Teen, Internet e Social Network

di Sara Feltrin

Esilaranti quanto insoliti video alla Tik Tok style, stories geolocalizzate dell’ultimo secondo postate su Instagram, post curiosi e sfoghi anonimi su Facebook e stati che, come su Whatsapp, per essere degni di nota devono rispondere al colpo di scena. Su YouTube la gara di visualizzazioni e seguaci per i corsi di fitness, yoga e pilates e, a seguire, i tutorial dell’handmade che invogliano e incentivano anche i più pigri demotivati.

Il XXI secolo si preannuncia così: all’insegna di cellulari e tablet diventati ormai vere e proprie estensioni di anima e corpo (chi esce più di casa senza cellulare, ormai?). E, come se non bastasse, è arrivata anche una pandemia mondiale ad accentuare ancor di più quella che si sta delineando come l’inizio di una realtà virtuale, aumentata.

Così, milioni e milioni di persone hanno dato il via, chi prima chi dopo, alle videochiamate, alla spesa online, alla ginnastica su YouTube e agli happy hour digitali. Tanto che persino il più cinico delle nuove tecnologie si è dovuto adattare all’utilizzo di questi marchingegni tanto spaventosi quanto efficienti. 

Volenti o nolenti, Internet e i nuovi dispositivi elettronici ci stanno inevitabilmente portando verso una nuova forma di realtà.

Come ci comportiamo noi adulti rispetto a questo? E, soprattutto, come si comportano i giovani e nostri adolescenti di fronte a questo tipo di realtà? Cosa pensiamo di conoscere riguardo a loro? Siamo sicuri che il nostro punto di vista sia condiviso con il loro?

Stiamo parlando di una realtà cresciuta pian piano assieme alle nuove generazioni, le quali hanno potuto masticare e conoscere con maggiore caparbietà il meccanismo elettronico e digitale. Ce l’hanno, come dire, nel sangue. Rispetto ad un adulto degli anni ’60 che si sente in qualche modo costretto a mettere da parte scaffali di quaderni ed enciclopedie, per i nostri teen ager la tecnologia digitale è pane quotidiano e l’era virtuale la realtà più spontanea e affabile, più facile, immediata e accomodante per i loro bisogni e per le loro necessità. Parliamo di necessità, non di passatempo. Ma quali sono queste necessità che vengono quasi magicamente esaudite e soddisfatte in rete?

Se fino a 20 anni fa la cerchia di amici (rigorosamente di paese, ovviamente) la si trovava in piazza, ora si affaccia allo schermo di un cellulare dall’altra parte della città; se i giri in bicicletta o sullo skate aiutavano a raggiungere case di amici e luoghi di ritrovo, qualche piroetta freestyle per lanciare la sfida dell’ultimo minuto, ora è sufficiente starsene sdraiati sul letto della propria camera per raggiungere qualunque parte del mondo; le sfide sono diventate challenges fatali in cui, per fermarsi (e affermarsi), un ginocchio sbucciato non basta più. Allora nascono quegli strani video di Tik Tok, ripetuti e ripresi fino allo sfinimento, o quella sfilza di stories pubblicate su Instagram nate per essere visti, spiati, guardati o semplicemente, per essere nel social. Che spesso però, nulla ha a che vedere con l’essere social, ovvero quell’essere sociale con cui Aristotele definiva l’uomo. Tuttavia, sia nel ‘300 a.C. che nel 2000 d.C., l’esigenza è la stessa: essere inclusi in una comunità e considerati una comunità. Ecco che ore e ore a lavorare online per la creazione del proprio avatar o per la pubblicazione del proprio profilo social nella piattaforma più popolare danno spazio a piccole evoluzioni diventate fondamentali  quanto necessarie per il raggiungimento di quell’obiettivo tanto difficile da raggiungere: la costruzione della propria identità. Così, l’avatar di gioco, armato e attrezzato con bombe e fucili per le battaglie online, ha sostituito lo scontro dei mitici soldatini verdi e delle battaglie con i Lego. Che siano “fisici” oppure online si tratta comunque di giochi di ruolo che permettono al giocatore ad interagire col mondo esterno attraverso la creazione di situazioni immaginarie, di scoprire e apprendere senza essere bloccati da paure, timori o preoccupazioni. Liberi di decidere e agire, acquisiscono competenze in una situazione, immaginaria appunto, che tutela e protegge.  

Oltre tutto gioco è espressione: di vissuti, stati d’animo ed emozioni spesso non facili da gestire come la rabbia, che nei luoghi “virtuali” è di certo più consentita e a volte, giustificata.

Gli anni sono passati, il sistema educativo è cambiato e i “giovani d’oggi” non sono più figli ribelli di un’infanzia costretta, ma adolescenti a volte fin troppo consapevoli di affettività, relazioni e di ciò che è stato fatto per loro; fin troppo in relazione con i genitori che, inevitabilmente, hanno sviluppato un sistema familiare relazionale più empatico ed affettivo. La realtà virtuale consente di socializzare ed esprimersi senza troppa paura dei pregiudizi, rendere alcuni vissuti più tollerabili perché condivisi o agiti insieme. La rete quindi non rappresenta sempre una perdita di tempo o una minaccia per cui preoccuparsi (troppo). La rete può diventare un antidolorifico ai vissuti di tristezza e solitudine, un’attenuante alla rabbia, all’ansia e alla paura del futuro, una stanza in cui tutto diventa possibile e i sogni, le fantasie e l’immaginazione prendono forma e si fanno spazio, libere di esistere.

In questo modo la rete può diventare un’amica confidante, una difesa protettiva ad una realtà fuori che spaventa e chiede sempre di più. Per questo è importante rispettare gli “spazi virtuali” dei nostri giovani esploratori: non demolirli ma piuttosto, visitarli e consultarli assieme per condividere e comprendere non solo le loro esigenze ma anche i loro stati d’animo. Cercare di capire a quale bisogno corrisponde l’uso o l’abuso di internet (soprattutto un utilizzo disfunzionale) quali le preoccupazioni o la rabbia che si celano dietro la creazione di un avatar che non rispecchia per niente l’aspetto dello stesso giocatore, quali insicurezze si nascondono in un profilo di Instagram un po’ troppo provocante. 

Cosa vogliono trovare nella rete e da cosa vogliono scappare? 

La crescita impone inevitabilmente dei salti evolutivi e dei cambiamenti sul piano corporeo, cognitivo ed emotivo che non sempre si riflettono in modo omogeneo e uniforme su tutti e tre i piani. A volte capita che non si sia psicologicamente pronti per un aumento di taglia al seno, per il cambio improvviso della voce o per i richiami ormonali dei primi amori, che rischiano di spezzare l’equilibrio tra il “chi sono” e il “chi voglio diventare” con un prematuro e angosciante “chi dovrò diventare”. E questo non è facile da capire (per i nostri ragazzi) e non è facile da captare (per i genitori).  

E’ qui che si innesca il lungo processo di conoscenza profonda dei nostri giovani esploratori e non possiamo pretendere, né tanto meno provare, ad arrestare il futuro. Ciò che è importante capire è che la rete non è essa stessa la causa della dipendenza da internet o del ritiro sociale, come tanti possono ritenere, ma un estremo tentativo di restare lì, in quella realtà, scappando da qualcosa che in questa realtà, angoscia, terrorizza o semplicemente, non piace. 

Tanto quanto qualunque altra situazione complessa, anche nella rete ci sono sicuramente dei grossi rischi che devono essere spiegati e compresi consapevolmente insieme. Se sapremo apprezzare e rispettare le loro esigenze, potremo aiutarli ad intraprendere al meglio il loro percorso di crescita. 

Recensioni 1: L’età dei sogni

di Francesca Del Rizzo in collaborazione con “Due lettrici quasi perfette”

L’omicidio di George Floyd e il movimento Black Lives Matter ci stanno facendo riflettere – perché davvero non è mai abbastanza – sulla persistenza di pensieri, atteggiamenti, comportamenti, delitti razzisti anche in questo XXI secolo di ipermodernità.

In molte occasioni su questo sito abbiamo avuto modo di illustrare atteggiamenti discriminatori nei confronti, in particolare, delle persone con orientamento non-eterosessuale. Ora è venuto il momento di rivolgere il nostro sguardo al problema della discriminazione razziale, almeno cominciamo e almeno ci proviamo. E proviamo a farlo grazie alla collaborazione di Lea e Stefi, le nostre due amiche autrici del blog “Due lettrici quasi perfette”.

Instancabili lettrici e persone attente e competenti, raccolgono nel loro blog una quantità importante di recensioni fra cui abbiamo trovato particolarmente interessante in questo momento quella che riguarda il libro L’età dei sogni di Annelise Heurtier, un libro adatto anche per adolescenti che anche di adolescenti racconta.

Esso si ispira infatti a ciò che è accaduto nel 1957 ai “nove di Little Rock”, i nove ragazzi neri che per primi furono ammessi al liceo pubblico – bianco – di Little Rock in virtù dei loro meriti scolastici. Per far rispettare il loro diritto ad entrare a scuola il presidente Eisenhower dovette inviare l’esercito, ma, nonostante questa protezione, i ragazzi e le loro famiglie continuarono ad essere oggetto di aggressioni e discriminazioni. Trovate qui un articolo che racconta questa storia e che può essere fonte di ulteriori informazioni, oltre che di documentazione fotografica.

Questa è la trama del libro: Settembre 1957, Grace e Molly hanno 15 anni e sono alla vigilia di un anno scolastico importante. La prima è la reginetta della scuola, con una famiglia benestante alle spalle e gli amici che l’adorano; la seconda è tra i nove studenti neri ammessi per la prima volta nella storia degli Stati Uniti a frequentare un liceo di bianchi. Entrambe hanno qualcosa da imparare l’una dall’altra: Grace dovrà superare le barriere del conformismo e cominciare a pensare con la propria testa, Molly dovrà accettare la mano tesa da parte di chi pensava provasse solo odio nei suoi confronti. 

La figura di Molly è proprio ispirata a quella di Melba Pattillo, una delle ragazze nere dei nove di Little Rock. Lea ci racconta che Molly “si trova ad  accettare quell’anno in un liceo di bianchi senza stare troppo a rifletterci, ma  quella decisione stravolgerà per sempre la sua vita.  Pagherà il prezzo che viene richiesto a tutti quelli che hanno il coraggio di aprire la pista e spianare la strada agli altri. E’ un cammino di solitudine, senza vera  riconoscenza da parte di nessuno. Alla fine è così che funziona: c’è chi sacrifica e quello che ne riceve in cambio, nel caso più fortunato, è l’ indifferenza.” 

i nove di Little Rock

La figura di Grace rappresenta invece l’opposto di Molly: è la classica “reginetta della scuola. A lei interessano i vestiti e i ragazzi (uno in particolare) e per nulla le questioni inerenti la razza”. Succede però che “Assistere a tutte le umiliazioni a cui è soggetta giornalmente Mary, porta Grace a farsi delle domande, a chiedersi perché le cose debbano andare in  quel modo. All’inizio è solo un interrogarsi, un fastidio indistinto che a poco a poco la porta ad una presa di posizione. Le conseguenze non tarderanno ad arrivare. Il libro non ci risparmia la sofferenza che nasce dall’assistere a queste gravi ingiustizie e infligge al lettore una grande, grandissima amarezza, appena mitigata dalla speranza. L’autrice è riuscita a scrivere un romanzo potente, senza sbavature, mai moralista o didascalico.” 

Immergersi nella Storia, anche recente, attraverso le storie delle persone che l’hanno fatta o attraversata – anche quando sono figure solo ispirate ai protagonisti reali – ci permette di partecipare a ciò che è stato, di sentirne il peso, perché ci identifichiamo con quelle persone, arriviamo a viverne le emozioni, le fatiche, le paure e le speranze. Facciamo esperienza con loro, ed i grandi Eventi non sono più solo una pagina di Wikipedia o “qualcosa di cui ho sentito parlare”, ma possono diventare parte di noi, parte del nostro patrimonio di vita.

Possiamo così conoscere e sentire vicino e prossimo, ciò che sembra lontano e distante. La discriminazione, in tutte le sue forme, è frutto di mancanza di conoscenza che genera paura che genera distanza che genera mancanza di conoscenza in un circolo vizioso e perverso.

Noi di Teen&20 ringraziamo Lea per questa recensione che ci introduce ad uno strumento utile a ricucire la distanza ed invitiamo tutti coloro che ci leggono a fare propria anche la storia di Molly e Grace. A conoscere, non temere, avvicinare.

La mia stanza

di Giorgio Zanier*

Era un martedì del lontano Febbraio del 1978, tutto il pomeriggio l’avevo trascorso a bussare le porte delle case per recitare la filastrocca in cambio di  qualche uovo e poche monete. Un’usanza che a Carnevale io e i miei compagni di scuola ripetevamo religiosamente ogni anno nel pomeriggio del martedì grasso. Anche quel giorno andò tutto come previsto. Un travestimento per il pomeriggio e uno per il ballo in maschera che si sarebbe tenuto alla sera nella sala parrocchiale del paese . 

Del resto in quell’epoca la Tv era a un canale solo e gli eroi da imitare erano davvero pochi: Tarzan, Zorro, Topolino e pochi altri. Così con un abito da Zorro (tassativamente fatto in casa) nel pomeriggio e un abito da vecchia adattato alla maschera acquistata per la sera, anche quell’anno avremmo rinnovato la sfida tra amici: presentarci con due travestimenti diversi per poi decretare il vincitore in colui che veniva riconosciuto per ultimo. 

Cosi anche quella sera di mi presentai al ballo in maschera con l’intento di non farmi riconoscere, fino a quando improvvisamente notai la presenza di un gruppo musicale. Essendo una serata danzante mascherata ci stava. Del resto anche d’estate durante la sagra del paese vi erano sempre gruppi musicali a animare le serate. Quel martedì grasso invece vi era qualcosa di completamente differente che attirò la mia attenzione. Si perché questa volta a differenza di tutte le altre alla batteria sedeva un bambino della mia età. 

Quando realizzai il tutto rimasi completamente pietrificato. Fino a quel momento avevo pensato che i batteristi fossero sempre stati adulti per cui anche se volevo suonare la batteria nel corso dei miei 11 anni sapevo che avrei avuto comunque tempo per farlo e anche l’organista della chiesa, il mio primo mentore, mi ripeteva spesso che una volta più grandicello (ritornello che non sopportavo dato che l’avevo sentito pronunciare centinaia di volte anche in famiglia) avrei potuto imparare a suonare la batteria. 

Fu proprio lui, mentre accompagnavo le sue esercitazioni con il mio tamburellare sulle sedie, a farmi esordire in pubblico alcuni anni prima durante una celebrazione liturgica grazie a una batteria presa in prestito dall’oratorio del paese vicino. Fu sempre lui a dirmi di suonare con le mani quando preso dall’emozione della mia prima esibizione in pubblico , fui incapace di tenere le bacchette in mano perché tremavo come una foglia per la paura di sbagliare. E fu sempre lui a esortare i miei genitori a inscrivermi al lontano conservatorio di Udine così da cominciare a sviluppare il mio talento che emergeva da tutte le parti ma che purtroppo non sembrava interessare molto, probabilmente perché collocato in una realtà piccola come un paesino di provincia in cui gli aspetti principali riguardavano l’emigrazione e la coltivazione della terra. 

Del resto anche io ero figlio di emigranti ed erano i tempi in cui vi erano pochissime possibilità… di scuole di musica nemmeno l’ombra, solo calcio giovanile e qualche sporadico gruppo scout ancora in fase embrionale…  D’informazione online, oggi diventata fonte di apprendimento per tutte le categorie, nemmeno parlarne. Così, quando quella sera vidi quel bambino, tutte le mie certezze e le mie credenze andarono in frantumi. Corsi di corsa a casa a dire a mio padre di venire a vedere quel bambino che era come me e che quindi avrei potuto anche io iniziare in qualche modo. 

Ma vuoi per le difficoltà di quel momento, la stanchezza del lavoro e altri due figli a cui pensare, ben presto la mia richiesta, come era già successo alla precedente proposta del conservatorio, cadde immediatamente nel dimenticatoio. Cos,ì tolti i vestiti (il carnevale in quel momento era come se non esistesse più) e rimessi gli abiti normali, mi precipitai di corsa a vedere quel bambino. Fortunatamente casa mia era poco distante dalla sala parocchiale per cui fui molto rapido nel prendere una delle poche sedie rimaste e sedermi in un angolo in cui riuscivo a vedere il palco. Non mi mossi più da lì per almeno 3 ore, rapito dal mio sogno che vedevo realizzarsi in qualcun ‘altro.

Già da due anni l’organista se ne era andato, trasferito per lavoro da un’altra parte, e io vivevo la mia passione per la musica immerso in un mio mondo che, nell’ambiente, soprattutto scolastico (tranne qualche apparizione nelle recite alle elementari con un fustino del Dash), non era per nulla recepito. Tuttavia fu proprio quella sera che iniziò tutto per me perché, il giorno dopo, i genitori di quel bambino, vedendomi cosi attento e appassionato, vennero a casa mia e parlando con i miei genitori dissero loro che dovevano assolutamente spingermi allo studio dello strumento. Ricordo bene quel periodo, soldi a casa non ne giravano molti per cui tutti temevano che la mia fosse solo una passione adolescenziale passeggera utile solo a indebolire il bilancio familiare, visti il costo degli strumenti musicali e la difficoltà di reperire un maestro che mi desse i primi rudimenti.

Visto con il senno di poi, quello in realtà fu il primo passo di un percorso lungo 40 anni, fatto sì di sacrifici, ma anche di grandi soddisfazioni e di dischi registrati, Tour e collaborazioni importanti con musicisti di una certa caratura, conoscenze e momenti rilevanti come qualsiasi professione svolta ad ottimi livelli comporta.

Dall’adolescenza fino al professionismo, la musica è stata soprattutto “la mia stanza.” Quel luogo in cui rifugiarmi quando mi sentivo incompreso o invaso da un qualsiasi tipo di ordine autoritario (nel periodo scolastico erano frequenti)  che alle volte  in quella fase di vita tendevo a contrastare perché lo vivevo come un obbligo limitante. Una stanza tutta per me in cui non permettevo a nessuno di entrare.

Scoperta la mia passione rinforzata dall’interesse del  mio primo mentore che poi mi abbandonò per cause di forza maggiore, non mi sono mai arreso pur di  arrivare ad ottenere ciò che desideravo. Ho superato tantissime difficoltà: per studiare lo strumento ho trascorso molte ore in treno per raggiungere gli insegnanti delle grandi città in Italia e all’estero, ma tutto poi è stato ripagato con grandi risultati, anche inaspettati, e soddisfazioni immense. Ricordo ad esempio quando da bambino vedevo il Festival di Sanremo ed ero pronto con il mio fustino ad accompagnare le canzoni ogni sera per tutta la durata del Festival. La sera poi a letto addormentandomi mi dicevo: “Un giorno salirò anche io in quel palco!”  

Così quando nel 1997 partecipai alla 47° edizione del Festival di Sanremo, come una “rullata” mi fecero eco i miei ricordi di bambino e iniziai ad unire i puntini. Quella che era stata la mia stanza per molto tempo, crescendo l’ho ampliata: ho aperto le finestre e ci ho iniziato a far entrare qualcuno, perché senza gli altri non si va da nessuna parte. Se da soli possiamo muoverci, insieme si può andare più lontano, per cui dopo aver ben sviluppato il muscolo della solitudine ho iniziato ad aprirmi al mondo: avevo capito chi ero e cosa volevo fare nella mia vita. 

Giorgio Zanier

E’ vero che prima ho dovuto imparare a mie spese che risalire la corrente è dura, soprattutto quando non sai di essere un salmone e l’ambiente esterno (probabilmente anche in buona fede) ti fa credere di essere un pesce rosso. Ma è anche grazie a questo che oggi, in qualità d’insegnante e formatore, sono in grado di trasmettere ai miei studenti e alle persone con cui vengo a contatto il desiderio di superare i limiti apparenti. 

Ritengo siano di fondamentale importanza, sia per riuscire a crearsi una professione sia per alimentare la propria Felicità, imparare ad ascoltare se stessi e gli altri e dedicare tempo a scoprire chi siamo e che talenti abbiamo. Per usare una metafora, si può paragonare il coltivare il proprio talento  al tentativo di accendere un fuoco. All’inizio per farlo ardere occorre alimentarlo con la legna circostante (famiglia-scuola-ambiente di vita) e poi, una volta acceso, si potrà andare a prenderne in un ambiente esterno. Io penso che, anche se all’inizio non ne siamo consapevoli, ciascuno di noi nasca con un Talento, un’abilità recondita, grazie alla quale c’è un ambito in cui ciò che fa riesce naturale . 

Quando arrivò la mia prima batteria a casa mi ci sedetti dietro e iniziai a suonare come se l’avessi sempre fatto. Anche nelle mie prime serate, fatte all’età di 13-14 anni, ripetevo naturalmente i ritmi imparati nei dischi o che mi ero immaginato in testa. Fin da bambino, io battevo su una superficie con tutto ciò che mi capitava sottomano e farlo mi faceva entrare nella “mia stanza.”

Se in questo momento, rivedendo tutti i miei trascorsi, mi chiedessi come viva oggi la professione del musicista, direi che sono cambiate moltissime cose sia nella mia vita professionale che personale e non ho mai vissuto la mia professione come un lavoro ma piuttosto come una gioia, un privilegio. 

Attualmente il mio principale interesse ruota attorno al tipo di vita che voglio vivere: preferisco mettere a disposizione quanto ho appreso per fare in modo che i miei studenti valorizzino le loro capacità, evitando così di entrare nel paradigma da me sperimentato in gioventù e che è ben rappresentato nel libro “L’aquila che si credeva un pollo.” 

Scoprire fin da subito la propria passione e le proprie capacità offre la possibilità d’imparare a conoscere noi e il mondo circostante soprattutto in età adolescenziale, perché permette di forgiare il proprio carattere, sperimentare il potere della disciplina personale e conoscere le proprie possibilità. Vivere il proprio Talento è un opportunità che la vita ci offre  per comprendere il nostro scopo ed iniziare a viverlo per sé e gli altri, anche per questo lo dobbiamo imparare a coltivare. Come insegna Confucio, scegliere il lavoro che amiamo significherà non lavorare nemmeno un giorno per tutta la vita.

*Collaboro professionalmente nel campo della didattica musicale con il CDM Centro Didattico MusicaTeatroDanza di Rovereto (Tn) suono in diversi progetti musicali e mi occupo di formazione attraverso corsi e seminari. Sono autore della collana didattica per batteristi Custom Learning e del Libro “Crea la colonna sonora della tua vita” dedicato a tutti coloro che desiderano migliorare la propria vita attraverso lo sviluppo del proprio talento.

Ma chi me lo fa fare?

di Diego Fratus*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo con questo articolo e quello di martedì 16 giugno ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Ripercorrere dopo così tanti anni i corridoi delle mie scuole medie mi ha fatto uno strano effetto: mi è sembrato tutto così piccolo, dai corridoi alle classi, persino l’aula magna stessa; probabilmente perché sono passati più di dieci anni e, forse, anche perché sono molto diverso dal ragazzino che li frequentava a quel tempo.

Sono ormai più di cinque anni che frequento nuovamente le aule con il progetto “A Scuola Per Conoscerci” come volontario, portando la mia storia e la mia esperienza di omosessuale dichiarato a ragazzi che di “mondo gay” hanno in mente solo i personaggi della TV; e in mezzo a un sacco di domande, sia semplici che complicate, ce n’è una che quasi sempre mi viene fatta: “Perché sei qua?” oppure “Perché fai il volontario?”, e se vogliamo “Perché scrivo questo articolo?”. Una domanda semplice che richiede una risposta lunga perché essa racchiude sia il passato che, volendo, il futuro.

Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri (Internet non era diffuso come ora) e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me.

In un certo senso l’essere un ragazzo sempre attaccato al computer e, quando divenne possibile, sempre connesso online, mi aiutò, perché mi permise, grazie alla protezione di uno schermo, di aprirmi sentendomi al sicuro con un gruppo di persone che consideravo quasi una famiglia alternativa e mi fece conoscere il primo ragazzo apertamente gay che capì come mi sentissi e, a modo suo, mi guidò verso l’accettarmi.

Questa esperienza mi diede coraggio e decisi di fare coming out con alcuni compagni di classe, cosa che andò bene e in seguito, mi dichiarai anche coi miei genitori. Anche con mia madre andò bene e anzi, il nostro rapporto migliorò ulteriormente, mentre con mio padre, col quale avevo già un rapporto instabile, ci fu un momento di scontro per poi semplicemente non parlarne più.

Qua c’è un primo indizio sul perché sono attivista: nessuno dovrebbe sentirsi solo, abbandonato, isolato dal mondo, per l’essere semplicemente se stesso, per una parte importante di se stessi, che ricordiamo è scientificamente provato sia naturale.

Lo sono diventato con l’obiettivo di poter aiutare qualcuno, anche un solo ragazzo a sentirsi “normale”, accettato da chi lo circonda, conscio ci sia qualcuno che lo capisca e sia pronto a supportarlo nel suo percorso; ma ancor di più per sensibilizzare chi sta attorno a quel ragazzo a stargli vicino, perché le più grandi soddisfazioni me le hanno date le persone che più avevo paura potessero rifiutarmi, quando mi hanno accettato dandomi una pacca sulla spalla dicendomi “E quindi? Qual è il problema?”

Quando iniziai ad uscire dalla mia bolla online mi resi conto che i luoghi (sicuri) per conoscere qualcuno erano pochi, difficilmente raggiungibili e/o non adatti al chiacchierare, e poi, timido com’ero, era impossibile spingermi a muovermi da solo. Così mi addentrai nel magico mondo delle app per incontri, tristemente il mezzo principale per noi per conoscere altre persone. Qui conobbi altri ragazzi omosessuali, mi feci delle nuove amicizie, e incontrai il mio primo moroso che non stesse a chilometri di distanza.

Questo racchiude un altro indizio. Siamo portati a pensare la vita affettiva sia una parte piccola della nostra persona ma, in realtà, è enorme: conoscere altri ragazzi gay è parecchio complicato, principalmente perché siamo in pochi a essere a nostro agio a vivere la nostra sessualità alla luce del sole; i locali sono pochi e non è raro ci siano casi di bullismo e/o aggressioni, oltre ovviamente all’esposizione pubblica.

A quel punto un ragazzo giovane cosa fa? Si rivolge ai siti e alle app, con i loro ovvi difetti e limiti, dati dal filtro di uno schermo o dall’assenza di empatia.

Nel 2016 andai al mio primo Pride a Treviso e, nonostante avessi un’idea di cosa fosse e una conoscenza teorica di cosa significasse, soprattutto storicamente, in realtà solo una volta in mezzo ne ho capito il reale contenuto. In un periodo in cui ancora non ero del tutto sicuro di me stesso, in cui non mi sentivo sicuro della mia sessualità camminando per strada da solo, mi sono sentito al sicuro.

Ero in mezzo a persone che mi capivano, in mezzo a persone che condividevano un percorso simile al mio, e soprattutto, a persone che mi, che ci, supportavano: omo ed etero, uomini e donne, giovani e anziani, single e famiglie, tutti per ricordare al mondo che siamo tutte persone uguali e meritevoli dello stesso rispetto e degli stessi diritti. Che ognuno dovrebbe poter camminare per le strade di qualsiasi città tenendo per mano chiunque si voglia. Quella sensazione di sicurezza che dovrebbe essere presente sempre.

Arriviamo così al mio reale inizio come attivista, ossia quando mi fu proposto di partecipare come volontario al progetto scuole. Mentalmente ripercorsi la storia che vi ho brevemente raccontato e accettai, senza davvero sapere a cosa andavo incontro, pensando non sarei durato perché, beh, non sempre sono bravo a parlare di me.

E invece è stata, ed è tutt’ora, una delle migliori esperienze io abbia mai fatto. Ero convinto che il mio contributo non sarebbe servito, che mi sarei trovato davanti a classi disinteressate, un po’ come quelle assemblee che facevo io in aula magna dove l’unico pensiero era “Quando suona la campanella?”.

Invece ho, quasi sempre, trovato ragazzi che mi hanno ripetutamente stupito per la loro curiosità e profondità, che non mi sarei aspettato da ragazzi così giovani. Soprattutto mi sono stupito di me stesso, di come io mi sia trovato a rianalizzare pezzi della mia vita che credevo ormai chiari, per poterli raccontare. Il trovarmi davanti a ragazzi onestamente curiosi di capire le mie ragioni, il perché fossi lì, mi ha messo davanti a domande che non mi ero fatto o alle quali non avevo ancora dato una risposta.

In definitiva, “Chi me lo fa fare?”

Me lo fa fare il ragazzino che alle elementari si sentiva solo al mondo.
Me lo fa fare l’adolescente, quello che fingeva gli piacessero le ragazze, e che nascondeva al mondo un’intera fetta del proprio essere, anche alle persone a lui vicine.

Me lo fa fare l’adulto che vede attorno a se una situazione che, nonostante sia migliorata molto, può ancora migliorare.

E scrivere questo articolo mi ha portato a pormi una domanda: “Chi è per me un attivista?”.
La prima immagine che potrebbe venire in mente è probabilmente la piazza piena di manifestanti, magari a chi conosce un po’ la storia viene in mente la nascita del movimento di attivismo LGBT a Stonewall, eppure io credo che ora abbia assunto un “sapore” diverso la parola.

Le piazze sono ancora necessarie ma serve altrettanto che le piccole cose non siano più fatte nell’ombra. “Che lo facciano a casa loro!”: questa frase rappresenta quello che deve essere apertamente combattuto. Siamo attivisti quando abbracciamo un amico senza quella paura del “magari ci vedono e pensano male”, quando teniamo per mano un amico o il partner per le strade di un paesino, quando su una panchina appoggiamo la nostra testa sulla sua spalla o quando condividiamo un panino per poi darci un bacio fugace, col sorriso sulle labbra.

Possiamo essere tutti attivisti, gay o etero, rendendo “normale” l’amare chiunque si voglia amare. Rendiamo il mondo un po’ più colorato, e che “l’arcobaleno sia sempre con voi”!

*Mi chiamo Diego, prendo tutto così seriamente da non far altro che scherzarci sopra. Metallaro, food lover, nerd quanto basta, un pizzico di ipocondria e una vagonata di ansia. A modo mio provo a capire il mondo e cerco sempre una strada per, magari, renderlo un po’ più bello. Ma in fondo c’è già la pizza, può esserlo di più?

Notte prima degli esami

di Sara Feltrin

Antonello Venditti

Scriveva così Antonello Venditti nel 1984 quando ancora la notte prima degli esami era fatta di serate con amici, una pizza con i compagni di classe tra grandi risate e qualche beffa ai professori, ma anche lunghi pianti, prime follie d’amore e, per alcuni, l’ultima sfida scolastica.

Notti insonni in preda all’ansia e all’immaginazione che non smetteva di pensare all’ultimo giorno di scuola, ai banchi occupati da quei compagni di scuola che forse mai, come in quel momento, rappresentavano solidi pilastri di un’identità collettiva e unita, elementi di conforto di un vissuto che, in quei giorni prima degli esami, solo loro avrebbero potuto capire: la maturità. O meglio, l’attesa per la maturità. Sì, perché la maturità mica arriva con la prova di italiano o di matematica, né tantomeno all’esame orale; anche perché insomma, agli esami ci si abitua prima o poi. E’ ciò che la maturità nasconde implicitamente che angoscia più di tutto: la maturità quella vera, quella che arriva quando non sai che arriva. Ma la senti perchè è lì, lì dietro l’angolo ad aspettarti. E sai che, da quel momento, tutto cambia. Tutto cambia: la scuola lascia spazio all’università o per altri al lavoro, i compagni di classe chissà, ognuno prende la propria strada, amori che vanno e amori che vengono, mamma e papà pronti a consegnare “le chiavi” per l’autonomia, responsabilità che aumentano, insomma: si diventa grandi. Volenti o nolenti, è ora di crescere. Tutto cambia e l’angoscia del futuro sale alle stelle. 

Ecco che, nella notte prima degli esami, il pensiero di rivedere per l’ultima volta i propri compagni di banco all’interno di quella classe che, come un’amica fedele, ha saputo contenere per anni gioie e dolori, la mamma e il suo abbraccio di conforto, il papà e la mano sulla spalla, diventano cure di sollievo, fondamenti sui quali costruire la propria identità, il proprio futuro, la propria vita.  

Ma non siamo nel 1984, siamo nel 2020 e l’immagine che salta in mente se pensiamo a esami di stato 2020 è, più o meno, questa:  

con un grande punto di domanda.  Seguito dall’ordinanza del Miur (O.M. del 16 maggio 2020) che cita: 

Esami del primo ciclo: L’esame di Stato delle studentesse e degli studenti coincide, quest’anno, con la valutazione finale da parte del Consiglio di Classe e terrà conto anche di un elaborato prodotto dall’alunno, su un argomento concordato con gli insegnanti.

Esami del secondo ciclo: Gli Esami del secondo ciclo avranno inizio il 17 giugno alle ore 8.30. Previsto, per quest’anno, il solo colloquio orale. I crediti e il voto finale si baseranno sul percorso realmente fatto dagli studenti.

Il Covid-19 ha destabilizzato tutto, ha anticipato senza alcun preavviso quel tutto cambia angosciante già di per sé. Nessuno era pronto e nessuno si sarebbe aspettato un colpo di scena così drastico. 

I nostri ragazzi e i nostri nuovi maturandi si prestano a lanciarsi in una nuova missione verso un territorio da mesi abbandonato e rivisitato in vesti diverse: non più l’ennesimo ritrovo tra compagni e professori, la lotta del prendersi i posti migliori tra i banchi e la forte sensazione di condividere insieme un’esperienza collettiva unica, ma un ritrovarsi con i professori allineati dietro dei banchi resi insipidi dal disinfettante e una mascherina che non lascia trasparire nemmeno l’accenno ad un sorriso amichevole di un rassicurante tranquillo, andrà tutto bene. E’ una maturità insolita che non ha dato la possibilità o meglio, l’opportunità, di vivere quell’esperienza unica, tra ansia e adrenalina, che ha contagiato i maturandi degli anni passati. Il lockdown ha impedito i momenti, forse più significativi, che colorano l’immaginario degli adolescenti in questo momento di crescita difficile e delicato: l’ultima gita scolastica, l’ultima settimana di scuola appesantita dalle interrogazioni di recupero ma alleggerita dal calore del sole di giugno che apre le porte all’estate, agli ultimi giorni di autogestione, al suono dell’ultima campanella, agli ultimi scambi di sguardi celati e agli ultimi baci segreti durante la ricreazione, fanno il saldo di tutte quelle esperienze d’oro che per mesi hanno fantasticato e sognato all’interno delle loro stanze, tra videochiamate e social network. Hanno fatto i conti con loro stessi, con ciò che vorrebbero e non vorrebbero, con ciò che avrebbero fatto appena usciti dal lockdown, una considerazione su qualche amicizia persa e per alcuni un maggiore apprezzamento all’ambiente di casa.

La scuola non rappresenta più solo il luogo in cui imparare e sperimentare il successo scolastico e prestazionale, ma è diventata il luogo in cui più di ogni altro, si lotta alla valorizzazione e al successo personale e affettivo. E’ diventata una seconda casa in cui ognuno investe in tante relazioni affettive e, come succede a casa, se queste relazioni sono sane e positive allora favoriranno maggiormente partecipazione e apprendimento; al contrario, se queste relazioni dovessero rivelarsi mendaci e deludenti, allora tutto il palco crolla: ascolto, partecipazione, apprendimento, relazioni e, di conseguenza, valorizzazione personale. 

Un momento in cui, per gli adolescenti del giorno d’oggi la ricerca al rispecchiamento (condivisione di sentimenti ed emozioni), all’essere cioè riconosciuti, ammirati e valorizzati si rivolge prevalentemente nella cerchia dei coetanei che molto spesso vengono percepiti, a scapito degli adulti, più competenti nel riconoscere e valorizzare le loro modalità espressive e creative (Matteo Lancini, Adolescenti navigati).

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha letteralmente sradicato i nostri ragazzi fuori del loro habitat naturale (la scuola, le piazze, il cinema o qualche centro commerciale) impedendogli vicinanze, fisiche ed emotive, fondamentali per la crescita, la costruzione della loro identità, per quel famoso diventare grandi che la prova di maturità, questa maturità ancor di più, sembra imporre.

Penso principalmente ai maturandi o coloro che dovranno salutare la loro scuola per affrontare, a settembre, il critico passaggio alle scuole medie o ancor più determinante, all’università o al lavoro. In questo momento in cui l’incertezza regna sovrana, trovare un luogo di attracco quanto più sicuro e fermo non è per niente semplice. “Sto cambiando io, stanno cambiando le mie idee, sta cambiando il mondo là fuori e non c‘è niente di fermo.” 

Con i test di ammissione e gli open day delle università rimandati, è diventato ancora più difficile prendere decisioni; e l’insicurezza del futuro, di questo futuro post Covid-19, porterebbe anche lo studente più deciso e convinto a mettere in discussione le proprie priorità e le proprie scelte. D’altronde come può un adolescente che sta crescendo e cambiando, vedersi proiettato verso una realtà che sta cambiando a sua volta? Come è possibile pensare ai prossimi mesi, o per i più caparbi al prossimo anno, quando oggi non sappiamo nemmeno se programmare le ferie delle prossime settimane? Beh, una cosa è certa: potranno raccontare ai loro nipoti di essere stati dei veri e propri sopravvissuti ad una delle più grandi epidemie mondiali degli ultimi secoli, ma soprattutto, potranno vantare l’onore di aver affrontato una delle più grandi sfide personali.

E da quel giorno decisi che non avrei mai più avuto paura

di Giacomo Deperu*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo oggi e martedì ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Il terrore. A questo penso quando ricordo gli anni della mia adolescenza. Scoprire il mondo significava nascondermi dal mondo; solo pochi, lunghissimi anni dopo lessi “Il processo” di Kafka e riuscii a dare una collocazione a ciò che mi era accaduto.

Come molti omosessuali, anch’io ho imparato di essere “finocchio” dalle battute dei compagni a scuola, dagli sguardi dei ragazzi al bar in osteria. Dagli atteggiamenti colpevoli di tanti adulti.
Non sapevo ancora cosa fosse la sessualità ma già sapevo che l’omosessualità, la mia omosessualità, era il male.

Terrorizzato, perché le prese in giro, le aggressioni verbali del gruppo dei bulli, specialmente in quell’incubo con le ruote che era la corriera del ritorno dopo scuola, temevo mi esponessero all’umiliazione di dover rivelare la mia omosessualità alla mia famiglia. Che successivamente, una volta imposta, accetterà abbastanza bene la mia omosessualità, ma solo quando tutto il percorso di elaborazione ed accettazione era ormai avvenuto nel più completo abbandono. In anni dolorosissimi.

Erano gli anni ‘80, Boy George mi aveva affascinato dalla copertina del 45 giri “Do you really want to hurt me?”
Molti di voi si staranno chiedendo: cos’è un 45 giri? E questo mi fa sentire vecchio. Ma sentivo che io e Boy George eravamo “di famiglia”: quale lo capii solo dopo. Ed era la famiglia dei diseredati, non dei “culattoni”.

Avevo appena 14 anni quando, in cucina con mia mamma e mio fratello, diedero alla radio la notizia che un virus uccideva gli omosessuali. Mia madre ci disse di fare silenzio per ascoltare meglio la notizia e, simulando indifferenza, cominciai a morire dentro. “Morirò” pensai, perché sono omosessuale. Ero talmente ingenuo che le dinamiche sessuali legate al contagio mi sfuggivano totalmente e non bastava perciò la mia verginità a farmi star tranquillo. Non c’era Google al quale fare domande in segreto, non c’era Grindr sul quale fare due chiacchiere e quattro scopate. “Morirò” pensavo, e così scopriranno che sono “finocchio”: l’outing concepito peggio della morte. Sembrava non esserci fine al terrore kafkiano.

Nella compagnia di amici del paese lo avevano capito tutti che ero gay. Fra di loro sono sicuro però che non usassero termini così eleganti per descrivermi.
Il paese se non ti ammazza ti adotta e questa forse è stata l’unica fortuna. Ma non esisteva internet, non avevo contatto col cosiddetto “mondo gay” che non sapevo nemmeno esistesse: al mondo, ne ero certo, omosessuali eravamo solo io e Renato Zero! Immaginatevi lo stupore quando quest’ultimo negò di esserlo: rimanevo solo io…

Riuscii a limonare qualche ragazza di tanto in tanto, quel po’ che bastava a darmi una parvenza eterosessuale per stare in società. Ma crescendo, sapevo che mi attendeva l’incubo di dover affrontare il rapporto sessuale con una donna: non ci sarei mai riuscito, ne ero certo. E quel giorno mi sarei ammazzato per la vergogna.
“Quel giorno” divenni abile a spostarlo sempre più in là e, fortunatamente per me, sfortunatamente per i miei amici etero, le occasioni in paese non erano poi molte.

Avrei proseguito la mia vita così, credo. O forse sarei davvero arrivato a porvi fine tragicamente. Ma un giorno, due sconsiderate ragazze lesbiche venute dalla città, spinte da chissà quale folle idea di poter fare soldi nell’osteria di un minuscolo paese, rilevarono il più famoso dei bar vicino casa. Ovviamente, i loro amici pordenonesi, molti dei quali gay e lesbiche, presero l’abitudine di venirle a trovare e io, con la scusa di arrotondare qualche spicciolo la sera, mi ritrovai a lavorare in quello che ai miei occhi appariva come un “bar gay” a duecento metri da casa in un paese di 800 anime! Incredibile: la montagna che andava da Maometto. E la mia vita cambiò.

Appena maggiorenne non resistetti alla corte di un bellissimo vicino di casa, trentenne (all’epoca mi sembrava così adulto, oggi potrei avere un figlio di 30 anni…) che tutte le sere veniva a bere il caffè al bar: una sera volle mostrarmi i suoi gatti a casa… oggi gli darei un pugno sul naso solo per la banalità della scusa, eppure mi innamorai come una pera cotta e fu il mio primo bacio ad un uomo. Niente altro che un bacio, che cambiò la mia vita.
La mattina successiva, da solo nel mio letto, aprii gli occhi e li richiusi subito come a cercare dentro di me il turbamento per “quell’atto immondo” compiuto la sera prima: avevo baciato un maschio. Ma dentro di me trovai solo pace.

E da quel giorno decisi che non avrei mai più avuto paura.

Tanto che quando mia madre, vedendomi dalla finestra di casa scendere dall’auto del mio moroso in piena notte, mi attese arrabbiata in cucina e cominciò ad attaccarmi io, con una calma che non sapevo di avere, la fermai e le dissi: “Io ci ho messo anni ad accettare me stesso da solo ed ora sto bene. Se adesso tu ci stai male, è un problema solo tuo e te lo devi risolvere tu”. E andai a dormire. Non si permise mai più di usare quel tono con me.

Poi l’amore del bel trentenne finì presto, imparai le delusioni che tutti provano, forse però senza la palestra di un’adolescenza passata a nascondermi invece che a sperimentare affettività e sessualità. Altri uomini passavano nella mia vita ed uno in particolare mi volle davvero tanto bene. Un mentore per me, si prese cura della mia inettitudine al mondo e mi insegnò a vivere. E a scopare anche, lo facevamo spesso e volentieri, io inesperto ma nel pieno dei miei vent’anni, con l’entusiasmo di chi aveva scoperto un giocattolo nuovo. E lo si faceva, senza preservativo, tanto quel virus che anni prima avevo sentito che uccideva i gay e che adesso aveva un nome, e aveva ucciso Freddie Mercury, era roba da Londra o New York. O Philadelphia. Cosa rischiavo io, ragazzino di periferia?

Fu così che nel sapere che questo importante compagno di tante avventure, all’improvviso, stava morendo di AIDS senza che io avessi mai saputo nulla della sua sieropositività, arrivò una doccia fredda. Avevo davvero rischiato molto ma non gliene ho mai fatto una colpa: eravamo entrambi vittime dell’ignoranza, della paura, dell’abbandono a noi stessi al quale ci condannava questa società. Eravamo diseredati e perciò lui era la mia famiglia. Come Boy George. E a 25 anni dalla sua morte, lo ricordo ancora con immenso affetto e gratitudine.

Nel 1995 sentii parlare del primo “Gay Pride” a Bologna: sentivo che era un evento storico e che non potevo mancare! Soprattutto mosso dagli ormoni e dall’idea dei tanti ragazzi che avrei potuto incontrare, lo ammetto. Ma la sera al Cassero, sede dell’Arcigay bolognese all’epoca ancora nella medievale Porta Saragozza, mentre attendevamo che iniziasse la festa, assistetti ad un dibattito dove questo donnone biondo e riccioluto diceva cose che, parola dopo parola, mi aprivano la testa per ficcarci dentro cose nuove e visioni innovative: seppi poco dopo che era Marcella Di Folco, presidente del Movimento Identità Transessuale e prima donna transessuale al mondo a ricoprire una carica pubblica (consigliera al Comune di Bologna). Quel simbolo di intelligenza e coraggio mi incantò e ancora oggi penso che la sua voce e le sue idee furono forse la mia prima, vera esperienza politica e da attivista. 

Fu poi nel 1996 che incontrai un compaesano che conoscevo solo di vista. Coetanei, elementari e medie nella stessa scuola, ricordavo di averlo visto verso gli 8 anni a ricreazione in cortile e di aver pensato, per la prima volta in vita mia di un altro maschio: “Che bello che è!”.
Ci conoscemmo però in una discoteca gay a Vicenza! Lui, bellissimo e padre di una splendida bimba di 3 anni, credo mi scelse più per disperazione che per il mio fascino. Ma fu così che mi regalò un’esperienza di vita che ci ha visti crescere insieme per 21 anni fino al 2017.

E insieme, nel 2010, posammo per la campagna contro l’omofobia “Civiltà prodotto tipico friulano”: io e lui ci scambiavamo un semplice bacio seduti ad una tavola imbandita, fra vino, prosciutto di San Daniele e Montasio. Un bacio che rivendicava la nostra esistenza alla luce del sole, probabilmente il primo bacio omosessuale in una campagna pubblica nella storia d’Italia. I due manifesti (c’era anche la versione al femminile) scatenarono lo scandalo ma costrinsero, famiglia per famiglia, a discutere del tema dell’omosessualità in ogni casa della nostra regione. Cambiandola per sempre.
Quelle immagini, pubblicate su ogni rivista e quotidiano italiano, vennero in seguito citate come una delle migliori campagne contro l’omofobia per la rivista Wired, richieste dall’Università della California per una pubblicazione universitaria, esposte in una mostra sui temi lgbt in Polonia ed utilizzate per settimane come immagine profilo di tantissimi utenti Facebook in tutta Italia e anche in giro per l’Europa.

Quel ragazzino spaventato aveva definitivamente sconfitto il terrore della sua adolescenza e, a testa alta, si mostrava orgoglioso negli stessi luoghi che lo avevano tanto discriminato.

*Giacomo Deperu, sardo-carnico, nato a Tolmezzo (UD) nel 1969 e dal 1975 cresciuto a Spilimbergo (Pn), vive oggi a Pordenone ed è titolare dello STUDIODEPERU – Grafica e comunicazione a Fiume Veneto (Pn).
Per anni attivista in Arcigay Friuli, ha ricoperto in associazione la carica di vicepresidente prima e presidente poi, dal 2009 al 2015 e di Consigliere nazionale Arcigay dal 2011 al 2015.

“Pillole” di musica

di Rocket Nurse*

La musica ha da sempre fatto parte della mia vita.

In casa girava sempre qualche CD, cassetta o vinile di musica preferita dai miei genitori. L’adolescenza però mi ha donato un carattere ribelle e il solo riuscire a masterizzare di nascosto un CD, a scaricare una nuova canzone per il mio MP3, mi faceva sentire libera e padrona delle mie decisioni.

Nasce cosi la mia passione per la musica e la mia fame di scoprirne sempre di nuova.

I lunghi viaggi per andare a scuola si trasformavano in vere e proprie sessioni di studio di nuovi gruppi e generi musicali…il mio cervello aveva fame di conoscenza.

Ma sentivo che non bastava, che mancava un tassello al mio puzzle. Trascorsa l’età adolescenziale sono diventata un’infermiera, ho studiato metodi non farmacologici per poter aiutare efficacemente i miei pazienti ad affrontare la sofferenza. 

La mia fame di musica non solo era aumentata ma si era canalizzata verso uno scopo ben preciso: utilizzare le mie conoscenze per convertirle in una forma di aiuto.

Per me la musica, oltre che ribellione, era stata ai tempi dell’adolescenza una grande forma di consolazione, di elaborazione. C’era sempre un testo giusto o la melodia migliore per affrontare i momenti di sconforto, per elaborare le mie ansie. 

La musica mi capiva più di quanto non lo potessero fare amici e parenti. Allentava l’ansia, la rabbia incontenibile che portavo dentro. Traduceva in note musicali le sfaccettature dei miei pensieri.

I miei studi si rivolgono alla capacità della musica di contrastare o accompagnare i sentimenti e le percezioni dolorose nei pazienti.

Di invocare nei pazienti non coscienti delle reazioni, punto di contatto efficace per forme indirette di comunicazione.

Di favorire dunque il processo di cura ed assistenza e una maggiore percezione di comfort.

*Sono Alessandra, nonché Rocket Nurse. Sono infermiera e ho deciso di specializzarmi nell’utilizzo della music medicine, ovvero lo studio della musica a scopi ausiliari nelle cure ospedaliere! La musica è da sempre stata per me fonte di sollievo e veicolo per elaborare i miei vissuti. Ho voluto trasferire questa passione e le mie conoscenze nel mio lavoro. Attraverso continue ricerche degli innumerevoli studi in merito, mi sto specializzando. Interpreto questa esperienza soprattutto come un arricchimento del mio bagaglio personale ma spero che presto la music medicine sia più che mai una materia conosciuta nel mondo sanitario.

Quando i sogni dell’adolescenza diventano progetti di vita e di carriera

di Giuseppe Miceli*

Durante il tempo trascorso in quarantena, le cose più interessanti che ho potuto fare – al di là di prendere atto di avere una preadolescente filmaker in casa prestata al mondo di “tik tok”, ed una bambina che assomiglia a Jane Fonda in versione cheerleader – sono state leggere e riflettere. Letture e riflessioni che mi hanno portato inevitabilmente indietro nel tempo, a quando l’adolescente ero io stesso.

L’opportunità di scrivere di quella fase della mia vita, offertami da Teen&20, capita insomma al momento giusto.

Non sono stato il classico ragazzo adolescente problematico, che dava grossi grattacapi ai propri genitori. A parte qualche insuccesso scolastico, non avevo né richieste esose né particolari esigenze di libertà, come tanti altri coetanei di allora. Il motorino lo comprai con i miei primi risparmi, sudati durante un’estate passata a fare l’operaio, e cominciai a frequentare le discoteche non prima della maggiore età. Ero consapevole di vivere in una famiglia dove si facevano sacrifici e lo accettavo con responsabilità. Ma questo non mi ha permesso di uscire comunque indenne da quegli anni.

Non avevo ancora quindici anni (era il 1985) quando il mio migliore amico, compagno di scuola e squadra, morì in un tragico incidente stradale. Non feci in tempo di uscire da quel trauma che se ne ripresentò un altro, toccandomi ancor più da vicino. Venni coinvolto, un anno dopo, in un altro brutto incidente, insieme a mio fratello e due suoi compagni di scuola, uno dei quali perse la vita. Fu un’esperienza straziante per tutti noi ed i nostri genitori. Dover sbattere, in così poco tempo, ripetutamente contro una realtà come la morte a quell’età, rappresentò una prova difficile da superare. Seguì un periodo in cui i miei sentimenti sembrarono appiattirsi e nel tempo mi resi conto dei danni psicologici subiti.
I risultati scolastici non mi aiutarono, nel frattempo mio padre decise con perentorietà che dovevo lasciare il calcio e con esso tutta la rete di relazioni che ero riuscito a crearmi, con non poche difficoltà. Alle soglie dei diciasette anni, insomma, le cose per me non si stavano mettendo per niente bene.

Erano gli anni di Videomusic e più tardi anche di Mtv, la radio inoltre era ancora un mezzo di svago e di informazione importante, attraverso cui cercare qualcosa di nuovo ed inesplorato. Pordenone, la città dove studiavo, vantava un sottobosco culturale ricchissimo che non tardò ad influenzare, sul finire del 1986, le mie scelte in campo musicale ed estetico. I miei genitori, purtroppo, non mi avevano trasmesso nulla da questo punto di vista, non avevamo ricche librerie a casa (a parte un paio di enormi enciclopedie) o collezioni di dischi dalle quali attingere e trarne ispirazione, quindi qualsiasi sforzo facessi, sapevo che era frutto della mia intraprendenza e curiosità. Sentivo che qualcosa stava cambiando in me, ero alla ricerca di una identità. Nulla di nuovo in un adolescente, se non fosse che per me identità voleva dire innanzitutto distinguermi dagli altri, non omologarmi. 
I media erano diversi e meno invasivi, non eravamo sottoposti alle pressioni di oggi naturalmente, molti giovani si ispiravano alle cosiddette “controculture”, attraverso le quali potevano esprimersi ed affrancarsi dalla società generalista e da famiglie iperprotettive come la mia. E così, grazie anche ad alcune nuove amicizie, riuscii a ritagliarmi piano piano il mio piccolo angolo di “paradiso”, nel quale misi tutto quello che mi faceva stare bene, innanzitutto la musica. Musica che avvertivo come qualcosa di fortemente identitario, che mi ha portato a scoprire l’emozione di andare ad un concerto, il mondo della radio, dell’editoria indipendente, ed in seguito universi paralleli come il cinema, la letteratura, l’arte e la fotografia.

Ero felice e spensierato, forse ancora un po’ introverso ma non più l’adolescente insicuro e inadeguato di prima, anzi tutt’altro. Mi trovavo nel migliore dei mondi cui potessi aspirare in quel momento. Il processo attraverso il quale elaborai le mie dolorose esperienze, fu del tutto naturale e partì da me stesso. L’aver scoperto quel vaso di Pandora ebbe su di me un effetto salvifico. 

I fatti che seguirono tracciarono il mio percorso futuro. Contribuii alla realizzazione di una “fanzine”, ovvero una rivista artigianale fatta di pagine fotocopiate (in uso negli anni 70/80), in cui scrivevo articoli musicali, recensivo dischi e concerti. Successivamente, a vent’anni circa, collaborai per un breve periodo con la redazione della rivista musicale “Rockerilla”, fino alla conduzione di programmi in radio e all’organizzazione di concerti in Italia, che è diventata nel tempo la mia professione.

Foto di Marco Luchetta

C’è da dire che negli anni del raggiungimento della maturità, la vita non mi trattò sempre bene, avvenimenti negativi e delusioni erano sempre dietro l’angolo. Devo ammettere comunque che ogniqualvolta mi sono trovato ad affrontare delle difficoltà, la musica era sempre presente, e la sua forza propulsiva mi ha aiutato spesso a superarle. 

Vorrei tanto che il mio racconto arrivasse a quei ragazzi che hanno pensato ad un certo punto di non farcela, e li stimolasse nella ricerca di qualcosa di sano e solido – che per me è stato il mondo della musica ma per qualcun altro potrebbe essere il teatro, l’arte, il fumetto, lo sport… – a cui aggrapparsi per esprimere se stessi e ritornare a credere nel proprio futuro. 

* Lavoro professionalmente nel campo dell’organizzazione di concerti ed eventi musicali, in tutto il territorio nazionale, per la mia agenzia Solid Bond Agency dal 2001 , anche se iniziai in maniera semi-professionale già dal 1991. Organizzo concerti di artisti internazionali per club, festival ed eventi. Negli ultimi anni ho fatto parte della direzione artistica di Fiera della Musica di Azzano Decimo e collaborato con Fabrica di Treviso.

Percorsi tortuosi: adolescenti e scuola

di Francesca Del Rizzo

Questa settimana si è celebrato l’anniversario della nascita di Don Milani (27 maggio) e questa ricorrenza mi ha fatto riflettere: mi sono chiesta cosa avrebbe pensato lui della didattica a distanza di questi giorni, lui che faceva lezione all’aria aperta, lui che aveva con i suoi alunni un rapporto di prossimità, ancor più che di vicinanza. Sono certa che si sarebbe inventato qualcosa di bellissimo ed entusiasmante, per poter conservare la vicinanza nella sicurezza. Certo, non so se glielo avrebbero lasciato fare… ma sicuramente lui ci avrebbe provato ed avrebbe perseverato.

Perché amava educare ed amava i suoi ragazzi, tutti.

Don Milani fa scuola a Barbiana

Io ho invece l’impressione che, nella scuola di oggi, come in quella di ieri del resto, forse, non tutti gli insegnanti amino sempre tutti i loro studenti. Alcuni tendono a valorizzare e gratificare quelli che seguono percorsi lineari, che lavorano, si impegnano ed ottengono bei risultati, mentre tendono a svalutare, svilire, a volte umiliare chi invece sembra fare più fatica, magari si impegna poco ed ottiene risultati insufficienti o al limite. Credo che sia naturale, da un certo punto di vista. Insegnare non è per nulla una professione facile ed un insegnante può vivere il disimpegno di uno studente, il suo palese disinteresse per la materia e per i compiti, il suo scarso apprendimento come una sorta di insulto personale, mentre i risultati e l’abnegazione dell’allievo studioso lo gratificano e ripagano di tanta fatica.

Naturalmente non intendo assolutamente suggerire che agli studenti “bravi” non debba essere riconosciuto il lavoro che fanno, anzi probabilmente dovremmo riflettere – e non escludo che ci proverò – su come farlo in maniera davvero costruttiva, forse, però, un pensiero diverso su quelli che “non hanno voglia” potremmo articolarlo proprio ora, anche in memoria dei percorsi tortuosi dei ragazzi di don Milani.

Ho letto recentemente un libro che una persona che stimo mi ha prestato e che consiglio a tutti, senza distinzioni di età o di preferenze letterarie: è un libro che val la pena leggere. Si tratta di Bianco come Dio di Nicolò Govoni.

L’obiettivo di Nicolò nel libro non è raccontare il suo percorso scolastico, tuttavia a tratti egli ci parla di un’adolescenza difficile, caratterizzata da colpi di testa e da un difficile rapporto con il padre e con la scuola ed i suoi insegnanti. Alla fine delle superiori Nicolò, a diciotto anni, si sente vuoto: “Mi era stato detto che non valevo nulla così tante volte che avevo finito per crederci”.

Ed è proprio così che capita anche a molti ragazzi che io conosco in studio: è stato detto loro che non sono capaci, che non sono in grado di fare niente di buono, che non hanno combinato nulla nella vita (appunto, a 15, 16, 17, 18 anni…) così tante volte che queste sentenze sono diventate la definizione che loro stessi danno di sé.

Queste parole sono state dette da “adulti” (non solo insegnanti, certo, anche genitori, allenatori… ) che non hanno saputo fare qualcosa di diverso dal giudicare la persona sulla base di un comportamento, o una serie di comportamenti, senza mai chiedersi davvero: perché? Senza mai provare a guardare il mondo con gli occhi di quei ragazzi o di quelle ragazze (perché, intendiamoci, spiegare il comportamento di un ragazzo che non studia dicendo che non ha voglia di studiare mi sembra vagamente tautologico). Forse varrebbe la pena di chiedersi: e perché non ha voglia di studiare? Magari perché, con il passare degli anni, e delle parole degli adulti, si è convinto che non ha senso provarci, visto che tanto non può riuscirci… oppure perché è talmente impegnato a combattere i demoni dentro di sé che non ha energie o risorse da investire negli apprendimenti… o ancora perché ormai l’unico ruolo in cui si sente riconosciuto è quello del deviante. Le ragioni possono essere tante quante sono i ragazzi, ma, appunto, sono ragioni: c’è sempre un perché e concedersi di comprendere quel perché apre a mondi personali in cui anche le scelte apparentemente più sbagliate appaiono ragionevoli…

Le sentenze che gli adulti emettono con tanta, troppa leggerezza segnano i ragazzi e le ragazze, li inchiodano ad una versione temporanea e affaticata di loro stessi, e troppo spesso finiscono per stabilire e tracciare il loro futuro.

Nicolò si è ribellato a queste definizioni, ha scelto di abbandonare l’Italia e di andare a fare un periodo di volontariato in un orfanotrofio in India. Lì, fra molte altre cose, si è dedicato all’appoggio ai ragazzi dell’orfanotrofio nello svolgimento dei loro compiti scolastici. In un passaggio scrive:

“Dopo tre anni, i ragazzi parlano un inglese eccellente. Sono i primi della loro classe. […] Sono così orgoglioso dei loro progressi da stentare a credere di esserne stato in qualche parte il fautore. Stando con loro ho imparato qualcosa di fondamentale: un bambino crescendo si rivela sempre all’altezza delle tue aspettative. Se lo consideri un buono a nulla, ti crederà sulla parola e non andrà da nessuna parte. Se invece hai fiducia in lui, non c’è nulla che non possa ottenere. Non ho mai creduto nei miracoli, ma se assistere allo spettacolo di un bambino che impara qualcosa di nuovo non lo è, non so cos’altro possa esserlo.”

Ora Nicolò Govoni, ragazzo del 1993 cui gli insegnati avevano predetto che non avrebbe mai combinato nulla nella vita, è un giovane uomo la cui ultima, ma non unica, impresa è stata costruire, nell’isola di Samos, sostanzialmente dal nulla e con donazioni solo di privati, una scuola per bambini rifugiati sfuggiti alla guerra:

Nicolò Govoni a Mazì

“Oggi, oltre 150 bambini e adolescenti imparano e vivono nello spazio più sicuro, adatto e, lasciatemelo dire, bello dell’isola. Oggi cento minori altamente vulnerabili hanno la scuola che meritano, la scuola che era stata loro negata, la scuola per cui sono sopravvissuti a una guerra e attraversato mari e monti, la scuola che offre loro un’alternativa alla prigione in cui vivono. Questa è Mazì—Insieme.”

Mazì è un progetto che mi sembra molto simile alla scuola di Barbiana di Don Milani: un luogo dove gli adulti educano i piccoli e li accompagnano con amore e comprensione nei percorsi tortuosi cui la vita li costringe affinché possano liberarsi dalle sentenze definitive emesse da mondi violenti ed ingiusti e, come dice Nicolò, possano costruire, per sé e per gli altri, “la migliore versione di se stessi”.

Adolescenti post-Covid: cosa è cambiato?

di Sara Feltrin

Come è cambiata la vita dei nostri ragazzi e dei nostri adolescenti durante il Coronavirus? E soprattutto, cosa è cambiato da quando l’unico via libera, l’unico vis a vis extra-familiare veniva dalla nuova serie TV di Netflix, che, mai forse come in questo momento, ha dato sollievo ai pomeriggi di devastazione e solitudine dei nostri ragazzi?

Cosa è cambiato da parte nostra ma soprattutto da parte loro?

Venice Beach (Los Angeles), murales realizzato da Pony Wave

Dobbiamo innanzitutto partire dalla definizione, per quanto in continua evoluzione, di adolescenza. Con questo termine si indica la fascia d’età compresa tra i 12 e i 19 anni, caratterizzata da notevoli cambiamenti sia sul piano fisico che su quello psichico. In questa fase gli adolescenti si trovano a scegliere tra i modelli vecchi e quelli nuovi, tra imposizioni e ribellioni, tra essere come si vuole o come si è, oppure come si dovrebbe essere. Sono anni in cui la famiglia non è più il primo punto di riferimento: in particolare le relazioni con il gruppo dei pari diventano il laboratorio in cui i ragazzi costruiscono piano piano la loro identità. Possiamo quindi capire quanto siano di fondamentale importanza le relazioni affettive extra-familiari (compagni di scuola, amici, partner ma anche insegnanti ed educatori) per il mantenimento del proprio Sè. 

Abbiamo visto ragazzi che di fronte al lockdown hanno reagito con tristezza e rassegnazione, altri con rassicurazione e conforto perchè, finalmente, la loro scarsa vita sociale trovava un’ottima giustificazione nel non dover uscire. Abbiamo visto ragazzi sereni perchè “vabbè dai, per fortuna a casa sto bene e i miei amici li sento lo stesso con le videochat”. Abbiamo visto ragazzi demotivati e delusi da una società (e forse anche un mondo) improvvisamente bloccati e incerti, in cui loro stessi hanno da sempre proiettato un loro senso d’identità, il loro futuro, la loro storia. 

Abbiamo visto ragazzi che però, nonostante rassegnazione e delusione, nonostante disagi e difficoltà riscontrati in diversi fronti (isolamento, scuola, convivenza forzata, eccetera), nonostante tutto, hanno saputo adattarsi e trovare la loro soluzione personale per fare fronte. E in questi mesi in cui la vita era diventata una scommessa al continuo adattamento, loro, i nostri giovani, hanno vinto la scommessa.

Ebbene sì, forse questa volta dobbiamo imparare da loro, imparare dalla loro creatività e dalla loro adattabilità: i nostri ragazzi hanno saputo escogitare e trovare una libertà alternativa con una tenacia inaspettata. Come in un videogioco, questo è stato un salto evolutivo in cui non vince solo chi è più bravo a smanettare su social e videochat di gruppo, ma chi, nonostante tutto, ha mantenuto con sé speranza in un tempo che ha saputo dare voce all’esperienza e all’agilità tecnologica che solo loro hanno saputo mostrare e dimostrare.

Sì perchè, prima, eravamo noi adulti a dettare regole e limitazioni temporali per non stare troppo davanti a quello schermo. Ora, gli adulti sono loro. Sono loro, ragazzi cresciuti, che ora ci mostrano come entrare sulle piattaforme online, linkare un contenuto e sistemare audio e video senza sembrare totalmente imbranati di fronte a capi o colleghi. Sono loro, adolescenti senza posto, che ora insegnano a noi come creare relazioni online e come linkarci col mondo.

D’altronde, improvvisamente e tutto d’un tratto, si sono trovati senza un banco di scuola, un parco in cui trovarsi, una fermata del bus e per di più, senza amici. Sicuramente la tecnologia corre in soccorso, però che ne è delle relazioni vis a vis? Che ne è degli abbracci confortanti del “ti capisco, anche a casa mia è uguale”? Che ne è dei pianti e delle urla di sfogo che solo gli amici sanno placare? Che ne è degli sguardi e del contatto fisico, tasselli fondamentali di sviluppo e di pubertà?

Sono cresciuti, come quando succede che, improvvisamente, ci troviamo a metterci in discussione e ridare un senso a tutto. Così hanno fatto loro: faccia a faccia con le loro risorse e le loro fragilità ad affrontare un periodo storico che non è, forse, il più difficile a livello mondiale, ma il più difficile della loro vita. 

Hanno dimostrato forse molta più maturità e più responsabilità di quella che ci aspettavamo. E nell’affermazione di una ragazza “Sì ma io mi autoregolo, seguo le lezioni e faccio tutto, con i miei tempi però perchè sennò mi fanno male gli occhi” c’è tutta la sperimentazione e l’esplorazione del proprio funzionamento individuale che questo Covid ha distrutto e, allo stesso tempo, maturato. Non sono bambini che hanno bisogno di mamma e papà , delle loro regole e delle loro ramanzine. Sono adolescenti che stanno cercando il loro posto e la loro identità. Perchè ricordiamo che dietro ogni schermo non c’è solo un alunno poco attento ma un ragazzo che si impegna (studiando ma anche non studiando) e intanto esplora e cresce

Proviamo quindi ad approfondire il motivo di quell’avatar tanto strano con i capelli blu perchè dentro quella pedina di gioco vive un vero e proprio alter-ego: la proiezione di loro stessi in un altro tipo di realtà, ma pur sempre loro stessi

Quindi, quando per l’ennesima volta non portano a termine qualche quotidiana faccenda domestica o quando sembra che non ci ascoltino, aspettiamo prima di rimproverarli e condannarli: perchè probabilmente proprio in quel non fare e in quell’ascolto semi-passivo, si manifesta la loro posizione, la loro libertà di scelta e di espressione che in questo difficile lockdown è stata zittita e messa a dura prova. Questo non significa permettere e giustificare la trasgressione di qualsiasi richiamo educativo, ma aiutarli a comprendere innanzitutto il motivo di tali comportamenti, ascoltandoli con rispetto e attenzione. In questo modo non offriamo loro solo ascolto e comprensione, ma li aiutiamo anche a mentalizzare le loro scelte, diventando maggiormente consapevoli di loro stessi.

Perchè le regole dell’ordine e della buona educazione loro le sanno benissimo, gliele abbiamo ripetute sicuramente un sacco di volte, fino forse, allo sfinimento. Il loro non seguirle molto spesso non è solo una semplice trasgressione normativa, ma una scelta, che, sebbene possa essere più o meno consapevole, è tuttavia necessaria e fondamentale, per dare sfogo a emozioni incomprese, dare un volto alla loro espressione e un senso a loro stessi.

Il ruolo di noi adulti è quindi quello di saperli accogliere, in tutte le loro forme, e aiutarli a gestire al meglio la loro emotività, accompagnandoli a raggiungere il meglio di loro stessi.