propri sogni. E quando si crede fermamente nei propri sogni, si possono superare tutte le difficoltà.
Banalmente, è un pò come alzarsi dal letto la mattina per andare a scuola: non importa quali siano le difficoltà, trovare posto o meno nel bus, la voglia di andare a scuola, intraprendere e seguire un obiettivo, rimane ferma.
Non è facile crescere su queste basi poco sicure, crescere e maturare la propria individualità, soprattutto se il massimo dell’espressione, ora, è nascosto dietro mascherine, gel igienizzanti e distanziamento sociale. E’ una battaglia, non tanto contro la società o le Istituzioni, quanto piuttosto contro quel Sé ideale, quel vorrei essere che, già difficile da scovare e scoprire, non è facile inseguire poiché spesso si trova sconfinato in un profilo social, non riuscendo, nella vita reale, a trovare una sana e coesa manifestazione.
Ecco che allora quella rassicurante quotidianità ha profondamente deluso ogni aspettativa: oltre a non aver portato alcuna rassicurazione, ha aggiunto sconforto e disillusione per quel futuro già precario di per sé. Forse, essere troppo ancorati alle abitudini del passato con una legittima, ma disfunzionale, pretesa che l’adesso sia come il prima, ha deviato troppo il panorama che ci avrebbe aspettato.
Forse quindi, non ci sarà una rassicurante ripresa, ma sicuramente ci aspetta una nuova partenza che molto probabilmente non ha nulla a che vedere con le riprese degli anni passati, ma avrà un altro sapore mai provato prima, altre opportunità e altre rassicurazioni su cui potremo ri-adattare i nostri progetti futuri.
Quanto ai nostri ragazzi, in una società che ha perso molte certezze, hanno bisogno di un’àncora che li rassicuri e li aiuti ad intravedere la luce anche nel più tenebroso dei panorami; un’àncora che li protegga dai venti avversi per evitare che perdano di vista la strada, il loro obiettivo, le speranze dei loro sogni. Che ricordi loro chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Così, nel peggiore dei panorami, se anche molte cose intorno si sgretolano e crollano, loro, grazie a noi, figure di riferimento essenziali, sapranno imparare a stare a galla.
“Ogni bambino [e ogni bambina] modifica istintivamente le proprie necessità e le proprie risposte comportamentali in funzione delle richieste e delle preferenze dei genitori, imparando presto cosa ci si aspetta dalla relazione con lui [o con lei]” (Pat Ogden).
Partiamo oggi da questa citazione per riflettere su un tema che considero molto importante.
Sia nell’ambito della consulenza che in contesti più informali mi capita di sentire molti genitori iniziare o completare una frase che riguarda la loro relazione con i figli con l’espressione “eh, sì, perchè ha un carattere!!” naturalmente sottintendendo che il carattere è difficile, complicato, testardo… o qualche cosa di simile. Questa frase viene generalmente utilizzata come spiegazione: non riesco a fare con lei (o con lui) una certa cosa, ad ottenere un certo comportamento, perchè ha un carattere difficile. Scendendo nel concreto: “non riesco mica a convincere Luca a giocare con sua sorella, sai, ha un carattere!!…”
In questo ragionamento ci sono vari aspetti che potremmo sottolineare, ne sceglierò solo un paio. Innanzitutto vi è l’idea che la responsabilità del mancato risultato atteso – o della ennesima ripetizione di un risultato indesiderato – sia del figlio, e per la precisione del suo carattere. In questo modo il genitore nega che la responsabilità possa essere sua e sembra non prendere nemmeno in considerazione l’eventualità che essa possa essere condivisa. Inoltre egli appare non contemplare la possibilità che le ragioni di quel comportamento possano collocarsi in qualcosa di diverso dal “carattere”.
Per esempio, nel nostro caso, se chiedessimo a Luca perchè non vuole giocare con la sorellina, potrebbe risponderci che per lui, che ha 13 anni, ed è un maschio, giocare con la sorella di 8 non esiste proprio, che poi magari i suoi amici vengono a saperlo. Questa risposta ci potrebbe suggerire l’ipotesi che per Luca sia “degradante” e vergognoso giocare con la sorella. Non intendo dire che, ammesso che questa ipotesi corrisponda davvero al motivo del comportamento di Luca, il rifiuto al gioco e la ragione che lo sostiene debbano essere accettati e basta, ma che sia molto importante cercare di comprendere davvero le ragioni per cui egli fa quello che fa. In questo caso, alla base della scelta di non giocare con la sorella ci sarebbe una convinzione basata su un paio di stereotipi molto diffusi (non solo fra i ragazzini): che giocare con le femmine possa essere disonorevole per un maschio e che giocare con i più piccoli renda ridicoli. Nulla a che fare con il “carattere”.
Stiamo solo sostituendo una spiegazione con un’altra? Cosa c’è di fondamentalmente diverso fra le due? Molte cose, ma fra tutte evidenzierei il fatto che, per come inteso comunemente, il “carattere” è concepito vagamente come una dotazione individuale immodificabile, mentre si pensa che le convinzioni e gli stereotipi, invece, possano cambiare, seppur talvolta a fatica.
Infatti, se chiediamo a bruciapelo alle persone cosa sia il carattere otteniamo risposte come “il carattere è come uno è, ad esempio se uno è scontroso, quello è il suo carattere”. La definizione è quindi vaga (il carattere è come uno è) ma al contempo monolitica, perché contiene implicitamente la convinzione che le persone sianofatte in un certo modo (quante volte abbiamo sentito dire che il carattere non si cambia?). Così come una persona può essere alta due metri, cosa che non si cambia, può essere solare, e nemmeno questo si cambia, perché uno è come è.
Torniamo ora alla citazione di Pat Ogden. Ripetiamola, per avercela qui, di fronte agli occhi:
“Ogni bambino [e ogni bambina] modifica istintivamente le proprie necessità e le proprie risposte comportamentali in funzione delle richieste e delle preferenze dei genitori, imparando presto cosa ci si aspetta dalla relazione con lui [o con lei].”
Cosa ha a che fare questa citazione con il ragionamento basato sul carattere? Ad occhio mi verrebbe da dire che si colloca un po’ all’opposto, anzi, no, “di lato”. Ogden sembra dirci che i bambini non hanno un certo carattere, non sono in un certo modo, ma fanno una serie di cose, cioè costruiscono abitudini ed atteggiamenti nell’ottica di confrontarsi con le richieste e con le preferenze dei genitori.
Perchè affermo che non sia l’opposto della teoria del carattere? Perchè Ogden non dice che ciò che i bambini fanno dipende dai genitori (quindi non passa dall’attribuire la responsabilità al figlio all’attribuirla al genitore), ci dice piuttosto che il bambino attivamente cerca di agire in un certo modo – modo che gli viene suggerito dal suo pensiero, dalle sue esperienze, dalla sua immaginazione – sulla base della sua idea di quali sono le richieste e i desideri dei genitori.
Se tornassimo a Luca e al suo rifiuto di giocare con la sorella, potremmo chiederci se ad esempio lui condivida il suo maschilismo con il padre, o con un’altra importante figura di riferimento, oppure se, più ottimisticamente, stia “disobbedendo” alla madre perché ha capito che non è necessario obbedirle per avere il suo affetto…
Le parole di Ogden ci aprono ad una visione in cui ciò che accade nella relazione è frutto del contributo di ciascuno dei partecipanti alla relazione stessa: i genitori ci mettono le loro aspettative, le loro preferenze, le loro richieste, i figli ci mettono la loro comprensione di queste ultime e la scelta di alcune azioni piuttosto che di altre. Non sempre nell’ottica di soddisfare le richieste dei genitori, ma sempre nell’ottica di rispondervi, talvolta oppondendovisi.
Inoltre, quello che Ogden ci suggerisce sembra essere un’immagine della relazione come una danza di assestamenti reciproci continui, non come la recita di un copione basato sul carattere, su modi di essere immutabili nel tempo. Questa prospettiva ci permette di guardare alle relazioni, ed ai comportamenti delle persone in relazione, come a dei processi in continua evoluzione lungo linee che vengono tracciate in tempo reale nell’ambito delle reciproche interazioni. Essa ci invita inoltre ad essere sempre curiosi rispetto a ciò che accade, a ciò che apportiamo sia noi che l’altro, a non dare insomma per scontato di sapere sempre perché le cose vanno come vanno.
Nei giornali, nei social, in tv sentiamo sempre più spesso parlare di omosessualità e bisessualità: si discute di diritti civili (vedere le recenti discussioni in Parlamento sulla legge Zan contro l’omofobia) e di matrimonio egualitario, in un clima più o meno civile e da parte di persone più o meno esperte; ci sono libri, film e serie tv che affrontano l’argomento (solo per fare degli esempi: il libro appena uscito “Caccia all’omo” di Simone Alliva, il film premio Oscar “Chiamami col tuo nome” (tratto dall’omonimo libro di André Aciman), la seguitissima webserie “Skam”); ci sono i progetti nelle scuola che parlano di prevenzione al bullismo omofobico; tanti personaggi pubblici hanno dichiarato la propria omosessualità e bisessualità (vedi ad esempio l‘articolo da noi pubblicato).
Se ne parla molto di più che in passato, fortunatamente, ma non sempre si conosce veramente l’argomento, tanto che spesso se ne parla in maniera poco appropriata, mescolando i termini e i significati.
In particolare, ci soffermiamo oggi su due parole che vengono spesso confuse e il cui uso non è sempre corretto, poiché fanno riferimento a due costrutti molto diversi: coming out e outing.
Il termine coming out è la contrazione di coming out of the closet, letteralmente uscire dal ripostiglio, dall’armadio, ovvero uscire allo scoperto: nel mondo LGBT l’espressione coming out significa dichiarare volontariamente al mondo il proprio orientamento, vuol dire prendersi la responsabilità di dire agli altri di essere omosessuale, bisessuale o – udite, udite – eterosessuale. Ebbene sì: anche dichiarare il proprio orientamento eterosessuale è fare coming out, ma nel nostro articolo ci concentreremo sul coming out di una persona omosessuale o bisessuale.
L’omosessualità – e la bisessualità – viene definita dagli studiosi come uno stigma nascondibile, nel senso che è la persona stessa a decidere se rivelare o meno il proprio orientamento, a differenza, ad esempio, del colore della pelle: questo, se da un lato consente un atteggiamento protettivo nei propri confronti (es. se sento di essere in pericolo, posso decidere di non rivelare il mio orientamento), dall’altro crea una situazione di continua negoziazione sociale e la persona vive continuamente la questione della visibilità. “Lo dico? Non lo dico? A chi lo dico? Come lo dico? A chi posso dirlo? Come la prenderà? Mi rifiuteranno?”, in un vortice di domande automatiche e di velocissime considerazioni, ci si trova a cercare di anticipare le conseguenze di ciò che si sta per dire, a cercare di frugare nelle reazioni altrui, probabilmente con un velo di preoccupazione addosso. In sostanza, il coming out è un processo continuo, che non ha mai fine, lo si fa coi genitori e alle riunioni di famiglia, con gli amici e coi compagni di classe, sul luogo di lavoro, in albergo e quando si prenotano i posti per congiunti ad un concerto, con l’agente immobiliare, quando si racconta delle proprie vacanze o di un incidente in casa: la risposta ad una domanda all’apparenza banale (“dove sei stato questo weekend?”) può diventare un momento critico, in cui è necessario decidere cosa raccontare di sé e della propria vita. Per questo motivo, il continuo affollarsi di queste domande in testa viene definito rumore bianco, ovvero uno stress sempre presente, un’ansia anticipatoria collegata a minority stress (vedi l’articolo sull’omofobia interiorizzata).
Se guardiamo l’altro lato della medaglia, però, possiamo definire il coming out come un atto di amore nei confronti di sé stessi, perché in questo modo non lasciamo che il giudizio degli altri condizioni il nostro giudizio su di noi, perché l’omofobia interiorizzata non ci renda prigionieri di noi stessi, perché possiamo avere sempre meno paura di dire: io sono lesbica, sono gay, sono bisessuale.
Tutt’altro discorso va fatto per l’outing.
L’outing è la rivelazione pubblica dell’omosessualità/bisessualità da parte di terzi senza il consenso della persona interessata; il termine proviene da out, traduzione dell’avverbio fuori, nel senso di buttar fuori dall’armadio e venne coniato dal Time a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90. In Italiano spesso il termine outing viene impropriamente confuso con coming out, ma si tratta di una confusione piuttosto grave, dal momento che possiamo definire l’outing come una vera e propria forma di bullismo omofobico.
L’outing dell’omosessualità (o bisessualità) di una persona viene fatto, solitamente, senza che lei ne sia consenziente o contro la sua volontà, diventando, di fatto, una violenza: tale esposizione può rivelarsi potenzialmente pericolosa, poiché quella persona non vuole o non è in grado di affrontare le conseguenze, oltre a rappresentare una violazione delle sue decisioni.
Coming out e outing sono due atti molto potenti ma, dal momento che l’orientamento sessuale è una dimensione nucleare dell’individuo, hanno strettamente a che fare con la dimensione di consapevolezza.
Facciamo un esempio, inerente il contesto scolastico: un ragazzo può decidere di fare coming out, di dichiararsi omosessuale, per varie ragioni (es. affermare la propria identità, come atto di coraggio, per condividere le proprie esperienze coi pari, etc.) e in tal caso si assume, consapevolmente, la responsabilità delle sue azioni e del suo gesto, che a volte può essere anche liberatorio. Diverso è se subisce outing da parte dei compagni: in questo caso, quel ragazzo può, ad esempio, non essere pronto a dirlo agli altri, può aver paura di essere preso in giro o che la notizia arrivi agli insegnanti e alla propria famiglia, può essere in difficoltà con il proprio orientamento e, di conseguenza, sentirsi confuso, può sentire gli occhi puntati addosso come un “sei sbagliato”, e così via.
Se diciamo che sono le parole a dare forma al pensiero, non possiamo ignorare la differenza sostanziale che esiste tra coming out e outing. Questo è il motivo per cui utilizzare un linguaggio corretto e adeguato, con consapevolezza dei significati che le parole hanno e delle implicazioni che portano con sé, è sempre un’ottima idea. Per lo stesso motivo, inoltre, è importante incoraggiare il coming out dei ragazzi ed evitare accuratamente l’outing, poiché anche quello fatto più “in buona fede” e con le migliori intenzioni, può diventare un boomerang e rivelarsi una pessima idea.
Diamo spazio ai ragazzi, rispettiamo i loro tempi e le loro modalità, diamogli il rispetto che meritano in quanto artefici della loro vita e delle loro scelte: solo in questo modo favoriremo l’autenticità della comunicazione e la condivisione vera degli affetti, diventando alleati e non nemici.
E se siamo delle persone LGBT che vogliono fare coming out? Ecco cosa possiamo fare:
prendiamoci tempo e spazio per conoscerci, per informarci, per capirci e ascoltarci meglio;
prepariamoci a varie reazioni, non tutto va come nei film, nel bene e nel male: i nostri amici o famigliari possono sorprenderci accogliendoci e ascoltandoci, oppure possono avere reazioni aggressive. Consideriamo sempre che, magari, anche loro hanno paura di ciò che sta accadendo o che non hanno gli strumenti per far fronte a questa rivelazione;
cerchiamo, eventualmente, sostegno: che sia di un amico o di un esperto o di una associazione, che sia un supporto o un semplice consiglio, parlarne con qualcuno è sempre un’utile soluzione.
Questa settimana Teen&20 vuole segnalare un film: si tratta di Favolacce, dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, film premiato alla ultima Berlinale con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura.
Di quest’opera si è molto scritto, ed in maniera eccellente, per cui noi qui proponiamo una delle recensioni più complete sia dal punto di vista tecnico che sociopsicologico per invitare alla visione del film, la recensione di Goffredo Fofi su Internazionale.
Favolacce viene narrato come appunto accade con le fiabe, i suoi protagonisti non sono però principesse o fate, ma episodi di vita di alcuni bambini e delle loro famiglie della periferia romana.
Al silenzio assordante di quei bambini, nei loro sguardi intensi e nelle scelte a cui vengono portati, si contrappone la miseria degli adulti che calpestano e violentano le vite dei loro figli con cattiveria se non indifferenza.
E’ un film che lascia addosso il peso del maltrattamento e dell’inadeguatezza genitoriale e che obbliga a riflettere su questo tema, anche quando gli scenari non sono prevedibili ma per questo possono diventare ancor più gravi.
Finalmente le tanto attese e meritate vacanze! La tipica esclamazione che caratterizza l’avvicinarsi del periodo estivo. Quest’anno però non è proprio così, almeno per una gran parte di noi.
Vacanza vuol dire mollare tutto, abbandonare sedia e scrivania, accantonare carte e scartoffie e nascondere, più o meno forzatamente, l’agenda nel cassetto, per timore che la sua presenza in qualche modo rovini le ferie.
Vacanza vuol dire raggiungere un posto meraviglioso dal mare cristallino e assaporare l’aria marittima, la sfida di una scalata in montagna, il campeggio con i bambini o qualche tour in città. Per altri invece, vacanza vuol dire puro relax e la casa, o la baita in montagna, sono sempre i migliori congedi in cui riposare.
Ma, al di là di queste faccende pratiche, che cosa significa davvero andare in vacanza? Significa libertà, togliersi di dosso i pesi e le responsabilità che appesantiscono tutto l’anno e ripristinare il contatto con il proprio sé, le proprie passioni, con ciò di cui abbiamo bisogno, unico indispensabile e fondamentale ingrediente per poter stare bene.
Ma quest’anno, o meglio, questi mesi di un 2020 così tartassato e insicuro, le vacanze estive invece di risollevare gli animi rappresentano quasi una minaccia alla salute pubblica e un dilemma angosciante al dove vado che c’è il Covid dietro l’angolo?
Oggi, estate 2020, di cosa abbiamo veramente bisogno? E’ proprio quel mare cristallino o quella vetta di montagna che sopperirebbero al nostro bisogno di….. di?
Le vacanze quest’anno hanno un altro sapore, il sapore del timore di una pandemia mondiale, il sapore dell’insicurezza politica ed economica, dell’incertezza di poter tornare al proprio posto di lavoro e tra i cari vecchi banchi di scuola.
Che vacanze sono queste, in cui tanti lavoratori vivono con il dubbio sul futuro della propria azienda, che “Non so se quando rientrerò il Covid farà chiudere l’intera azienda” e dove i contratti a tempo determinato sono destinati a non essere rinnovati?
Ma soprattutto, che vacanze possono essere quelle dei nostri ragazzi che, concluso un anno scolastico confuso e caotico, non sanno nemmeno se tra i banchi di scuola ci torneranno? E, se ci torneranno, la scuola di sicuro non sarà più la stessa, forse nemmeno i banchi di scuola che hanno accompagnato generazioni e generazioni di studenti, che verranno sostituiti da rigide sedie in plastica scura con tavolozza annessa che non ammette spazio a nient’altro che un libro.
Appare nostalgica, e ora utopica, la concezione di vacanza che fino allo corso anno caratterizzava tutte le estati di ogni studente quando la sveglia termina di esistere, i compiti e lo studio vengono rimandati ad agosto (e forse anche un pò più in là) ma la cosa più importante e fondamentale è quell’attesissima e beata spensieratezza accompagnata dalle uscite e le scampagnate con gli amici.
“Mah, non hanno tanto senso queste vacanze perchè non mi è sembrato neanche di andare a scuola quest’anno”. Certo, perchè quest’anno la scuola è rimasta per troppo tempo in stand-by, c’era, ma non c’era. Le lezioni quest’anno non avevano sapore, come non hanno sapore queste vacanze in cui l’ingrediente fondamentale, le relazioni con amici e coetanei, vengono controllate e limitate a prova di mascherina. Vacanze scandite quotidianamente dagli interventi del TG o del ministro dell’istruzione che ogni mattina contribuiscono all’incertezza e alla confusione verso l’imminente futuro, il 14 settembre per l’appunto. Sentimenti di delusione e angoscia che minacciano di polverizzare i piccoli grandi progetti che ogni ragazzo persegue da tempo: iscriversi alla facoltà di Lettere o Medicina, studiare all’estero, il test d’ingresso, l’esame per la patente, l’acquisto dello scooter, la vacanza dai parenti lontani, ecc ecc. Progetti che, per quanto poco, danno senso e forma al futuro dei nostri piccoli grandi ragazzi che si stanno affacciando proprio ora alla vita del futuro e che ora rischiano di vedersi costretti a cambiare rotta e seguire la scia del vento.
Quindi, i nostri giovani come possono godersi queste vacanze quando anche un innocuo raffreddore si trasforma in una minaccia alla salute pubblica e un lieve mal di gola il preludio ad un’angosciante quarantena?
E’ vietato ammalarsi anche perchè, se per sbaglio scappa uno starnuto al supermercato, scatta la gara a chi sta più lontano dal malato con sguardi infami e terrorizzati che chi se li toglie più, poi.
Sono vietati gli assembramenti. Ma cosa significa assembramento, nel mondo dei giovani e degli adolescenti? Quali sono i limiti di vicinanza fisica spiegata a quei quindicenni che costruiscono la loro quotidianità, il loro essere e la loro vita proprio grazie al contatto fisico (che per loro non è solo fisico ma anche mentale, affettivo ed emotivo)? Come si spiega ai nostri ragazzi che la mascherina è obbligatoria quando spesso noi adulti, sbadatamente o meno, siamo i primi ad entrare nei locali senza la mascherina?
Sarebbe una punizione troppo crudele quella del “non uscire alle feste con i tuoi amici perchè sennò si creano assembramenti” Che cos’è esattamente un assembramento? Un gruppo di 5 persone può definirsi tale? Si può uscire sì, ma non troppo vicini? Quali alternative ci sono che possono, realmente e concretamente, rispettare le indicazioni dell’OMS? E’ difficile capirlo per noi adulti (oppure forse nonvogliamo capire?) figuriamoci insegnarlo a loro, in un mondo di confusione e incertezza fuori (il nostro), un mondo di caos e insicurezze dentro (il loro) e scariche di ormoni impazziti.
Ma molto spesso ad attenersi diligentemente alle indicazioni sono proprio i nostri adolescenti, che sembrano schierati tra chi, la questione del Covid-19, la prende sul serio e chi invece ritiene il virus un’entità poco probabile e lontana dal rischio. Comportamenti leciti da un certo punto di vista, d’altronde non desideriamo altro che questa pandemia se ne vada al più presto, mascherine e igienizzanti compresi. Indossare la mascherina non è più la novità del momento, l’estrosità di casalinghe impegnate a cucire pezzi di stoffa unici e colorati; indossare la mascherina ora significa ricordare a noi stessi che il virus esiste ancora, che non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia e che il pericolo è sempre dietro l’angolo. Spesso forse, dimenticarla o non indossarla non è solo pura dimenticanza.
Quello che si prospetta sarà per tutti l’inizio di un nuovo corso, scandito da numeri e regole, tra l’ansia di un nuovo lockdown e la speranza di una nuova ripresa. Saremo diversi, come saranno diverse le nostre, nuove, abitudini, diverse prospettive e le garanzie del futuro, la consapevolezza di noi stessi e di quel che abbiamo vissuto fin’ora, chi più e chi meno.
Ma i veri protagonisti ora sono loro, quei giovani che fino a qualche mese fa sognavano di iscriversi a Lettere e diventare insegnanti e ora deviano i binari verso la facoltà di Medicina o Infermieristica oppure un corso OSS per aiutare la fascia più debole. Sono loro al primo posto dell’incertezza di settembre, a cavalcioni su un equilibrio precario tra il devo e il vorrei, che si trovano a fare i conti con un futuro incerto e poco promettente già in partenza. Penso che gran parte del supporto e del sostegno vada proprio a loro, alla loro speranza del costruirsi e del costruire un futuro che possano meritarsi.
Ci penso ogni tanto alla mia adolescenza, ma non la rimpiango. Se esistesse la macchina del tempo non tornei negli anni Ottanta a Pordenone, per vedermi con il fiocco di pizzo bianco in testa ad imitare Madonna e le scarpe finte Timberland. Non sono mai stata un’adolescente tormentata, ma ripensando a me stessa mi sento cogliere da una certa tenerezza mista ad imbarazzo. A quella ragazza sono di certo mancati dei modelli importanti, una figura di riferimento carismatica: mi piacevano tutte le cose che ora mi fanno storcere il naso, come la musica di Eros Ramazzotti tanto per dare un’idea.
Lo ricordo come un periodo di transizione, sereno, ma di preparazione ad altro. Sarà che ho frequentato la Ragioneria, che mi faceva abbastanza schifo, solo per corrispondere alle aspettative dei miei genitori. Ecco, io l’adolescenza, il periodo delle scuole superiori, l’ho trascorso in attesa di fare altro, di avere un po’ di indipendenza, soprattutto di pensiero. Poi finalmente finite le superiori sono potuta andare all’Università (Lettere) ed è cambiato tutto. Dopo anni in trincea senza grandi aspettative ero al posto giusto nel momento giusto. Gli anni opachi delle superiori si sono allontanati: è stato come mettere gli occhiali dopo un periodo di miopia e vedere tutto brillante. Agli incontri di presentazione i docenti come prima cosa ci avevano avvertito che stavamo scegliendo una facoltà anacronistica, con pochi sbocchi lavorativi, fatta eccezione per l’insegnamento. Questo mi aveva motivata ancor di più: che sfida riuscire a vivere di letteratura.
Ma come ero giunta a quella scelta? I libri erano importanti per me? Sono cresciuta con loro, desiderandoli, ma senza mai averne un accesso diretto. Da piccola in casa ne avevo alcuni che leggevo ossessivamente (Heidi, Senza famiglia, Piccole donne, le fiabe di Andersen ecc.), ma erano altri tempi e le biblioteche non erano accessibili ai piccoli come lo sono ora. Non che fosse vietato andarci, ma …. la mia biblioteca cittadina era immersa nel grigiore delle proprie scaffalature. Il mio primo ingresso si era risolto in una grande delusione, soprattutto perché nessuno al bancone del prestito aveva colto il mio spaesamento, aiutandomi a cercare qualcosa che potesse piacermi. Sono tornata in quel grigiore solo molti anni dopo, da universitaria, già in grado di muovermi autonomamente per le sale, ma della mia prima esperienza mi è rimasto un rimpianto, un qualcosa di irrisolto che ora invece ho risolto benissimo. Se parliamo invece di librerie non era abitudine dei miei genitori portarmici, tanto che molti dei libri che possedevo mi erano stati regalati.
Mi piaceva follemente leggere, ma lo facevo in modo bulimico e senza selezionare, andava bene tutto quello che trovavo. Per me era lo stesso passare dagli Harmony di mia nonna, agli Agatha Christie delle mie cugine, leggendo, se non avevo altro, il giornale di mia madre e non stavo a sottilizzare se fosse Confidenze o Grand Hotel. Bramavo le storie, volevo leggere. A pensarci ha un senso, alla luce della professione che ho scelto.
All’Università ho recuperato tutti gli arretrati e ho letto, letto e letto senza averne mai abbastanza, persino delle cose pesanti e noiose che ora non avrei più la forza di affrontare. Terminati gli studi, prestando volontariato presso una piccola biblioteca di quartiere ho incontrato quella che ora è una delle mie migliori amiche e che già all’epoca aveva le idee molto chiare sulla sua futura professione. Lei voleva fare la bibliotecaria. Che idea stupenda la sua! Non poteva adattarsi anche a me? Non me ne sono mai pentita.
Questo lavoro mi ha dato tantissimo e mi mantiene in contatto con le persone e con le storie. Posso dire di essermi anche riappropriata della mia adolescenza e la sento più vicina ora che allora; la vedo ogni giorno nei volti dei miei giovani utenti, quelli che chiedono un consiglio e quelli che non vogliono che io rompa loro le scatole. La mia biblioteca deve essere associata al colore e non al grigiore e soprattutto deve essere associata al calore, perché nessun giovane utente possa entrare e sentirsi respinto. Tra gli scaffali ci sono oltre 18.000 storie che aspettano di venir lette e sono tutte alla ricerca di un lettore. Io sono un po’ la prescelta a far nascere questi incontri. Il panorama editoriale per ragazzi al momento è ricco e composito e io mi ci perdo dentro: sono i libri che avrei voluto che qualcuno mi consigliasse all’epoca! Non importa, nonostante il ritardo, quelle storie sono anche per me, c’è sempre tempo per migliorarsi, apprendere e conoscere. C’è sempre tempo per leggere.
Negli ultimi tempi, con un’amica conosciuta in biblioteca, ho anche aperto un blog; scriviamo dei libri che ci sono piaciuti, quindi anche nel tempo libero cerco di fare quello che faccio al lavoro, promuovere la lettura. Ho questa assurda e incrollabile convinzione che il mondo potrebbe essere un posto migliore se si leggesse di più, perché entrare in diverse trame e storie stimola l’empatia. Leggendo riesci a comprendere anche le ragioni degli altri e quando questo accade l’altro non è più ALTRO. Immagino di essere ancora un’idealista. Se è un difetto spero di non perderlo mai.
Torno indietro con il pensiero alla me adolescente e mi sorrido da una distanza siderale. Mi piace quello che sono diventata e ho ancora margine per un miglioramento, un’ottima motivazione per affrontare ogni giornata.
Dimenticavo…ora ascolto gli AC/DC. 😊
* Impiegata dal 2000 in qualità di bibliotecaria presso un Ente locale. Organizzatrice per conto del proprio Comune della rassegna “Prata d’autore” (che ha ospitato, tra gli altri, autori come Ilaria Tuti, Enrico Galiano, Andrea Maggi, Matteo Bussola, Francesco Vidotto e Sara Rattaro. Dal 2005 insieme a Stefania Baccichetto cura un blog che si occupa di libri per adulti e ragazzi (Duettriciquasiperfette).
«Era l’estate del 2014 quando ho letto un’inchiesta sulla Arthur G. Dozier School. Era una storia della quale si era scritto molto, soprattutto sui quotidiani della Florida settentrionale, ma questa era la prima volta che ne sentivo parlare. Stavano riaprendo le tombe senza nome per cercare di capire chi vi fosse sepolto. Leggendo le storie dei sopravvissuti, soprattutto bianchi anche se la maggior parte degli studenti in quella scuola era afroamericana, mi sono chiesto che tipo di storia avrei potuto ricavare dalla parte nera del college. Ho scelto di fare iniziare il libro nel 1963 perché era il culmine delle leggi Jim Crow e della segregazione e discriminazione nel Sud, ma era anche il momento in cui i movimenti per i diritti civili stavano acquistando forza», racconta lo scrittore Colson Whitehead ad Alessandra Tedesco che lo intervista per il Sole24ore.
La Arthur G. Dozier School (vedi ad esempio qui) era una “scuola di correzione” alla quale venivano mandati i ragazzi, bianchi o neri, che avevano guai con la legge o con i servizi sociali. Ed è a questa sorta di inferno in terra che Whitehead si ispira per trarne una storia intensa e straziante, che scrive con una maestria che gli vale il suo secondo Pulitzer per la fiction e che ammalia noi lettori che, una volta aperto il libro, non riusciamo a chiuderlo più, fino alla sua fine.
La narrazione si concentra attorno alle figure di due ragazzi: Elwood Curtis, ragazzo nero che aspira a frequentare il college grazie alle sue capacità ed alla sua determinazione, e Turner, già ospite della Nickel (questo è il nome dell’istituto di correzione del romanzo) quando Elwood vi viene mandato. Sì, perché Elwood ha la sfortuna di accettare un passaggio in un’auto rubata che verrà fermata dalla polizia e quindi, pur essendo assolutamente estraneo al furto, verrà considerato complice del ladro.
Elwood affronta quell’inferno di crudeltà e violenza con la dirittura etica e morale che gli è propria e che in lui trova forza e legittimazione grazie allo studio dei discorsi di Martin Luther King, discorsi che Elwood ascoltava grazie al giradischi della nonna: “Non possedevano un televisore, ma i discorsi del Dottor King erano una cronaca così vivida – contenente tutto ciò che i neri erano stati e sarebbero diventati – che quel disco era quasi interessante quanto la TV. forse addirittura migliore, più maestoso, come l’imponente schermo del Davis Drive-In, dove Elwood era stato due volte. Gli mostrava tutto: gli africani perseguitati dal peccato bianco della schiavitù, i neri umiliati e tenuti sottomessi con la segregazione, e quella luminosa immagine del futuro quando tutti i luoghi chiusi alla sua razza sarebbero stati aperti.”
“Elwood si atteneva ad un codice, e il Dottor King dava a quel codice forma, espressione e significato.”
“Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.”
Martin Luther King
La Nickel cerca in tutti i modi di piegare Elwood, di azzerare la sua speranza, la sua fede nel bene, ma non ci riesce. Eppure non ci può essere lieto fine in quel mondo. L’epilogo però è narrativamente magistrale e non si può proprio parlarne per non rovinarlo: deve essere letto, parola dopo parola.
Dopo L’età dei sogni, Come Teen&20 proponiamo I ragazzi della Nickel come lettura per ragazzi ed adulti non solo perché tratta di un tema a noi caro, quello delle discriminazioni razziali, e non solo perché si tratta di un libro meraviglioso dal punto di vista letterario, ma anche perché è una storia che parla di relazioni e con chiarezza indica la differenza fra le relazioni di oppressione, caratterizzate dall’uso del potere, della violenza e della paura e le relazioni vere, quelle dove le persone si guardano negli occhi e si riconoscono, si rispettano, si stimano e sono disposte a rischiare l’una per l’altra e per il valore che ha per loro la loro stessa relazione.
Ma è anche un libro che parla di come si possa resistere all’esercizio del potere e di come non ci siano scusanti alla responsabilità individuale, anche all’interno di sistemi ed organizzazioni violenti ed opprimenti.
Naturalmente Whitehead, nero americano, ha in mente la società statunitense quando scrive, ad Alessandra Tedesco dichiara infatti: “L’America è estremamente razzista. Chi non ha votato Obama alle ultime elezioni è stato contento di aver portato un razzista, misogino e demagogo alla Casa Bianca e tutta questa gente odiosa stava solo aspettando qualcuno che desse loro il permesso di agire. Ora i crimini di odio, i crimini razzisti e gli episodi di antisemitismo sono cresciuti rispetto a prima. Trump ha permesso alla gente di tirare fuori il peggio di sé, allo stesso modo in cui lui ha concesso a sé stesso di esprimere il peggio di sé”.
L’episodio recente di Beatrice Ion, di cui anche noi abbiamo parlato in un recente articolo, così come infiniti altri che accadono ogni giorno nel nostro paese, ci dice che non possiamo dichiararci esenti e che non dobbiamo mai smettere di tenere aperto questo file, per noi e per i nostri ragazzi.
Tiziano è un ragazzo di Latina, vive la sua adolescenza a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Ha una vita normale: famiglia semplice – mamma casalinga, papà geometra, un fratello più piccolo – e una tastiera Bontempi regalatagli per Natale. Deve fare i conti con la bulimia, tanto da arrivare a pesare 111 kg, e con i compagni che lo prendono in giro per questo. Ne esce grazie alla musica e imparando a suonare pianoforte, chitarra classica, batteria, intanto studia canto e canta in un coro gospel.
Michael nasce nel 1983 a Beirut, in Libano, e ad un anno di vita si trasferisce a Parigi a causa della guerra civile per approdare, infine, a Londra più o meno quando ha 9 anni. Col tempo impara a parlare inglese, francese, italiano, poi cinese, spagnolo e arabo, È figlio di una famiglia agiata, frequenta i migliori college, si destreggia tra la musica – compone canzoni sin da piccolo, spaziando dall’opera alla musica leggera – e la dislessia, che lo fa penare a scuola.
Storie banali, sembrerebbe, con in comune la passione per la musica che li solleva da ciò che li rende “diversi” agli occhi degli altri, ovvero la bulimia e la dislessia.
Eppure hanno ancora qualcosa che li lega: oggi sono due superstar internazionali della musica pop, Tiziano Ferro e Michael Holbrook Penniman Jr., in arte Mika.
Poi c’è Ellen, canadese, figlia di un graphic designer e di una insegnante. Deve frequentare tre scuole diverse prima di diplomarsi nel 2005. È vegana, atea e si definisce una femminista. Comincia a recitare in piccoli ruoli a 11 anni, si fa prendere tantissimo da questa passione, fino a farne un lavoro vero e proprio. Diventa una star internazionale con X-Men e con Juno, per poi impegnarsi anche come attivista: parliamo dell’attrice Ellen Page.
In comune con Tiziano e Michael ha l’orientamento sessuale: sono tutti e tre omosessuali. E sono famosissimi tra gli adolescenti di tutto il mondo.
Che importanza ha, per un ragazzino o una ragazzina della periferia d’Italia, sapere che queste superstar, lontane anni luce da lui/lei, sono omosessuali? La risposta è fin troppo semplice, quasi banale: sono personaggi famosi e visibili e fanno sentire quel ragazzino e quella ragazzina meno soli.
Il vissuto di un adolescente che sta scoprendo la propria omosessualità, spesso, è quello di sentirsi l’unico al mondo: “in una fase in cui gli adolescenti imparano a socializzare, gli adolescenti omosessuali e bisessuali imparano a nascondersi” (Herek, 2016).
Questa solitudine l’abbiamo letta nella testimonianza di Diego: “Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me”. Lo abbiamo sentito da Giacomo: “al mondo, ne ero certo, omosessuali eravamo solo io e Renato Zero! Immaginatevi lo stupore quando quest’ultimo negò di esserlo: rimanevo solo io…”. E proprio alle parole di Giacomo ci affidiamo per comprendere lo stato d’animo che un adolescente si porta dietro: non importa se si è adolescenti nel 2020 o nel 1980, non importa se si vive a Londra, a Latina o a Spilimbergo: se “uno famoso” nega la propria omosessualità la solitudine che quella ragazzina o quel ragazzino provano è dirompente e disarmante. Giacomo lo definisce “il terrore”.
Conosciamo ormai le conseguenze a cui questa solitudine può portare, ma forse è il caso di soffermarsi sui benefici della visibilità di persone famose come Mika, Tiziano Ferro ed Ellen Page, ma anche di persone comuni come Diego e Giacomo.
Il coming out di un personaggio famoso contribuisce a normalizzare il costrutto di omosessualità nella rappresentazione della società. Non bastano le storie di fantasia lette nei romanzi o viste nei film; gli adolescenti hannobisogno di persone vere, vogliono specchiarsi nei loro volti e riconoscersi nelle loro storie, hanno bisogno di raccontarsi che le persone con orientamento omosessuale esistono e vivono nel loro stesso mondo. Tanto meglio se poi, a raccontare la propria storia di coming out, ci sono anche le persone che li circondano: Giacomo che fa il grafico, Diego che lavora come operaio, l’insegnante di inglese, l’allenatore di rugby, la propria pediatra, l’elettricista che ha aggiustato il frigo, l’imprenditrice per la quale lavora il papà, la parrucchiera dietro casa, il libraio, il programmatore che ha sistemato il pc, la direttrice della banda della scuola, Il campione dell’Eredità, il commesso del negozio di scarpe, l’avvocata che sta parlando in TV, e via dicendo.
Il concetto di visibilità, dunque, diventa un concetto molto importante, poiché è il risultato del processo di accettazione di sé (coming out) che permette ad una persona omosessuale (o bisessuale) di vivere la propria identità alla luce del sole. Ha a che fare con il sentirsi liberi di dire cose che, in altro modo, sarebbero difficili da dire, per esempio di essere andati al cinema con il proprio fidanzato, o raccontare di aver fatto delle splendide vacanze a Parigi con la propria compagna. E ha anche a che fare con la possibilità di denunciare episodi spiacevoli: ad esempio di venire costantemente prese in giro a scuola per essersi prese per mano in classe, o di essere stati aggrediti per aver partecipato ad un Pride ed avere un arcobaleno disegnato sulla maglietta.
Quindi, cosa possiamo fare? Possiamo raccontare le storie di coming out ai ragazzi. Facciamogli conoscere i tanti Ellen, Diego e Michael in tutti i campi, non solo in quello della musica o dello spettacolo. Tante persone, donne e uomini, che vivono una vita “banale” (con le dovute virgolette, nell’accezione di “quotidiana, comune”) e che sono più vicine di ciò che si pensa.
Raccontiamo agli adolescenti di storie belle e brutte, di coming out lisci come l’olio e di rivelazioni che hanno sfasciato intere famiglie; di vite vissute alla luce del sole e di altre che hanno dovuto affrontare continui pregiudizi e discriminazioni sul lavoro e nel privato, di storie a lieto fine e di altre conclusesi tristemente. Raccontiamogli del suicidio del “ragazzo coi pantaloni rosa”, che è arrivato a tanto perché non ne poteva più di essere offeso e deriso a scuola; diciamo loro che ci sono educatori che, poiché dichiaratamente omosessuali, hanno dovuto abbandonare il loro lavoro pur avendo studiato anni per svolgerlo perché alcuni genitori non li volevano accanto ai propri figli; ma raccontiamo loro anche di coloro che si sono presi carico della storia propria ed altrui e sono diventati attivisti, impegnandosi ogni giorno nelle battaglie per i diritti, e poi parliamo loro di quel dirigente scolastico che non ha cancellato la scritta “preside gay” sui muri della scuola dove lavora, perché per lui essere gay non è un’offesa e perché voleva lasciare un insegnamento ai suoi studenti.
Passiamo loro il messaggio che l’orientamento sessuale è una caratteristica dell’individuo, come il colore marrone degli occhi, il saper risolvere i problemi matematici, il fatto di odiare i peperoni, la passione per la Nutella invece che per la marmellata, o la predilezione per stendere i calzini accoppiati per colore invece che sparpagliati sullo stendino.