Sappiamo tutti che la DAD è stata l’unico modo grazie al quale i nostri ragazzi hanno potuto mantenere un rapporto con la scuola e con il mondo degli apprendimenti. Sappiamo tutti che è stata una risorsa, e siamo altrettanto consapevoli di quali siano stati e siano i suoi limiti, stiamo pian piano capendo quali sono le implicazioni dell’aver fatto così tanto affidamento su di essa. E’ stata una fortuna che ci fosse, ma probabilmente questo è stato anche uno dei fattori che ha reso così facile, immediato e rapido decidere di interrompere la frequenza scolastica in presenza non appena i numeri del contagio salivano. Come se la scuola fosse solo apprendimenti, come se la scuola non fosse primariamente relazione.
Più di ogni altra fascia d’età, in questo tempo di Covid, le ragazze e i ragazzi sono stati deprivati del loro mondo relazionale: via lo sport, via la scuola… Azzerato lo scenario che normalmente è co-protagonista della loro crescita.
Come è cambiato il loro mondo?
Quanto è cambiato?
Hanno la possibilità di riflettere su questi temi? Di provare a dare un senso a tutto questo?
E i loro genitori come stanno?
Come è stato averli sempre a casa, vederli sempre di fronte ai monitor, assistere al loro cambiamento mentre anche la famiglia cambiava le sue routine e il lavoro chiedeva nuovi adattamenti?
Vorremmo provare a rispondere assieme a queste domande e proponiamo due percorsi di confronto di gruppo, uno per adolescenti e uno per genitori, che possano essere di sostegno e stimolo in questo sforzo comune di rielaborazione. La conduzione del gruppo sarà professionale, a garantire la sicurezza emotiva di ciascuno e di tutti, e ogni incontro svilupperà un tema specifico: la scuola, le relazioni amicali e quelle più periferiche, la famiglia e il modo in cui il corpo ha risposto all’isolamento.
Gli incontri per i ragazzi si svolgeranno nei pomeriggi di venerdì dalle 18.00 alle 19.30, quelli per i genitori nelle serate del mercoledì dalle 21.00 alle 22.30.
Diversi anni fa ricordo una famosissima pubblicità di una nota marca di dopobarba che citava: “per l’uomo che non deve chiedere…mai!”, pubblicità che, enfatizzando la prestanza fisica del protagonista, raccontava, senza neanche troppi mezzi termini, quanto fosse importante per un uomo “non chiedere” ed essere sempre pronto a conquistare una donna.
Ricordo anche che non fosse così strano o così inusuale pensarla allo stesso modo: un uomo è una persona che si occupa del lavoro, che preferisce film crudi e violenti, che non si fa spaventare da nulla; un uomo è quello che arriva a casa e si siede davanti ad una cena fumante, che raramente si occupa dei propri figli e, quando lo fa, deve ricevere dettagliate istruzioni o addirittura essere supervisionato; un uomo può riparare la lavatrice, ma non sa come stendere il bucato, può dare una mano in casa, ma poi il suo lavoro lo porta fuori.
Sono passati almeno vent’anni da questo spot, l’ultimo risale al 2005, mentre i primi sono degli anni ’80, e lo slogan nel corso del tempo non è mai cambiato: “per l’uomo che non deve chiedere mai!”.
In questi giorni, invece, in un pullulare di notizie serie di cronaca, politica, economia, arriva lui: un uomo sui 30 anni, tatuato dalla testa ai piedi, vestito con le sue ciabatte di una notissima marca di abbigliamento di lusso, seduto su una poltrona, che piange con in braccio la sua bimba nata da poche ore; lo stesso uomo che, tradito dall’emozione su un palco tanto emotivamente impegnativo come San Remo, ha la voce rotta e si commuove nel corso della sua prima esibizione. E si scatena una bagarre di commenti, di disappunto, di risate per l’uomo Fedez che piange pubblicamente, come se piangere fosse proibito per un maschio, o quantomeno ridicolo.
Ecco: Fedez è un personaggio che può piacere o non piacere, lo si può criticare per la sua vita, per l’ostentazione, per i tatuaggi, per la musica, per le sue scelte. Però un aspetto di lui va indiscutibilmente riconosciuto: sta combattendo, più o meno consapevolmente, contro la cosiddetta “mascolinità tossica”, un concetto nato nelle aule universitarie ma che è entrato nel vocabolario comune per indicare “un insieme di comportamenti e credenze che comprendono il sopprimere le emozioni, mascherare il disagio o la tristezza, il mantenere un’apparenza di stoicismo, e la violenza come indicatore di potere” (basti pensare al “non deve chiedere mai”). Peccato che i primi a farne le spese sono proprio i maschi, dal momento che viene impedito loro di esternare le proprie emozioni e sentimenti, con il rischio di sentirsi continuamente in dovere di essere prestanti, perfetti, inflessibili, inscalfibili.
Rivendicare il diritto di essere deboli, emotivi, umanamente fragili può essere solo panacea per i giovani uomini del domani. E per tenere a mente questo concetto, vi propongo la visione di un video girato pochi anni fa da Gillette: because the boy is watching today will be the man of tomorrow – perché i ragazzi che oggi ci guardano saranno gli uomini di domani.
Il 27 gennaio di ogni anno viene celebrata la Giornata della Memoria, una ricorrenza internazionale che commemora le vittime dell’Olocausto: il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa entrarono nella cittadina polacca di Oświęcim, in tedesco Auschwitz, scoprendo il vicino campo di concentramento. I superstiti vennero liberati e, col tempo, questi iniziarono a raccontare al mondo gli orrori perpetuati al suo interno (e all’interno delle centinaia di campi sparsi per mezza Europa) da parte dei nazifascisti.
Ad essere condannate ad una morte atroce furono migliaia di persone, ma vittime di tale follia non furono solo gli ebrei: anche i Rom, gli zingari, i dissidenti politici, gli emigrati, gli “asociali”, i “delinquenti comuni”, le persone omosessuali. Tutte persone considerate esseri inferiori o non degne di vivere, se non per lavorare all’interno dei campi e per esser usate come cavie dei numerosi esperimenti compiuti dai medici tedeschi. Come ben noto, ognuna di queste categorie aveva un simbolo che ne contraddistingueva il “reato”: la Stella di David per gli ebrei, il triangolo marrone per i prigionieri Rom, viola per i testimoni di Geova, un triangolo nero per gli asociali (al cui interno vi erano vagabondi, etilisti, persone con disabilità e con qualche disturbo mentale, prostitute), rosso per i prigionieri politici, blu per gli emigrati, un triangolo verde per i cosiddetti delinquenti comuni.
Le persone omosessuali, tutti rigorosamente maschi, avevano un triangolo rosa sulla divisa, mentre le donne lesbiche non erano “degne” di essere definite, dunque nemmeno di avere un triangolo tutto loro. Il triangolo rosa, il colore delle ragazzine, veniva usato per ridicolizzare gli uomini omosessuali e la loro mascolinità: erano gli ultimi, emarginati dagli stessi internati. Le lesbiche invece erano invisibili nel mondo e restarono invisibili anche di fronte alle atrocità dei campi: nell’ottica nazista, che credeva fortemente nel ruolo tradizionale delle donne, le lesbiche venivano considerate asociali, quindi risulta traccia solo di 4 donne (su migliaia di persone sterminate) segnalate come lesbiche, sebbene perseguitate e confinate per motivi politici o religiosi.
Ciò che accadeva alle persone omosessuali internate non è difficile immaginarlo: venivano sottoposti a castrazione, stuprati per il divertimento delle guardie SS, costretti a lavori estremamente faticosi, continuamente derisi ed umiliati. Per molti la sola via d’uscita è stata il suicidio, spesso assieme al proprio compagno; per altri, invece, l’inferno non si è fermato con l’uscita dal campo, bensì è rimasto lucido ogni giorno, con la continua sensazione di sentirsi intrappolati. Le sbarre, in questo caso, si sono trasformate da fisiche a mentali dal momento che, ad esempio, in molti paesi europei è stato necessario attendere gli anni ’90 per abolire le leggi che proibivano le relazioni tra persone dello stesso sesso. E tutt’oggi, in molti paesi del mondo, l’omosessualità è condannata e, anche nella moderna Europa, non cessano i rigurgiti omofobici – basti pensare ai recentissimi avvenimenti in Polonia.
Si può usare una parola ben precisa, dunque: Omocausto.
Non è possibile definire l’esatto numero di vittime dell’omocausto, poiché i nazisti sono stati molto accurati nel distruggere migliaia di documenti che avrebbero accertato i loro crimini; alcuni studiosi però attestano il numero a circa 50mila persone, altri addirittura parlano di 200mila vittime.
Questa giornata è ogni anno accompagnata da celebrazioni di vario tipo: mostre, proiezioni, convegni, manifestazioni. Tutti modi per ricordare ciò che è stato, con la speranza e l’obiettivo che certe atrocità non vengano mai più commesse in nessun angolo del mondo. E risulta importante accostare la parola Omocausto ad Olocausto, poiché in questo modo si consente di far luce su un tema complesso e articolato, cercando di far conoscere l’eterogeneità delle testimonianze: uno spunto a non far spegnere il ricordo doloroso e la profonda indignazione e a farci riflettere su come ancora oggi le persone LGBT continuino a subire odio e discriminazioni, spesso in modo più subdolo e strisciante, talvolta in aperta persecuzione, in molti paesi del mondo.
È importante e doveroso partecipare a tali eventi, informarsi su quanto accaduto, ascoltare le testimonianze che gli ultimi superstiti dei campi raccontano, sebbene sia spesso necessario dotarsi di notevole “pelo sullo stomaco”. I suggerimenti possono essere tanti, basta sbirciare nelle bacheche delle associazioni LGBT per trovare eventi interessanti. Suggerisco però la visione di un vecchio film per la serata del 27 gennaio 2021, in cui le immagini crude e violente vengono solo evocate, sebbene lasci l’amaro in bocca sapendo ciò che accadrà di lì a poco: Una giornata particolare, di Ettore Scola, con Sophia Loren e Marcello Mastrioanni come attori protagonisti.
Poche settimane fa su Teen&20 scrivevo un articolo, La guerra dentro, nel quale descrivevo il forte malessere e la profonda sofferenza che caratterizza la gran parte degli adolescenti di oggi, chiusi e bloccati dentro le mura domestiche, come pettirossi in gabba, rossi dalla rabbia.
La guerra, ora, è scoppiata davvero.
Le manifestazioni con cui i giovani hanno provato a farsi sentire e urlare a gran voce nelle piazze o fuori della scuola, vestiti a strati con berretto, guanti e una coperta stesa a terra come clochard lungo la strada, sono state parecchie. Telegiornali e notiziari ne hanno parlato molto, li hanno intervistati, ma nulla è cambiato. I continui DPCM tentennano tra salvare il mondo da una pandemia mondiale e l’Italia da un collasso economico, lasciando aperti fino a sera i centri commerciali per i regali di Natale, ma le scuole perennemente chiuse.
Risale a pochi giorni fa (5 dicembre 2020) la vicenda presso il Pincio di Roma in cui centinaia di giovani, gran parte minorenni, si sono raccolti, un sabato pomeriggio, per assistere ad una rissa tra due ragazze. Una di loro, però, non si è presentata ma ciò nonostante la rissa è esplosa lo stesso, tra gruppi di ragazzini guidati da rabbia e sete di vendetta. La diretta e inevitabile conseguenza è stato quindi un grande affollamento di centinaia di giovani arrabbiati che, senza l’utilizzo di mascherine, si è ribellato nel centro di Roma. Ma i pugni, incitamenti, aggressioni, e violenze scagliate uno contro l’altro, nonostante l’intervento delle Forze dell’Ordine in tenuta anti sommossa, non sono bastati a frenare la rivolta.
E su Tik Tok, Telegram e WhatsApp, circola già il messaggio “Confermata al 100% la rissa il prossimo sabato” ma sta volta i pugni e calci non basteranno e le armi della “rivincita” saranno lame e coltelli.
Ci impressioniamo di tanta violenza, maleducazione, vandalismo e intemperanza. Questo, alla fine, colpisce. L’attenzione è diretta alle conseguenze più che alle cause e si cerca un modo per frenarli e disarmarli con tute antisommossa quando invece dovremmo fermarci ad ascoltarli, con le parole. Perchè mettersi ancora contro di loro non fa altro che aumentare la distanza, e più saranno lontani e più loro urleranno.
I numeri parlano chiaro: dallo scorso anno il numero degli atti vandalici provocato da ragazzi nella fascia adolescenziale è aumentato dal 16% al 22%; le risse ora sono al 24%, l’utilizzo di armi o oggetti pericolosi all’8% e l’aggressività su persone al 35% (Osservatorio Nazionale Adolescenza).
I nostri non sono più ragazzi e adolescenti che si ribellano per trovare dei limiti o dei confini per la definizione di sè; sono ragazzi demotivati, arrabbiati; sono adolescenti stufi di ribellarsi e che quindi, lottano. Lottano (o meglio, lottavano) a scuola dove attenzione e concentrazione sembrano capacità irraggiungibili e una buona comunicazione con insegnanti e compagni una grande utopia. Lottano nelle strade contro una società che li giudica e li considera un peso anziché una ricchezza. Lottano infine nelle piazze, unico luogo in cui ritrovare la voce e le urla dei coetanei arrabbiati e sconfortati come loro per scagliarsi insieme contro un mondo che non dà opportunità e sa di amaro. Ma lottano soprattutto in casa e in camera in particolare, contro se stessi. Mancano obiettivi, tante volte mancano perfino i sogni, mancano figure solide, mancano punti di riferimento verso le quali dirigere la rotta, manca la rotta e manca la motivazione che lascia spazio alla noia. E la noia di un vuoto, soprattutto in un’età in cui istinti e ormoni prendono il sopravvento, porta a frustrazione e percezione di scarsa autoefficacia (non faccio quindi non imparo quindi evito di fare per non fallire). Mettiamoci un futuro senza certezze del domani, una pandemia in corso che limita gli spostamenti bloccando i contatti fondamentali e la ricetta è pronta.
Così, abbandonati alla noia e all’angoscia, l’unica strada rimane quella dell’esplorare l’oltre, una pseudo realtà fatta di adrenalina e autoefficacia che restituisce sensazioni di libertà, coraggio, competenza e vita. Ed ecco che spesso si ricorre all’alcol, alla droga, alla violenza, ai killer selfie, ai knockout, alle challenges virali spesso mortali, sfide ricche di sensazioni fortissime, devianze nate non più per raggiungere dei limiti ma per scavalcarli.
E’ una guerra spietata quella che sentono dentro e ce lo stanno dimostrando in tutti i modi, arrivando a volte persino al suicidio.
Ora tocca a noi ascoltarli, senza giudicarli e senza pretendere da loro chi vorremmo che fossero, ma accettiamoli, comprendiamoli e aiutiamoli con tutti gli sforzi che stanno facendo per crescere in un mondo così astioso come l’attuale. Hanno bisogno di noi, figure di riferimento, autorità competenti e persone da stimare che possono insegnare loro come sconfiggere lo sconforto e la frustrazione, per recuperare i sogni perduti e per poter credere che dopo ci sarà qualcosa di buono per cui valga la pena lottare ma soprattutto, per cui valga la pena vivere.
Mi è capitato, recentemente, di sentire spesso questa domanda attraversarmi la mente. Pensandoci credo che incontrare costantemente persone nuove, approfondire la conoscenza di persone che conosco da tempo, ma soprattutto, vedere crescere figli adolescenti possano forse essere gli inneschi per questo tipo di interrogativo.
Professionalmente incontro le persone e sono profondamente impegnata nel tentativo di comprendere loro ed il mondo che le circonda. Nella mia vita privata frequento amici che posso dire di conoscere da tempo eppure ho sempre la sensazione che qualcosa mi sfugga. Di fronte a mio figlio in rapida e disarmante trasformazione, poi, mi sento talvolta priva di bussola e disorientata. Ed è mio figlio, me lo sono visto crescere giorno per giorno. Ho cercato di stare attenta e di non perdermi nulla della sua evoluzione, eppure…
Eppure mi trovo a dire che forse non lo conosco davvero. E la domanda si ripresenta: cosa significa conoscere una persona? I vari sistemi psicologici hanno dato, nel tempo, vari tipi di risposte a questa domanda, ma nessuna è davvero esauriente. Mi sembra che conoscere una persona non equivalga a conoscerne la storia, misurarne i processi cognitivi, valutarne emozioni e motivazioni, né che sia sufficiente mappare il sistema di relazioni in cui è immersa.
Nel costruttivismo diciamo che per conoscere una persona dobbiamo comprendere che cosa è fondamentalmente impegnata a fare. Credo sia una buona idea ed un ottimo punto di partenza. Se comprendo, infatti, che la mia amica è fondamentalmente impegnata a non essere di peso sulle altre persone, non mi stupirò quando non mi dirà che sta male o se non mi chiederà aiuto quando ne potrebbe avere bisogno. E dovrò stare attenta alle proposte che le farò: c’è il rischio che mi compiaccia per non darmi un dispiacere… Sapere che cosa è fondamentalmente impegnata a fare mi permette di anticipare a grandi linee, ed a volte in modo più raffinato, cosa farà e come si sentirà in una certa situazione. Per farlo dovrò guardare alle varie situazioni dal suo punto di vista, attraverso i suoi occhi: dovrò essere in grado di capire cosa esse significhino per lei. ma per guardare il mondo dal suo punto di vista un po’ la devo già conoscere…
Ecco allora che conoscere una persona mi sembra il frutto di un processo ricorsivo: provo a guardare il mondo dai tuoi occchi, anticipo cosa potresti fare in quella situazione, vedo se lo fai… e se lo fai posso dire di conoscerti, almeno relativamente a quell’aspetto, altrimenti c’è qualcosa che non torna… devo mettere in discussione un pezzo della mia comprensione di te e riprovare.
Il che potrebbe anche funzionare, se l’altro si limitasse ad “essere se stesso” e a “fare se stesso” in maniera coerente e stabile nel tempo. Cosa che precisamente le persone non fanno, per fortuna. Le persone cambiano. A volte i cambiamenti sono minuscoli, altre un po’ più importanti, altre ancora considerevoli. Ed allora scopriamo che non riusciamo più a capire così bene, ad anticipare così efficacemente. Ci sentiamo sorpresi, spiazzati, a volte molto spaventati. Quante volte abbiamo sentito dire, o abbiamo detto: “Ma, non è da lei/lui, non ha mai fatto così, non me lo aspettavo proprio!”
Talvolta siamo così confusi da non riuscire a prendere atto del fatto che, evidentemente, qualcosa non è più come prima e cerchiamo di fare tornare l’altro nell’alveo della nostra passata conoscenza di lui. Per cui, se il nostro adolescente improvvisamente non ci racconta più nulla, niente, non ce la facciamo ad accettarlo… e insistiamo, proviamo in un altro modo, lo facciamo sentire in colpa, lo minacciamo… Siamo così affezionati alla nostra passata comprensione di lui – comprensione che ci dava anche un preciso posto nella sua vita – che non riusciamo a mollarla, perchè mollarla implicherebbe anche lasciare andare una parte di noi, la parte di noi che aveva un certo ruolo con quella persona che era così come era, nella relazione con noi.
Quindi, riassumendo, possiamo dire di conoscere un po’ l’altro quando riusciamo a guardare il mondo dal suo punto di vista e ad anticipare come lui si sentirà ed agirà in una certa situazione, ma, siccome l’altro non è fermo ma in continuo cambiamento, possiamo prevedere che spesso la nostra conoscenza si dimostrerà incompleta o sbagliata. Sembra che siamo arrivati ad una specie di paradosso: conoscere l’altro significa sapere di non conoscerlo davvero.
Ora che lo guardo bene, questo paradosso mi piace tantissimo, perché la consapevolezza che la mia conoscenza dell’altro (o dell’altra) è sempre in procinto di mostrare i suoi limiti non può che tenere sempre aperti la mia curiosità ed il mio interesse nei suoi confronti, mi impegna a mettermi in gioco con lui (o con lei) senza mai dare nulla per scontato, e mi porta ad una continua rimodulazione della nostra relazione: infatti se l’altro cambia, cambia anche la sua relazione con me.
Faticoso? A volte può esserlo molto (cfr. l’adolescente di cui sopra), ma sicuramente entusiasmante. Disorientante, più spesso del gradito, ma vitale e vivo, anche un po’ misterioso, se volete, che, a mio avviso, non guasta.
Ti svegli col suono della radiosveglia che dedica canzoni a coppie dello stesso sesso. Non appena ti siedi per fare colazione, il tuo sguardo cade sulla scatola dei cereali che raffigura i benefici delle vitamine e dei minerali contenuti attraverso una famiglia che corre in un campo di grano: due padri, il loro figlio e un setter irlandese. Accendi la televisione e trovi una trasmissione in cui parlano dei nuovi ritrovati cosmetici per le drag queen.
Esci per andare a lavoro, incroci alcuni vicini che ti salutano: Melissa e Iris e più avanti Giovanni e Michele. Non appena sali sulla metro, guardi la pubblicità che hai intorno per passare il tempo: la più conveniente assicurazione di viaggio per le coppie omosessuali, la pubblicità del reggiseno: “Fatevi avanti, ragazze”.
Alla fermata successiva sale un uomo e qualcosa ti fa sospettare che anche lui sia eterosessuale. Lui incrocia il tuo sguardo e ti fa un sorriso come segno di averti riconosciuto. Tu pensi: “Allora sei anche tu etero, ma forse nessun altro qui lo ha notato”! Ridi tra te e te e ti diverti dell’esclusività del contatto.
Arrivi a lavoro, una tizia dell’amministrazione sta mostrando delle fotografie delle vacanze che ha appena fatto con la sua fidanzata a Lesbo. Non appena ti avvicini al gruppo, ti viene chiesto: “Dove hai trascorso le tue ultime vacanze?”. Tu ammetti che eri a Corfù, una destinazione ben nota per le vacanze eterosessuali, e ti chiedono con chi ci sei stata. Alla fine della giornata, le persone vanno per un drink al gay bar più vicino. Alcuni portano i rispettivi partner. Tu inviteresti il tuo, sapendo che potrebbero esserci in giro dei colleghi? Colleghi di cui non conosci le opinioni sull’eterosessualità. Oppure vai per un paio d’ore e poi vai via? Senza davvero altre valide alternative, decidi di andare dritta a casa. Non appena prendi la decisione, ti arriva un sms del tuo fidanzato che dice di incontrarvi alla fermata della metro sotto casa, visto che anche lui sta rientrando. Tu sorridi e un collega che non conosci bene cattura il tuo sguardo e ti dice: “È un messaggio della tua ragazza? Come si chiama?”. Che fai? Menti o dici di essere troppo impegnata per una relazione? Ti chiedi quale sarebbe la loro risposta se uscissi allo scoperto: accettazione completa; totale mancanza di interesse e cambio di argomento a causa dell’imbarazzo; oppure potrebbero immaginare che adesso hanno la facoltà di farti delle domande personali visto che “alcuni dei loro migliori amici sono eterosessuali” e anche loro sono stati in un bar per etero e non hanno alcun problema, tipo: “Quindi da quando sai di essere etero?” “Che peccato, non avrei mai detto fossi etero” “I tuoi genitori lo sanno?” “Il sesso è meglio?”
Alla fine raggiungi la fermata della metro di fronte casa e, come promesso, il tuo fidanzato è lì che ti aspetta. Senti un senso di sollievo nel vederlo e realizzi quanto sei stanca. Ma lo accogli baciandolo davanti a tutte le persone che ci sono intorno? Non appena ti incammini verso casa e percorri una strada tranquilla, cominciate a prendervi per mano, contenti del contatto. All’improvviso, un gruppo di giovani gira l’angolo e voi li lasciate passare. Avranno visto che vi tenevate per mano? Andranno a dire qualcosa in giro per deridervi? O peggio ancora, potrebbe degenerare in violenza? Subito affrettate il passo, arrivate dietro la porta di casa e ve la chiudete alle spalle insieme a un senso di sicurezza.
Decidete di ordinare una pizza. Il tuo compagno è in cucina quando suona il campanello e non realizza che tu hai già aperto. Ti dice che va lui ad aprire e tu noti che l’uomo della pizza sta cercando di nascondere una risata alla vista del tuo fidanzato che entra nell’ingresso dietro di te.
Vi sedete sul divano e accendete la TV. Niente incontra il vostro gusto:
Rai 1: il film “Quando Giovanni incontra Enrico”.
Rai 2: una rassegna della versione contemporanea di Romeo e Dario.
Rai 3: i video più divertenti sui matrimoni omosessuali.
Canale 5: il Grande Fratello, con la puntata in cui il concorrente etero esce allo scoperto.
Italia 1: il miglior sesso gay.
Decidi allora di sfogliare una copia dell’unico giornale per etero che ti sei ricordata di prendere l’ultima volta che sei stata in centro, visto che non puoi prenderlo nel tuo quartiere. Resti sorpresa dalla notizia di una manifestazione di baci dopo che a una coppia etero era stato chiesto di lasciare la sala d’attesa dell’aeroporto a seguito di una manifestazione pubblica di affetto.
Comunque, resti delusa quando leggi che la legge 29 ancora una volta non è stata votata dal parlamento, nel timore che, qualora le relazioni etero venissero riconosciute almeno nelle scuole, potrebbero portare le giovani adolescenti a voler sperimentare uomini più grandi, o i ragazzi donne più grandi. “Questo paese ha bisogno di mantenere alti i valori omosessuali che lo fortificano”.
Decidi di non leggere più il giornale e prendi il libro che hai appena comprato con tanto entusiasmo perché il protagonista era etero. Alla fine, scopri che il personaggio era una mediocre rappresentazione di tutti i clichès eterosessuali.
La fine di un altro giorno nell’Homoworld.
Homoworld è un testo ideato da Butler nel 2004, è la storia di una persona eterosessuale che vive in un mondo dove la maggioranza della gente è omosessuale.
Tratto da “Educare alla diversità a scuola – scuola secondaria di primo e di secondo grado”, opuscoli tratti dal progetto omonimo, destinato alle scuole di ogni ordine e grado. Commissionati all’Istituto A. T. Beck –Terapia cognitivo-comportamentale di Roma da parte dell’UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali.
Zona rossa, zona gialla o zona arancione. Bar e ristoranti tornano a chiudere le serrande, i negozi hanno le ore contate e le scuole perennemente in ballo tra lezioni in presenza e lezioni online. Non si parla d’altro ormai, il Covid-19 è tornato al centro di ogni comunicazione, protagonista indiscusso delle nostre giornate. Ci troviamo di nuovo costretti a seguire delle direttive che limitano inevitabilmente il ciclo delle nostre giornate, cambiano le abitudini e non siamo più liberi. Oltre agli effetti più strettamente pratici e concreti, la pandemia sta portando ad una serie di conseguenze psichiche importanti e i più recenti studi lo dimostrano: ansia, panico, fobie, depressione e angoscia risalgono come un deja-vu, ma non è un deja-vu. E’ la seconda ondata della pandemia e coinvolge tutto il mondo, grandi e piccini. Ma gli adolescenti? Quella miriade di ragazzi e ragazze che in questo delicatissimo momento storico, stanno costruendo le fondamenta per il loro futuro e le basi della loro personalità. Quella fetta di popolazione che vive nel limbo tra la fanciullezza e l’età adulta, tra l’abbandono di un mondo, quello infantile, non più adatto alle loro esigenze e il lancio verso un mondo ignoto, quello dell’età adulta, in cui vengono proiettati bisogni, aspettative, sogni e desideri. Loro dunque, dove li abbiamo lasciati? Un pò come con i banchi con le rotelle, ci si è concentrati così tanto sulla didattica scolastica, sulle lezioni in presenza oppure online, su una parte del tutto, che si è perso il focus della una visione più generale e delle vere priorità che caratterizzano il mondo adolescenziale, che non è solo la scuola. DAD (Didattica A Distanza) o DDI (Didattica Digitale Integrata), qualsiasi acronimo il Ministero voglia utilizzare, il principio però, non è la didattica fine a se stessa, perchè la scuola non è solo didattica, ma anche rapporti sociali, relazioni, confronti, fuori e dentro la scuola, l’esporsi al mondo con tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti, stili personali, modi di vestire, truccarsi e comunicare, che solo l’esperienza sul campo può offrire. Uscire di casa, andare a scuola, andare a basket o a musica, significa proprio questo: vivere quella linfa vitale e quegli istinti che devono essere vissuti, toccati, conosciuti, per poter costruire la propria identità, creare la propria strada, con la tenacia e l’autoefficacia formatesi durante queste fondamentali esperienze di vita che danno forma e senso alla loro esistenza.
Tutto questo è stato spostato sulla rete ormai da un pò, soprattutto con l’incremento dei social network e di tutte quelle piattaforme che portano alla creazione di un’identità digitale e, con essa, una fitta rete di relazionidigitali che favoriscono costanti confronti e ricerca di conferme. Come si fa quindi, a fare esperienza online, dove ogni situazione e ogni relazione viene creata e gestita ad hoc, su misura di un proprio avatar che difficilmente rispecchia l’identità della vita reale, ma un’identità ideale e immaginaria spesso irrealizzabile nella realtà. Come si fa a fare esperienza dietro uno schermo, dove emozioni e sentimenti vengono digitalizzati o scansionati in jpg o, meglio ancora, in pdf così tutti possono leggerli e nessuno può modificarli. Tanti sono i sentimenti che non riescono ad esprimersi, perchè per poterlo fare hanno bisogno di essere compresi e contenuti con empatia, condivisione, contatto e presenza.
E ora, con la pandemia, dove qualsiasi forma di contatto o presenza è vietata, tutto questo si è amplificato a dismisura, ingigantendo il bisogno di uscire, di vedere gli amici, di mostrarsi al mondo e di essere liberi. Più di tutti quindi, in questa pandemia, ci stanno rimettendo loro, i bambini di ieri e gli adulti di domani, che si trovano bloccati e rassegnati a schiacciare impulsi e desideri sotto un cuscino.
Rassegnazione, frustrazione, delusione e tristezza: queste sono le emozioni che prevalgono; di rabbia ce n’è poca, perchè la rabbia nasce quando c’è un fuoco dentro che brucia, un’energia vitale che arde per un desiderio o un obiettivo che in qualche modo ci viene ostacolato, e ci si arrabbia, sii reagisce, si lotta. Ma oggi, per la gran parte dei nostri adolescenti quel fuoco dentro si è trasformato in una piccola fiaccola alimentata da una lieve speranza che “le cose passino in fretta e che si sistemi tutto al meglio”. E più le delusioni procedono, più quel fuoco rischia di spegnersi, come si spengono impulsi e istinti, essenza vitale del corpo umano (e non solo adolescenziale). E’ facile capire, quindi, come la curiosità, l’intraprendenza e la motivazione inizino a mancare e come dall’essere attivi si passi all’essere passivi verso il mondo, il mondo esterno, ma soprattutto il mondointerno.
D’altronde come fa un ragazzo, oggi come oggi, ad immaginarsi un futuro? o semplicemente a proiettarsi, tra qualche anno, in vesti di chi vorrebbe essere? Il futuro, lo indica il nome stesso, non è mai stato certo per nessuno, però, costruirlo in un presente più o meno chiaro e ricco di opportunità di crescita è ben diverso dal costruirlo in un presente di totale confusione e incertezza: in questo momento è difficilissimo per i nostri giovani definirsi, percepire i loro bisogni e desideri. Se somministrassimo loro un tema di italiano con la classica consegna “descriviti e racconta di te” penso che non potremo proporgli un lavoro più arduo e angosciante.
Occorre quindi aiutarli a trovare la motivazione e la voglia di investire su se stessi, oggi più che mai; aiutarli ad avere massimo contatto con la loro sofferenza, la loro delusione e la rabbia nascosta dietro un profondo senso di frustrazione e rassegnazione. Dobbiamo aiutarli ad esprimersi, ad urlare, a pretendere e lottare per il loro futuro, per un ritorno alla vita reale molto diversa e, per certi aspetti anche spaventosa, della realtà digitale. Compiere questo passaggio, abbandonare il Sè virtuale/ideale e rientrare nelle vesti del complesso Sè reale, non sarà affatto semplice. Come non sarà semplice riprendere contatto con quelle relazioni difficili che il digitale ci consentiva di dimenticare.
Cari adulti, cari mamma e papà: il Covid e le restrizioni che esso porta con sé non devono diventare dei muri insormontabili, ma opportunità di relazione, di stare assieme, con noi stessi e in famiglia. Coltivare tempo e spazio di vitareale anziché connessi ai social o alla rete. Il mondo dei vostri figli è prevalentemente tecnologico oramai e non possiamo eliminare questa componente importante dalla loro vita, essendo quello l’unico contatto col mondo esterno, potete però insegnargli e guidarli ad un utilizzo consapevole e limitato di dispositivi elettronici, smartphone e tablet. Comunicate con la loro lingua tecnologica, partecipate alla loro vita digitale ma insegnategli a utilizzare lo smartphone per chiamare o scrivere agli amici, usare il pc per le videolezioni e lo studio; aiutateli ad allontanarsi dalla costante ossessione dei social network, dalle lunghe attese dei like, dei feedback rinforzanti che non fanno altro che alimentare il loro Sè precario fatto spesso di incertezze e timori. Ascoltate i loro bisogni, le loro necessità, aiutateli a riprendere in mano le loro passioni e i loro interessi perchè le risposte non si trovano dietro uno schermo ma dentro di loro, dentro di voi insieme a loro, nelle scelte che fanno, nella vita che conducono e negli spazi che vivono.
Infine, cari ragazzi, care ragazze: avete tutta la ragione per essere delusi e frustrati dalla realtà che vi si pone davanti, però il futuro siete voi e il futuro, per cambiare, ha bisogno di un fuoco che arde e che lotta per perseguire obiettivi e desideri. E noi, come adulti, vi aiuteremo ad accendere quel fuoco e quell’energia vitale per pianificare gli anni che verranno, senza gli sbagli delle generazioni passate e con la resilienza di chi ha saputo reggere una guerra dentro e la tenacia di chi ha saputo pazientare e vincere.
A costo di ripetere concetti triti e ritriti, vorrei affrontare con voi la questione “voto”. La ragione per cui credo sia importante ribadire alcuni punti è che continuo ad incontrare ragazzi e ragazze ossessionati dai voti, dalle medie e da tutto quello che ruota attorno all’idea di prestazione nel mondo della scuola.
I ragazzi e le ragazze che vedo non sono studenti che arrivano a stento alla sufficienza, sono invece persone che si impegnano molto ed ottengono buoni, o ottimi, risultati di cui, però, non riescono a godere per due motivi: il primo è che, dal loro punto di vista, per quanto un voto sia bello non lo è mai abbastanza; il secondo è che sono comunque talmente terrorizzati dall’idea di prendere un brutto voto, alla prossima interrogazione o verifica, che la soddisfazione e la gratificazione del buon risultato di ora durano, se durano, lo spazio di qualche secondo… e forse è più sollievo – per il brutto voto sventato – che reale appagamento…
Vorrei sottolineare che non si tratta di “capricci” o di isterismi da prime donne, la loro sofferenza è reale ed intensa. E lo è perchè sui voti questi ragazzi e queste ragazze misurano la loro intelligenza ed il loro valore personale. E’ per loro abbastanza scontato pensare che chi prende brutti voti (dal loro punto di vista lo è tutto ciò che è sotto l’8) è uno stupido e che, quindi, se vogliono capire se sono o meno intelligenti, è ai loro voti che devono chiedere il verdetto. Ed è altrettanto scontato per loro pensare che solo chi è intelligente vale, chi non lo è non vale nulla. Credo peraltro che queste credenze siano condivise in gran parte anche dal mondo degli adulti, altrimenti non se ne spiegherebbe la pervasività nei ragazzi.
Mi piacerebbe pensare che sia un’operazione superflua tentare di confutare queste idee, ma l’evidenza indica che non è proprio così, che forse è necessario ribadire e ripetere, affinchè le consapevolezze si possano consolidare.
Cominciamo dalla convinzione che il brutto voto sia frutto di stupidità. Immagino che chi legge abbia chiaro in mente che un brutto voto possa essere il frutto di scarso impegno, comprensione insufficiente, giornata storta (mal di testa, pancia, febbre…), preoccupazione ed ansia. Sì, perchè quando siamo molto preoccupati ed in ansia, la nostra mente è talmente sovraccarica di pensieri legati ai nostri timori, che non ha proprio lo spazio per elaborare efficacemente le consegne di un compito di matematica, o impostare la traduzione di una versione di greco, o costruire la scaletta di un testo di italiano. Ed allora accade che, nonostante un’ottima preparazione, il risultato della prova non sia eccellente. Cioè, può accadere che il timore di prendere un brutto voto generi una situazione di confusione mentale tale da generare proprio le condizioni per una prestazione scadente. Tra ciò che sappiamo e come lo dimostriamo, insomma, ci sono molte variabili, anche, ma non solo, di tipo emotivo.
Tuttavia, forse è venuto il momento di capire cosa sia questa stupidità. Mi si potrà rispondere che essere stupidi è l’opposto di essere intelligenti. Ma, anche accettando questa definizione per negazione, ci rimane da definire cosa sia l’intelligenza. Ed a questo punto avremmo bisogno di interi scaffali di biblioteche di psicologia, perchè è questo un tema su cui fin dagli albori della disciplina si è esercitata la riflessione degli studiosi. Io però non vorrei andare a ripescare la letteratura scientifica. Intanto vorrei cercare di capire cosa intendono i ragazzi, ed i loro genitori, con la parola intelligenza e poi mi riserverei di proporre un diverso punto di vista. Ho l’impressione che i ragazzi – in particolare quelli che temono i brutti voti – spesso pensino all’intelligenza come ad una sorta di app che possono avere o non avere nel loro sistema cognitivo e di cui emerge la presenza o l’assenza nei momenti delle verifiche e delle interrogazioni. Una sorta di dotazione di base che, o ce l’hai o non ce l’hai. Credo anche che spesso ereditino questa concezione dal mondo degli adulti che li circonda, mondo che tende ad enfatizzare, nella prestazione di atleti di eccellenza, ma anche di musicisti, attori, artisti, scienziati… il ruolo del talento a scapito di quelli della passione, dell’impegno, del duro lavoro e della perseveranza di fronte agli insuccessi (che sono i veri determinanti della prestazione eccellente).
Ricapitolando, fino ad ora, fra le nostre cause possibili per un fantomatico brutto voto, non abbiamo ancora rinvenuto la “stupidità”. Forse anche perchè, se ci fermiamo a pensare un attimo, ci rendiamo conto che le verifiche riguardano i contenuti di un insegnamento non le abilità delle persone. Ma procediamo con la nostra riflessione. Ribadisco, fino a qui possiamo dire che fra le cause di un brutto voto non sembra esserci la stupidità.
Ora, se i ragazzi partono dal presupposto che l’intelligenza sia una dotazione innata, è chiaro che vivono le verifiche come il momento in cui verrà sancito se sono stupidi o meno. Questo presupposto, però, non è vero: l’intelligenza non è una caratteristica “genetica” che alla nascita o c’è o non c’è, come gli occhi azzurri.
Dal mio punto di vista l’intelligenza è un qualcosa che ha molto a che fare con la capacità di imparare. Ritengo che questo un punto di vista sia utile almeno per un paio di ragioni. Innanzitutto ci permette di focalizzarci su qualcosa, l’imparare, di cui possiamo fare esperienza diretta ed inoltre, poiché è evidente che tutte le persone possono in generale imparare, ci permette di concepire l’incapacità di imparare, la stupidità, come un’eccezione alla regola, eccezione che deve essere spiegata di volta in volta da ragioni specifiche.
Ad esempio, sappiamo che esistono dei disturbi dell’apprendimento che hanno a che fare con la difficoltà specifica ad apprendere a svolgere alcune attività, come leggere o scrivere, ma non altre. Una persona con dislessia è in grado di imparare tantissime cose, è molto intelligente, ma fa molta fatica ad apprendere i meccanismi della lettura. Oppure sappiamo che gravi condizioni di denutrizione pregiudicano la capacità di imparare, perchè, in questo caso, sono proprio i meccanismi neurobiologici di base ad essere messi in difficoltà dalla mancanza dei nutrienti necessari al corretto funzionamento dei circuiti neuronali. Sappiamo anche che la nostra capacità di apprendere dipende tantissimo dalla nostra attenzione e sappiamo anche che quest’ultima viene molto influenzata dalle nostre emozioni. Per cui, banalmente, di fronte ad un medico che ci comunica una diagnosi, agitati come siamo, non riusciamo ad essere attenti e non memorizziamo bene ciò che ci dice.
Insomma ci siamo capiti: tutti possiamo imparare e, se a volte non ci riesce, la cosa interessante ed utile da fare è capire perchè, non pensare che siamo stupidi (=incapaci di imparare), perchè è evidente che non lo siamo (magari siamo dei maghi di Fortnight, o siamo in grado di suonare la Patetica di Behethoven senza spartito, o ancora ricordiamo perfettamente i compleanni di tutti i nostri amici). Allora, come adulti potremmo provare a trasmettere ai ragazzi la curiosità per i loro processi mentali piuttosto che dei giudizi sulla loro persona, l’entusiasmo per l’apprendere piuttosto che la paura dello sbagliare, e la serenità della consapevolezza che sì, sono in grado di imparare e quindi sì, sono intelligenti.
Un’ultima breve riflessione sul collegamento fra valore personale ed intelligenza.
Potete in parte intuire la mia linea argomentativa, immagino. Se con intelligenza intendiamo la dotazione di base che o c’è o non c’è, legare il valore personale all’intelligenza significa affermare che esistono persone che valgono e persone che non valgono. Legare, dall’altro lato, il valore personale all’intelligenza come capacità di apprendere significa, di fatto, affermare che tutte le persone hanno valore, ma apre alla possibilità che questo valore possa essere situazionalmente diminuito (come negli esempi fatti sopra), temporaneamente diminuito (come nei casi legati a patologie neurologiche reversibili o stati di shock) o definitivamente azzerato (come nei casi di gravi traumi cranici e demenze). Credo che la soluzione possa essere, semplicemente, pensare ed insegnare ai nostri ragazzi che come esseri umani il loro valore è assoluto e non risiede nella loro biologia, nella loro genetica, nella loro fisiologia o nella loro prestazione, ma nel loro essere persone, ai loro stessi occhi ed agli occhi delle altre persone.
Ripartiamo da ciò che abbiamo imparato, dalla nostra vulnerabilità.
Parla chiaro il nuovo DPCM del 24 ottobre 2020 e parla di un pericoloso picco di contagi che potrebbe compromettere ancor di più la salute degli italiani e del popolo mondiale. Così, via libera a restrizioni, coprifuoco e indicazioni strettamente consigliate. Così, il nuovo decreto ci pone davanti a quell’immaginario tanto temuto quanto forse non preso troppo sul serio, che il Virus sarebbe tornato a seminare panico, terrore, paura, sconforto, senso di fallimento collettivo ma soprattutto, quel senso di vulnerabilità a cui a fatica ci eravamo abituati e che presto abbiamo abbandonato.
D’altronde, era inevitabile.
Il Virus che a marzo ci aveva messo alle strette, portando ognuno di noi ad interrogarci sui nostri bisogni e stili di vita per riordinare priorità e trovare un compromesso tra noi e gli altri, è tornato a porci davanti a quello stesso specchio che ora riconosciamo bene ma, come qualche mese fa, facciamo fatica a guardarlo e guardarci dentro.
Così, ricominciamo.
Ricominciamo a fare spazio in casa, ordine nella mente e ridimensionare le nostre abitudini. Ricominciamo a fare i conti con la nostra fragilità e la nostra vulnerabilità di esseri umani, non onnipotenti, che inevitabilmente trascinano con sé l’ansia di un futuro incerto e l’angoscia di un senso di sé costretto e bloccato nella propria autonomia, libertà e indipendenza, tasselli fondamentali per la realizzazione personale.
L’epidemia ci ha bloccati di nuovo, ma questa volta noi abbiamo qualche carta in più: è un panorama che abbiamo già vissuto, dal quale qualcosa abbiamo imparato e dal quale possiamo ripartire. Non affrettandoci a supermercati e farmacie ma prendendo contatto con noi stessi prima di tutto, e con chi ci sta vicino.
La pandemia da Covid-19 ci ha insegnato tante cose:
Ci ha insegnato che la collettività, la collaborazione e il senso di comunità sono fondamentali e che i piccoli gesti possono diventare i grandi cambiamenti.
Ci ha insegnato la possibilità di poter lavorare e studiare da casa, imparando a gestire orari e responsabilità in autonomia e (per chi più, per chi meno) indipendenza, migliorando la flessibilità al cambiamento.
Ci ha insegnato a fermarci: non più succubi delle incombenze a rincorrere affannosamente il tempo ma guidarlo e gestirlo in base ai nostri bisogni.
Ci ha insegnato a stare in famiglia: che non è più una dimensione così scontata ma è parte di noi, del nostro passato, presente e futuro. Riscoprire noi stessi nel nucleo familiare e il rispetto per gli altri, la loro presenza, i compromessi, le attese, l’ascolto, il dialogo, i litigi, le discussioni e il fare la pace.
Ci ha insegnato a fare amicizia con l’incertezza: accettare che non abbiamo sempre tutto sotto controllo e che l’incertezza del quotidiano fa parte della vita, dell’essere umano e come tale, possiamo imparare ad affrontarlo con serenità.
Ci ha insegnato, nonostante tutto, a coltivare le relazioni a distanza perchè gli amici, i colleghi e tutte quelle persone che quotidianamente diamo per scontate, possono mancare come l’acqua e, come l’acqua, ne abbiamo bisogno, perchè ci danno quel senso di appartenenza e comprensione che non sempre possiamo trovare a casa.
Ci ha insegnato, soprattutto, a prenderci cura di noi stessi, a dare spazio a quelle passioni e a quegli interessi che forse avevamo messo da parte perchè già troppo saturi di impegni.
Quindi, caro Virus, sarai anche potente e pericoloso, ma non ci spaventi, perchè possiamo ripartire da quello che ci hai tolto e da quello che ci hai dato, con la consapevolezza acquisita durante questi mesi e la speranza che il futuro che vogliamo ci sta attendendo immune e di certo non smetterà di lottare.
Nel momento in cui cerchiamo di definire l’identità sessuale di una persona dobbiamo fare riferimento ad un costrutto molto complesso, che necessita prendere in considerazione quattro aspetti distinti tra loro ma imprescindibili l’uno dall’altro:
L’identità biologica – ovvero il sesso biologico con cui nasciamo, maschio o femmina, in termini di cromosomi e di anatomia sessuale;
l’identità di genere – ovvero, come ci sentiamo, la percezione di noi come a nostro agio o meno all’interno del nostro corpo. Ha a che fare con il percepirsi uomo o donna;
il ruolo di genere – ovvero tutti quei comportamenti che una persona adotta come manifestazione pubblica della propria identità di genere. Ha a che fare con come ci si percepisce all’interno di una società e come la società ci percepisce;
l’orientamento sessuale – ovvero un “modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso gli uomini, le donne o entrambi i sessi” (APA, 2008) e che ha a che fare con chi è la persona che ci piace e dalla quale siamo attratti fisicamente e mentalmente.
Come dicevamo all’inizio, le quattro componenti dell’identità sessuale sono strettamente legate tra di loro, nel senso che si influenzano a vicenda e i relativi significati, le percezioni che ne abbiamo, contribuiscono a costruire la complessità dell’identità sessuale.
Soffermiamoci oggi sul ruolo di genere.
Il ruolo di genere, dunque, è un insieme di aspettative rispetto ai ruoli che uomini e donne dovrebbero avere, in considerazione del periodo storico, della zona geografica, della cultura in cui sono inseriti. Queste aspettative si traducono, a loro volta, in comportamenti che la persona mette in atto per indicare agli altri la propria identità femminile o maschile:
il modo di parlare e la gestualità (es. uso delle parolacce, accompagnare le parole coi gesti)
gli attributi fisici (es. grandezza del seno, gestione dei peli, colorare i capelli)
la gestione delle emozioni (es. piangere o rimanere impassibili)
la cura di sé (es. curare il proprio corpo o meno)
il modo di vestirsi (dal colore agli accessori)
i tratti di personalità (es. socievolezza e timidezza)
i giochi e gli interessi (es. bambole o macchinine; cura della casa o informatica)
gli sport e il tempo libero (es. danza classica o calcio)
professioni e mestieri (es. camionista o insegnante della scuola dell’infanzia)
desideri e aspettative per il futuro (es. proseguire gli studi e fare carriera o restare ad accudire la casa e la famiglia)
modo di fare riferimento a sé stessi.
Alla nascita ciascuno di noi ha ricevuto un fiocco rosa, se siamo femmine, o un fiocco azzurro se siamo maschi. Questi colori non indicano soltanto il nostro sesso biologico, ma portano con sé tutte quelle aspettative a cui abbiamo appena fatto cenno, e da quel momento in poi tutto ciò che facciamo rientrerà nella dicotomia maschio vs femmina.
Fiocco rosa: “sarà una brava donnina di casa”, “quanti figli vuoi avere?”, “mi raccomando, parla bene e non usare parolacce”, “una brava ragazza sa stare al suo posto!”, “ho regalato alla mia nipotina la cucina di Barbie”, “la danza è una attività per bambine, vedrai che ti farà venire un corpo armonioso e quando diventerai grande i ragazzi ti guarderanno”, “fare la maestra è un lavoro che solo le femmine possono fare”.
Fiocco azzurro: “dai, su, non piangere, sei un maschietto!”, “beh, è un maschio, per Natale gli regalo delle macchinine e dei camion”, “le propongo questi colori maschili: blu, azzurro e navy”, “agli uomini sta bene un po’ di panzetta”, “per l’uomo che non deve chiedere mai!”, “beh, è un maschietto, è normale che non riesca a stare fermo”, “i maschi non ne capiscono nulla di come si trattano i bambini”.
Di per sé gli stereotipi legati al ruolo di genere non sono giusti o sbagliati, proprio perché fanno parte di una cultura, sono legati ad eventi storici ben precisi, sono un modo per regolare la società stessa e per “riconoscere” il ruolo di una persona all’interno di quella società.
La questione però è un’altra: ogni qualvolta una persona non si conforma alle aspettative che la società ha costruito per lui o lei, la società stessa lo considera strano, tende a farlo sentire sbagliato rispetto ad uno stereotipo di riferimento, ad un “modello” a cui è “necessario” fare riferimento. E, possiamo aggiungere, in questo concetto c’è la base attorno a cui si costruisce il bullismo omofobico: “fai danza classica, sei una femminuccia”, “fai calcio, sei lesbica e un maschiaccio”; “quel bambino sta giocando con le bambole, sarà gay da grande”, “a quella bambina piacciono le macchinine, diventerà sicuramente lesbica”; “lei si muove proprio come un maschio”, “lui si atteggia da femmina”; “è lesbica, quindi non può avere dei figli”, “quell’educatore è gay, non voglio che stia vicino ai bambini dell’asilo”; “sei lesbica perché hai quel tono di voce”, “sono sicura che il mio parrucchiere sia gay” e via dicendo, di esempi potremmo essercene migliaia.
Gli stereotipi, nel momento in cui si trasformano in pregiudizi granitici, impediscono alla persona di scegliere, di essere quella che è, e fanno male alle femmine, tanto quanto ai maschi: una società in cui il maschio, per esser considerato tale, deve essere sempre forte, emotivamente e fisicamente, sempre un passo avanti, sempre in grado di gestire la situazione, deve raggiungere sempre i massimi livelli, e dove la femmina deve essere sempre un passo indietro, deve sentirsi chiedere quando vuole dei figli (e non SE), deve mantenere un ruolo dimesso, corre il rischio di impantanarsi in questi modelli e di perdere di vista la sensibilità e la ricchezza che maschi e femmine, indistintamente, possiedono.
“Come si fa a dirlo: non avrei conosciuto mio figlio”
“Occorre piangere e studiare”
“Ha permesso a me, genitore, di conoscere una parte del mondo di cui non conoscevo proprio l’esistenza”
In occasione dell’11 ottobre – Coming Out Day prendiamo in prestito le parole dei genitori che fanno parte dell’Associazione AGEDO (Associazione GEnitori Di Omosessuali – www.agedo.roma.it) per ricordare l’importanza del coming out: un atto di amore nei confronti di sé stessi e delle persone che ci amano.
Ma perché proprio l’11 ottobre?
Il primo Coming Out Day si è tenuto per la prima volta nel 1988 negli USA, su suggerimento di uno psicologo e di un attivista LGBT, con l’obiettivo di aumentare e rafforzare la coscienza e la consapevolezza all’interno della comunità LGBT. La data scelta, l’11 ottobre, ricorda la marcia per i diritti di gay e lesbiche, svoltasi a Washington l’anno precedente.
Quanta intrepida attesa per il rientro a questa “normalità”, a quella quotidianità che ha sempre saputo scandire, con ordinaria costanza, le nostre giornate, i nostri impegni, i nostri appuntamenti di vita. Per quanto l’abbiamo aspettata, questa rassicurante quotidianità, dopo mesi e mesi di un lockdown che ha messo un freno ai quotidiani programmi in agenda, ai progetti futuri e a quelle banali ma fondamentali abitudini che sanno di conforto e ci danno la sensazione di avere il controllo delle cose, avere in mano la nostra vita!
Quella rassicurante quotidianità che per bambini e ragazzi significa alzarsi ogni mattina per andare a scuola, fare una colazione da campioni per tenere a bada stomaco ed energie fino all’ora della ricreazione, prendere il bus e tenere il posto all’amico o percorrere la strada in auto in compagnia delle solite raccomandazioni di mamma o papà; significa anche l’entusiasmo e la voglia di ritrovarsi fuori della scuola con amici e compagni e, perché no, anche meno amici e concorrenti, perché anche loro, in qualche modo, rientrano in quella significativa famiglia, la seconda famiglia, che dà senso di appartenenza ad un gruppo, comprensione e vicinanza; significa anche didattica: interrogazioni e verifiche che hanno sempre portato quel pizzico di sale e angoscia per delle prestazioni che poi finiscono sempre con un voto, un giudizio, un numero, capace di portare l’umore alle stelle o affondare nello sconforto. Rassicurante quotidianità per i nostri giovani significa anche responsabilità scandita a piccole dosi, e l’ottica di un futuro prossimo nel prepararsi vestiti e zaino per la curiosa aspettativa del giorno dopo.
Per i più grandi invece, la rassicurante quotidianità può significare un rientro al lavoro più pacifico e distante dal pensiero dei figli bloccati a casa; può significare più tempo libero per sé: dallo sport allo svago dello shopping, le uscite in famiglia e gli appuntamenti con gli amici; rassicurante quotidianità vuol dire anche riprendere il proprio ruolo professionale, tornare alle proprie competenze lavorative, con stress più o meno annesso, e a quella sensazione di padronanza che fa sentire vivi, attivi e intraprendenti; significa anche stipendio, possibilità economica e progetti, magari lasciati in sospeso.
Dopo lunghi mesi vissuti in balìa di un Virus, direttive e regolamenti ministeriali, ognuno si riprende i propri desideri, obiettivi, oneri e doveri. Ognuno si riappropria, pian piano, della propria libertà e della propria autonomia tornando ad essere protagonista attivo e proattivo verso il futuro. Quel futuro che era stato lasciato momentaneamente da parte perchè “con sto Virus non si può sapere”; quel futuro che era stato frenato improvvisamente perchè l’incertezza era all’ordine del giorno.
E’ da poco iniziata la scuola, siamo a due settimane dalla ripresa e ancora ci sono ragazzi che quest’anno la scuola non l’hanno ancora mai vista e che, dopo un lungo, lunghissimo periodo in cui anche le vacanze estive si sono mescolate alla penombra del lockdown, si sono trovati nuovamente di fronte allo schermo di un pc in attesa della videolezione o della chiamata del compagno di classe che riferisse i compiti assegnati.
Un flashback.
Un déjà-vu.
Ecco che allora espressioni come “Sono stufo. Non ho voglia di alzarmi. Voglio tornare a scuola e basta. Svegliarmi, prendere il bus e rompermi le scatole perchè non ci sono posti” diventano lecite di fronte all’aspettativa dell’entusiasmante rientro a quella rassicurante quotidianità a cui tutti siamo ancorati. Perché sì, nel marasma dell’incertezza, anche quelle piccole, seppur scomode, incertezze diventano abitudini significative e pilastri resistenti a cui appendersi in caso di oblio. Parlo di oblio perché è difficile pensare ad un panorama fiorito, per loro, in questo momento. E’ difficile immaginarlo per noi adulti, figuriamoci per chi, come loro, non riesce nemmeno ad immaginarsi in che direzione sia il futuro, né, tanto meno, che strada intraprendere. Così sogni e desideri, già annebbiati e insicuri in partenza, faticano sempre più a trovare conferma e un collocamento stabile in quel futuro che, chissà. E’ vero che sogni e desideri sono sempre stati, per definizione, concetti astratti in cui credere e sperare. Questa volta però, in questi anni a venire, manca l’ingrediente fondamentale: la motivazione. Si è motivati nel momento in cui si crede profondamente che la scelta fatta sia valida e piacevole e che l’obiettivo porti serenità e soddisfazione, nonostante ostacoli e difficoltà. Si è motivati nel momento i cui si crede nei propri sogni. E quando si crede fermamente nei propri sogni, si possono superare tutte le difficoltà.
Banalmente, è un pò come alzarsi dal letto la mattina per andare a scuola: non importa quali siano le difficoltà, trovare posto o meno nel bus, la voglia di andare a scuola, intraprendere e seguire un obiettivo, rimane ferma.
Non è facile crescere su queste basi poco sicure, crescere e maturare la propria individualità, soprattutto se il massimo dell’espressione, ora, è nascosto dietro mascherine, gel igienizzanti e distanziamento sociale. E’ una battaglia, non tanto contro la società o le Istituzioni, quanto piuttosto contro quel Sé ideale, quel vorrei essere che, già difficile da scovare e scoprire, non è facile inseguire poiché spesso si trova sconfinato in un profilo social, non riuscendo, nella vita reale, a trovare una sana e coesa manifestazione.
Ecco che allora quella rassicurante quotidianità ha profondamente deluso ogni aspettativa: oltre a non aver portato alcuna rassicurazione, ha aggiunto sconforto e disillusione per quel futuro già precario di per sé. Forse, essere troppo ancorati alle abitudini del passato con una legittima, ma disfunzionale, pretesa che l’adesso sia come il prima, ha deviato troppo il panorama che ci avrebbe aspettato.
Forse quindi, non ci sarà una rassicurante ripresa, ma sicuramente ci aspetta una nuova partenza che molto probabilmente non ha nulla a che vedere con le riprese degli anni passati, ma avrà un altro sapore mai provato prima, altre opportunità e altre rassicurazioni su cui potremo ri-adattare i nostri progetti futuri.
Quanto ai nostri ragazzi, in una società che ha perso molte certezze, hanno bisogno di un’àncora che li rassicuri e li aiuti ad intravedere la luce anche nel più tenebroso dei panorami; un’àncora che li protegga dai venti avversi per evitare che perdano di vista la strada, il loro obiettivo, le speranze dei loro sogni. Che ricordi loro chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Così, nel peggiore dei panorami, se anche molte cose intorno si sgretolano e crollano, loro, grazie a noi, figure di riferimento essenziali, sapranno imparare a stare a galla.
Estate, per noi e per i nostri ragazzi, significa vacanze, svago, attività all’aperto. E’ un tempo in cui vorremmo riposare e recuperare energie. Quest’anno la compagnia della pandemia da Coronavirus rende il tutto speciale, diverso e talvolta irreale, ma forse ancor più significativo.
Non è forse ancora un ricordo il tempo del lockdown, in cui eravamo costretti in casa, le nostre attività ridotte, i nostri scambi di persona con gli amici azzerati. Dico che forse non è ancora un ricordo perché l’impressione è che ce ne vogliamo dimenticare, o meglio, vorremo cancellare quei giorni, fare come non ci fossero stati mai.
Molto si è detto e scritto sugli effetti psicologici delle misure di contenimento, ma la mia impressione è che davvero facciamo fatica a realizzare quanto la rottura delle nostre abitudini, la rinuncia alle nostre attività consuete, il ricorso a modalità comunicative mediate dal computer, ma, soprattutto, la scarsità di contatti con le altre persone ci abbiano turbato e scombussolato.
Vorremmo riprendere da dove abbiamo lasciato, ma il nostro umore è cambiato, il nostro assetto mentale mi sembra caratterizzato da maggior inquietudine, nervosismo, fastidio e rabbia.
Ed allora, che fare in questa estate speciale?
Credo potrebbe essere molto utile poterci dare la possibilità di fermarci ed ascoltarci, chiederci come stiamo e provare a dare davvero voce alle nostre sensazioni. Abbiamo molto bisogno di prenderci cura di noi, ma per riuscirci è necessario che facciamo il punto sul nostro stare, ne prendiamo atto e partiamo da lì. E proviamo a non avere fretta, ma a stare fermi, in ascolto, in osservazione per comprendere i nostri bisogni e cercare con pazienza il modo di negoziarne la soddisfazione anche con chi ci circonda. Affinché la cura di noi stessi non diventi un solitario, egoistico e narcisistico viaggio verso l’appagamento autistico.
Grazie al periodo passato chiusi in casa, abbiamo infatti realizzato, ripeto, forse non con la necessaria profondità, quanto abbiamo bisogno di relazioni, di relazioni di ogni tipo, varie e diversificate. Così come vario e diversificato deve essere il nutrimento che attraverso il cibo diamo al nostro organismo, altrettanto deve essere il “nutrimento” che concediamo al nostro essere persone attraverso lo stare in relazione. Abbiamo necessità di confronto con la ricchezza e la sorprendente eterogeneità delle altre menti per rinvigorire la nostra, abbiamo necessità di assumere temporaneamente i punti di vista degli altri per poter superare i limiti e le chiusure del nostro. Nel dialogo con l’altro troviamo lo spazio e la possibilità per definire chi siamo, e chi non siamo, e per ricevere riconoscimento, per avere la percezione del nostro esistere ed essere visti, considerati, amati.
Per queste ragioni credo che “estate”, quest’anno, debba significare soprattutto “relazione“. Vorrei che tutti ci dessimo la possibilità di farci ricaricare dalle nostre relazioni. Certo, sarà bello andare al mare, in montagna, visitare la nostra splendida Italia nei suoi borghi e nelle sue città, ma sarà terapeutico concederci di incontrare l’altro, sentirne la presenza, condividere il suo mondo. Lo sarà per adulti, bambini, ragazzi ed anziani, per tutti proprio.
«Era l’estate del 2014 quando ho letto un’inchiesta sulla Arthur G. Dozier School. Era una storia della quale si era scritto molto, soprattutto sui quotidiani della Florida settentrionale, ma questa era la prima volta che ne sentivo parlare. Stavano riaprendo le tombe senza nome per cercare di capire chi vi fosse sepolto. Leggendo le storie dei sopravvissuti, soprattutto bianchi anche se la maggior parte degli studenti in quella scuola era afroamericana, mi sono chiesto che tipo di storia avrei potuto ricavare dalla parte nera del college. Ho scelto di fare iniziare il libro nel 1963 perché era il culmine delle leggi Jim Crow e della segregazione e discriminazione nel Sud, ma era anche il momento in cui i movimenti per i diritti civili stavano acquistando forza», racconta lo scrittore Colson Whitehead ad Alessandra Tedesco che lo intervista per il Sole24ore.
La Arthur G. Dozier School (vedi ad esempio qui) era una “scuola di correzione” alla quale venivano mandati i ragazzi, bianchi o neri, che avevano guai con la legge o con i servizi sociali. Ed è a questa sorta di inferno in terra che Whitehead si ispira per trarne una storia intensa e straziante, che scrive con una maestria che gli vale il suo secondo Pulitzer per la fiction e che ammalia noi lettori che, una volta aperto il libro, non riusciamo a chiuderlo più, fino alla sua fine.
La narrazione si concentra attorno alle figure di due ragazzi: Elwood Curtis, ragazzo nero che aspira a frequentare il college grazie alle sue capacità ed alla sua determinazione, e Turner, già ospite della Nickel (questo è il nome dell’istituto di correzione del romanzo) quando Elwood vi viene mandato. Sì, perché Elwood ha la sfortuna di accettare un passaggio in un’auto rubata che verrà fermata dalla polizia e quindi, pur essendo assolutamente estraneo al furto, verrà considerato complice del ladro.
Elwood affronta quell’inferno di crudeltà e violenza con la dirittura etica e morale che gli è propria e che in lui trova forza e legittimazione grazie allo studio dei discorsi di Martin Luther King, discorsi che Elwood ascoltava grazie al giradischi della nonna: “Non possedevano un televisore, ma i discorsi del Dottor King erano una cronaca così vivida – contenente tutto ciò che i neri erano stati e sarebbero diventati – che quel disco era quasi interessante quanto la TV. forse addirittura migliore, più maestoso, come l’imponente schermo del Davis Drive-In, dove Elwood era stato due volte. Gli mostrava tutto: gli africani perseguitati dal peccato bianco della schiavitù, i neri umiliati e tenuti sottomessi con la segregazione, e quella luminosa immagine del futuro quando tutti i luoghi chiusi alla sua razza sarebbero stati aperti.”
“Elwood si atteneva ad un codice, e il Dottor King dava a quel codice forma, espressione e significato.”
“Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.”
Martin Luther King
La Nickel cerca in tutti i modi di piegare Elwood, di azzerare la sua speranza, la sua fede nel bene, ma non ci riesce. Eppure non ci può essere lieto fine in quel mondo. L’epilogo però è narrativamente magistrale e non si può proprio parlarne per non rovinarlo: deve essere letto, parola dopo parola.
Dopo L’età dei sogni, Come Teen&20 proponiamo I ragazzi della Nickel come lettura per ragazzi ed adulti non solo perché tratta di un tema a noi caro, quello delle discriminazioni razziali, e non solo perché si tratta di un libro meraviglioso dal punto di vista letterario, ma anche perché è una storia che parla di relazioni e con chiarezza indica la differenza fra le relazioni di oppressione, caratterizzate dall’uso del potere, della violenza e della paura e le relazioni vere, quelle dove le persone si guardano negli occhi e si riconoscono, si rispettano, si stimano e sono disposte a rischiare l’una per l’altra e per il valore che ha per loro la loro stessa relazione.
Ma è anche un libro che parla di come si possa resistere all’esercizio del potere e di come non ci siano scusanti alla responsabilità individuale, anche all’interno di sistemi ed organizzazioni violenti ed opprimenti.
Naturalmente Whitehead, nero americano, ha in mente la società statunitense quando scrive, ad Alessandra Tedesco dichiara infatti: “L’America è estremamente razzista. Chi non ha votato Obama alle ultime elezioni è stato contento di aver portato un razzista, misogino e demagogo alla Casa Bianca e tutta questa gente odiosa stava solo aspettando qualcuno che desse loro il permesso di agire. Ora i crimini di odio, i crimini razzisti e gli episodi di antisemitismo sono cresciuti rispetto a prima. Trump ha permesso alla gente di tirare fuori il peggio di sé, allo stesso modo in cui lui ha concesso a sé stesso di esprimere il peggio di sé”.
L’episodio recente di Beatrice Ion, di cui anche noi abbiamo parlato in un recente articolo, così come infiniti altri che accadono ogni giorno nel nostro paese, ci dice che non possiamo dichiararci esenti e che non dobbiamo mai smettere di tenere aperto questo file, per noi e per i nostri ragazzi.
Tiziano è un ragazzo di Latina, vive la sua adolescenza a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Ha una vita normale: famiglia semplice – mamma casalinga, papà geometra, un fratello più piccolo – e una tastiera Bontempi regalatagli per Natale. Deve fare i conti con la bulimia, tanto da arrivare a pesare 111 kg, e con i compagni che lo prendono in giro per questo. Ne esce grazie alla musica e imparando a suonare pianoforte, chitarra classica, batteria, intanto studia canto e canta in un coro gospel.
Michael nasce nel 1983 a Beirut, in Libano, e ad un anno di vita si trasferisce a Parigi a causa della guerra civile per approdare, infine, a Londra più o meno quando ha 9 anni. Col tempo impara a parlare inglese, francese, italiano, poi cinese, spagnolo e arabo, È figlio di una famiglia agiata, frequenta i migliori college, si destreggia tra la musica – compone canzoni sin da piccolo, spaziando dall’opera alla musica leggera – e la dislessia, che lo fa penare a scuola.
Storie banali, sembrerebbe, con in comune la passione per la musica che li solleva da ciò che li rende “diversi” agli occhi degli altri, ovvero la bulimia e la dislessia.
Eppure hanno ancora qualcosa che li lega: oggi sono due superstar internazionali della musica pop, Tiziano Ferro e Michael Holbrook Penniman Jr., in arte Mika.
Poi c’è Ellen, canadese, figlia di un graphic designer e di una insegnante. Deve frequentare tre scuole diverse prima di diplomarsi nel 2005. È vegana, atea e si definisce una femminista. Comincia a recitare in piccoli ruoli a 11 anni, si fa prendere tantissimo da questa passione, fino a farne un lavoro vero e proprio. Diventa una star internazionale con X-Men e con Juno, per poi impegnarsi anche come attivista: parliamo dell’attrice Ellen Page.
In comune con Tiziano e Michael ha l’orientamento sessuale: sono tutti e tre omosessuali. E sono famosissimi tra gli adolescenti di tutto il mondo.
Che importanza ha, per un ragazzino o una ragazzina della periferia d’Italia, sapere che queste superstar, lontane anni luce da lui/lei, sono omosessuali? La risposta è fin troppo semplice, quasi banale: sono personaggi famosi e visibili e fanno sentire quel ragazzino e quella ragazzina meno soli.
Il vissuto di un adolescente che sta scoprendo la propria omosessualità, spesso, è quello di sentirsi l’unico al mondo: “in una fase in cui gli adolescenti imparano a socializzare, gli adolescenti omosessuali e bisessuali imparano a nascondersi” (Herek, 2016).
Questa solitudine l’abbiamo letta nella testimonianza di Diego: “Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me”. Lo abbiamo sentito da Giacomo: “al mondo, ne ero certo, omosessuali eravamo solo io e Renato Zero! Immaginatevi lo stupore quando quest’ultimo negò di esserlo: rimanevo solo io…”. E proprio alle parole di Giacomo ci affidiamo per comprendere lo stato d’animo che un adolescente si porta dietro: non importa se si è adolescenti nel 2020 o nel 1980, non importa se si vive a Londra, a Latina o a Spilimbergo: se “uno famoso” nega la propria omosessualità la solitudine che quella ragazzina o quel ragazzino provano è dirompente e disarmante. Giacomo lo definisce “il terrore”.
Conosciamo ormai le conseguenze a cui questa solitudine può portare, ma forse è il caso di soffermarsi sui benefici della visibilità di persone famose come Mika, Tiziano Ferro ed Ellen Page, ma anche di persone comuni come Diego e Giacomo.
Il coming out di un personaggio famoso contribuisce a normalizzare il costrutto di omosessualità nella rappresentazione della società. Non bastano le storie di fantasia lette nei romanzi o viste nei film; gli adolescenti hannobisogno di persone vere, vogliono specchiarsi nei loro volti e riconoscersi nelle loro storie, hanno bisogno di raccontarsi che le persone con orientamento omosessuale esistono e vivono nel loro stesso mondo. Tanto meglio se poi, a raccontare la propria storia di coming out, ci sono anche le persone che li circondano: Giacomo che fa il grafico, Diego che lavora come operaio, l’insegnante di inglese, l’allenatore di rugby, la propria pediatra, l’elettricista che ha aggiustato il frigo, l’imprenditrice per la quale lavora il papà, la parrucchiera dietro casa, il libraio, il programmatore che ha sistemato il pc, la direttrice della banda della scuola, Il campione dell’Eredità, il commesso del negozio di scarpe, l’avvocata che sta parlando in TV, e via dicendo.
Il concetto di visibilità, dunque, diventa un concetto molto importante, poiché è il risultato del processo di accettazione di sé (coming out) che permette ad una persona omosessuale (o bisessuale) di vivere la propria identità alla luce del sole. Ha a che fare con il sentirsi liberi di dire cose che, in altro modo, sarebbero difficili da dire, per esempio di essere andati al cinema con il proprio fidanzato, o raccontare di aver fatto delle splendide vacanze a Parigi con la propria compagna. E ha anche a che fare con la possibilità di denunciare episodi spiacevoli: ad esempio di venire costantemente prese in giro a scuola per essersi prese per mano in classe, o di essere stati aggrediti per aver partecipato ad un Pride ed avere un arcobaleno disegnato sulla maglietta.
Quindi, cosa possiamo fare? Possiamo raccontare le storie di coming out ai ragazzi. Facciamogli conoscere i tanti Ellen, Diego e Michael in tutti i campi, non solo in quello della musica o dello spettacolo. Tante persone, donne e uomini, che vivono una vita “banale” (con le dovute virgolette, nell’accezione di “quotidiana, comune”) e che sono più vicine di ciò che si pensa.
Raccontiamo agli adolescenti di storie belle e brutte, di coming out lisci come l’olio e di rivelazioni che hanno sfasciato intere famiglie; di vite vissute alla luce del sole e di altre che hanno dovuto affrontare continui pregiudizi e discriminazioni sul lavoro e nel privato, di storie a lieto fine e di altre conclusesi tristemente. Raccontiamogli del suicidio del “ragazzo coi pantaloni rosa”, che è arrivato a tanto perché non ne poteva più di essere offeso e deriso a scuola; diciamo loro che ci sono educatori che, poiché dichiaratamente omosessuali, hanno dovuto abbandonare il loro lavoro pur avendo studiato anni per svolgerlo perché alcuni genitori non li volevano accanto ai propri figli; ma raccontiamo loro anche di coloro che si sono presi carico della storia propria ed altrui e sono diventati attivisti, impegnandosi ogni giorno nelle battaglie per i diritti, e poi parliamo loro di quel dirigente scolastico che non ha cancellato la scritta “preside gay” sui muri della scuola dove lavora, perché per lui essere gay non è un’offesa e perché voleva lasciare un insegnamento ai suoi studenti.
Passiamo loro il messaggio che l’orientamento sessuale è una caratteristica dell’individuo, come il colore marrone degli occhi, il saper risolvere i problemi matematici, il fatto di odiare i peperoni, la passione per la Nutella invece che per la marmellata, o la predilezione per stendere i calzini accoppiati per colore invece che sparpagliati sullo stendino.
Esilaranti quanto insoliti video alla Tik Tok style, stories geolocalizzate dell’ultimo secondo postate su Instagram, post curiosi e sfoghi anonimi su Facebook e stati che, come su Whatsapp, per essere degni di nota devono rispondere al colpo di scena. Su YouTube la gara di visualizzazioni e seguaci per i corsi di fitness, yoga e pilates e, a seguire, i tutorial dell’handmade che invogliano e incentivano anche i più pigri demotivati.
Il XXI secolo si preannuncia così: all’insegna di cellulari e tablet diventati ormai vere e proprie estensioni di anima e corpo (chi esce più di casa senza cellulare, ormai?). E, come se non bastasse, è arrivata anche una pandemia mondiale ad accentuare ancor di più quella che si sta delineando come l’inizio di una realtà virtuale, aumentata.
Così, milioni e milioni di persone hanno dato il via, chi prima chi dopo, alle videochiamate, alla spesa online, alla ginnastica su YouTube e agli happy hour digitali. Tanto che persino il più cinico delle nuove tecnologie si è dovuto adattare all’utilizzo di questi marchingegni tanto spaventosi quanto efficienti.
Volenti o nolenti, Internet e i nuovi dispositivi elettronici ci stanno inevitabilmente portando verso una nuova forma di realtà.
Come ci comportiamo noi adulti rispetto a questo? E, soprattutto, come si comportano i giovani e nostri adolescenti di fronte a questo tipo di realtà? Cosa pensiamo di conoscere riguardo a loro? Siamo sicuri che il nostro punto di vista sia condiviso con il loro?
Stiamo parlando di una realtà cresciuta pian piano assieme alle nuove generazioni, le quali hanno potuto masticare e conoscere con maggiore caparbietà il meccanismo elettronico e digitale. Ce l’hanno, come dire, nel sangue. Rispetto ad un adulto degli anni ’60 che si sente in qualche modo costretto a mettere da parte scaffali di quaderni ed enciclopedie, per i nostri teen ager la tecnologia digitale è pane quotidiano e l’era virtuale la realtà più spontanea e affabile, più facile, immediata e accomodante per i loro bisogni e per le loro necessità. Parliamo di necessità, non di passatempo. Ma quali sono queste necessità che vengono quasi magicamente esaudite e soddisfatte in rete?
Se fino a 20 anni fa la cerchia di amici (rigorosamente di paese, ovviamente) la si trovava in piazza, ora si affaccia allo schermo di un cellulare dall’altra parte della città; se i giri in bicicletta o sullo skate aiutavano a raggiungere case di amici e luoghi di ritrovo, qualche piroetta freestyle per lanciare la sfida dell’ultimo minuto, ora è sufficiente starsene sdraiati sul letto della propria camera per raggiungere qualunque parte del mondo; le sfide sono diventate challenges fatali in cui, per fermarsi (e affermarsi), un ginocchio sbucciato non basta più. Allora nascono quegli strani video di Tik Tok, ripetuti e ripresi fino allo sfinimento, o quella sfilza di stories pubblicate su Instagram nate per essere visti, spiati, guardati o semplicemente, per essere nel social. Che spesso però, nulla ha a che vedere con l’essere social, ovvero quell’essere sociale con cui Aristotele definiva l’uomo. Tuttavia, sia nel ‘300 a.C. che nel 2000 d.C., l’esigenza è la stessa: essere inclusi in una comunità e considerati una comunità. Ecco che ore e ore a lavorare online per la creazione del proprio avatar o per la pubblicazione del proprio profilo social nella piattaforma più popolare danno spazio a piccole evoluzioni diventate fondamentali quanto necessarie per il raggiungimento di quell’obiettivo tanto difficile da raggiungere: la costruzione della propria identità. Così, l’avatar di gioco, armato e attrezzato con bombe e fucili per le battaglie online, ha sostituito lo scontro dei mitici soldatini verdi e delle battaglie con i Lego. Che siano “fisici” oppure online si tratta comunque di giochi di ruolo che permettono al giocatore ad interagire col mondo esterno attraverso la creazione di situazioni immaginarie, di scoprire e apprendere senza essere bloccati da paure, timori o preoccupazioni. Liberi di decidere e agire, acquisiscono competenze in una situazione, immaginaria appunto, che tutela e protegge.
Oltre tutto gioco è espressione: di vissuti, stati d’animo ed emozioni spesso non facili da gestire come la rabbia, che nei luoghi “virtuali” è di certo più consentita e a volte, giustificata.
Gli anni sono passati, il sistema educativo è cambiato e i “giovani d’oggi” non sono più figli ribelli di un’infanzia costretta, ma adolescenti a volte fin troppo consapevoli di affettività, relazioni e di ciò che è stato fatto per loro; fin troppo in relazione con i genitori che, inevitabilmente, hanno sviluppato un sistema familiare relazionale più empatico ed affettivo. La realtà virtuale consente di socializzare ed esprimersi senza troppa paura dei pregiudizi, rendere alcuni vissuti più tollerabili perché condivisi o agiti insieme. La rete quindi non rappresenta sempre una perdita di tempo o una minaccia per cui preoccuparsi (troppo). La rete può diventare un antidolorifico ai vissuti di tristezza e solitudine, un’attenuante alla rabbia, all’ansia e alla paura del futuro, una stanza in cui tutto diventa possibile e i sogni, le fantasie e l’immaginazione prendono forma e si fanno spazio, libere di esistere.
In questo modo la rete può diventare un’amica confidante, una difesa protettiva ad una realtà fuori che spaventa e chiede sempre di più. Per questo è importante rispettare gli “spazi virtuali” dei nostri giovani esploratori: non demolirli ma piuttosto, visitarli e consultarli assieme per condividere e comprendere non solo le loro esigenze ma anche i loro stati d’animo. Cercare di capire a quale bisogno corrisponde l’uso o l’abuso di internet (soprattutto un utilizzo disfunzionale) quali le preoccupazioni o la rabbia che si celano dietro la creazione di un avatar che non rispecchia per niente l’aspetto dello stesso giocatore, quali insicurezze si nascondono in un profilo di Instagram un po’ troppo provocante.
Cosa vogliono trovare nella rete e da cosa vogliono scappare?
La crescita impone inevitabilmente dei salti evolutivi e dei cambiamenti sul piano corporeo, cognitivo ed emotivo che non sempre si riflettono in modo omogeneo e uniforme su tutti e tre i piani. A volte capita che non si sia psicologicamente pronti per un aumento di taglia al seno, per il cambio improvviso della voce o per i richiami ormonali dei primi amori, che rischiano di spezzare l’equilibrio tra il “chi sono” e il “chi voglio diventare” con un prematuro e angosciante “chi dovrò diventare”. E questo non è facile da capire (per i nostri ragazzi) e non è facile da captare (per i genitori).
E’ qui che si innesca il lungo processo di conoscenza profonda dei nostri giovani esploratori e non possiamo pretendere, né tanto meno provare, ad arrestare il futuro. Ciò che è importante capire è che la rete non è essa stessa la causa della dipendenza da internet o del ritiro sociale, come tanti possono ritenere, ma un estremo tentativo di restare lì, in quella realtà, scappando da qualcosa che in questa realtà, angoscia, terrorizza o semplicemente, non piace.
Tanto quanto qualunque altra situazione complessa, anche nella rete ci sono sicuramente dei grossi rischi che devono essere spiegati e compresi consapevolmente insieme. Se sapremo apprezzare e rispettare le loro esigenze, potremo aiutarli ad intraprendere al meglio il loro percorso di crescita.
di Francesca Del Rizzo in collaborazione con “Due lettrici quasi perfette”
L’omicidio di George Floyd e il movimento Black Lives Matter ci stanno facendo riflettere – perché davvero non è mai abbastanza – sulla persistenza di pensieri, atteggiamenti, comportamenti, delitti razzisti anche in questo XXI secolo di ipermodernità.
In molte occasioni su questo sito abbiamo avuto modo di illustrare atteggiamenti discriminatori nei confronti, in particolare, delle persone con orientamento non-eterosessuale. Ora è venuto il momento di rivolgere il nostro sguardo al problema della discriminazione razziale, almeno cominciamo e almeno ci proviamo. E proviamo a farlo grazie alla collaborazione di Lea e Stefi, le nostre due amiche autrici del blog “Due lettrici quasi perfette”.
Instancabili lettrici e persone attente e competenti, raccolgono nel loro blog una quantità importante di recensioni fra cui abbiamo trovato particolarmente interessante in questo momento quella che riguarda il libro L’età dei sogni di Annelise Heurtier, un libro adatto anche per adolescenti che anche di adolescenti racconta.
Esso si ispira infatti a ciò che è accaduto nel 1957 ai “nove di Little Rock”, i nove ragazzi neri che per primi furono ammessi al liceo pubblico – bianco – di Little Rock in virtù dei loro meriti scolastici. Per far rispettare il loro diritto ad entrare a scuola il presidente Eisenhower dovette inviare l’esercito, ma, nonostante questa protezione, i ragazzi e le loro famiglie continuarono ad essere oggetto di aggressioni e discriminazioni. Trovate qui un articolo che racconta questa storia e che può essere fonte di ulteriori informazioni, oltre che di documentazione fotografica.
Questa è la trama del libro: Settembre 1957, Grace e Molly hanno 15 anni e sono alla vigilia di un anno scolastico importante. La prima è la reginetta della scuola, con una famiglia benestante alle spalle e gli amici che l’adorano; la seconda è tra i nove studenti neri ammessi per la prima volta nella storia degli Stati Uniti a frequentare un liceo di bianchi. Entrambe hanno qualcosa da imparare l’una dall’altra: Grace dovrà superare le barriere del conformismo e cominciare a pensare con la propria testa, Molly dovrà accettare la mano tesa da parte di chi pensava provasse solo odio nei suoi confronti.
La figura di Molly è proprio ispirata a quella di Melba Pattillo, una delle ragazze nere dei nove di Little Rock. Lea ci racconta che Molly “si trova ad accettare quell’anno in un liceo di bianchi senza stare troppo a rifletterci, ma quella decisione stravolgerà per sempre la sua vita. Pagherà il prezzo che viene richiesto a tutti quelli che hanno il coraggio di aprire la pista e spianare la strada agli altri. E’ un cammino di solitudine, senza vera riconoscenza da parte di nessuno. Alla fine è così che funziona: c’è chi sacrifica e quello che ne riceve in cambio, nel caso più fortunato, è l’ indifferenza.”
La figura di Grace rappresenta invece l’opposto di Molly: è la classica “reginetta della scuola. A lei interessano i vestiti e i ragazzi (uno in particolare) e per nulla le questioni inerenti la razza”. Succede però che “Assistere a tutte le umiliazioni a cui è soggetta giornalmente Mary, porta Grace a farsi delle domande, a chiedersi perché le cose debbano andare in quel modo. All’inizio è solo un interrogarsi, un fastidio indistinto che a poco a poco la porta ad una presa di posizione. Le conseguenze non tarderanno ad arrivare. Il libro non ci risparmia la sofferenza che nasce dall’assistere a queste gravi ingiustizie e infligge al lettore una grande, grandissima amarezza, appena mitigata dalla speranza. L’autrice è riuscita a scrivere un romanzo potente, senza sbavature, mai moralista o didascalico.”
Immergersi nella Storia, anche recente, attraverso le storie delle persone che l’hanno fatta o attraversata – anche quando sono figure solo ispirate ai protagonisti reali – ci permette di partecipare a ciò che è stato, di sentirne il peso, perché ci identifichiamo con quelle persone, arriviamo a viverne le emozioni, le fatiche, le paure e le speranze. Facciamo esperienza con loro, ed i grandi Eventi non sono più solo una pagina di Wikipedia o “qualcosa di cui ho sentito parlare”, ma possono diventare parte di noi, parte del nostro patrimonio di vita.
Possiamo così conoscere e sentire vicino e prossimo, ciò che sembra lontano e distante. La discriminazione, in tutte le sue forme, è frutto di mancanza di conoscenza che genera paura che genera distanza che genera mancanza di conoscenza in un circolo vizioso e perverso.
Noi di Teen&20 ringraziamo Lea per questa recensione che ci introduce ad uno strumento utile a ricucire la distanza ed invitiamo tutti coloro che ci leggono a fare propria anche la storia di Molly e Grace. A conoscere, non temere, avvicinare.
Questo articolo fa parte di un dittico che ho pensato di dedicare alla rabbia ed alla sua espressione: esso ne costituisce la seconda parte, dedicata all’espressione dell’emozione, ed è idealmente completato dall’articolo “Arrabbiarsi” che trovate qui. Non distinguerò in questa occasione fra la rabbia dell’adulto e quella dell’adolescente, a questa distinzione, infatti dedicherò un ulteriore dittico, che Teen&20 pubblicherà in futuro.
Quando ti arrabbi, ritorna a te stesso e prenditi molta cura della tua rabbia. Quando qualcuno ti fa soffrire, ritorna a te stesso e prenditi cura del tuo dolore, della tua collera.
Thich Nhat Nanh
Nell’articolo “Arrabbiarsi” ho sostenuto come la rabbia sia una emozione sempre legittima, un’emozione che ci segnala che qualcosa di profondamente nostro, qualcosa che fa parte della nostra identità, è stato toccato, violato, negato. Ho cercato quindi di invitare ad un atteggiamento non giudicante, ma di ascolto nei suoi e nei nostri confronti, affinché essa diventi fonte di informazione su di noi e sugli altri e spinta all’azione efficace ed utile. Ho sostenuto inoltre che se la rabbia è sempre legittima, certo non lo sono tutte le sue espressioni. La rabbia, infatti, può essere espressa in molti modi diversi.
C’è la scenata del bambino cui è negato un gioco: una protesta verbale e fisica che lo coinvolge tutto e che può travolgere anche il suo ambiente. C’è l’aggressività di un uomo geloso che sospetta continuamente che la compagna lo tradisca ed usa la forza fisica per farle paura e dominarla. C’è la vendetta per un tradimento subito consumata freddamente nel tempo, come viene raccontato nel film She Devil. C’è la freddezza, l’acrimonia dei gesti di due fratelli così diversi da non riuscire a comprendersi ma solo a disprezzarsi. C’è la calma ed indefettibile determinazione che ha spinto Gandhi a lottare pacificamente contro il dominio degli Inglesi, o Mandela a combattere e testimoniare con la sua intera esistenza contro il regime dell’Apartheid.
Cos’è che fa sì che le persone possano scegliere modi tanto diversi di esprimere la propria rabbia?
Prendiamo in esame la storia di ognuno di noi: fin da piccoli, ed al di là di ogni nostro consapevole sforzo, siamo attentissimi a cogliere le emozioni che muovono le nostre figure di riferimento, vediamo “come fanno” quando sono tristi, arrabbiate, felici e poi proviamo anche noi a fare la stessa cosa. Questi nostri tentativi innescano nell’ambiente che ci circonda ulteriori eventi: veniamo visti, consolati, accolti, sgridati, puniti, ignorati, ridicolizzati, squalificati? Se spieghiamo cosa sentiamo, veniamo ascoltati o ciò che diciamo viene minimizzato e banalizzato? Se diamo in escandescenze, otteniamo una risposta ferma, oppure uno sguardo di paura, un atteggiamento remissivo, altrettanta aggressività?
Nella nostra danza interattiva con gli altri ogni episodio “lascia il segno”, costituisce un precedente cui potranno seguire repliche ulteriori che ci confermeranno, o meno, che sì, quando mi arrabbio e protesto vengo visto, e se protesto ancora di più vengo accontentato, oppure no, vengo sculacciato e questo mi mortifica, oppure no, non mi mortifica, mi fa sentire vulnerabile ed allora mi arrabbio ancora di più… ed alzo ancora il tiro…
Le traiettorie possibili sono numerose e complesse, e si complicano ulteriormente con l’ampliarsi dei possibili esempi e delle possibili occasioni in cui le nostre azioni innescano ulteriori azioni da parte delle persone che ci circondano, ma ciò che accomuna tutte queste situazioni è che ciò che noi facciamo è più o meno consapevolmente canalizzato da ciò che, sulla base dell’esperienza che abbiamo già fatto, anticipiamo succederà poi e dal significato che ha per noi quel che succederà.
Detto in altri termini, i modi in cui esprimiamo le nostre emozioni radicano nella nostra esperienza. Essa ci ha offerto delle possibilità – e non altre – rispetto alle quali abbiamo avuto dei riscontri – e non altri. Se una persona non ha mai visto esprimere la rabbia con aggressività, forse non proverà mai a percorrere quella strada, una strada che, semplicemente, per lei non esiste. Ma questo vale anche per chi non ha mai visto esprimere la rabbia con un ragionamento che può essere acceso, forse, ma anche aperto al confronto. Ognuno di noi parte da alcune possibilità di azione di cui ha fatto esperienza per averle viste e poi provate in prima persona.
Siamo quindi vittime degli eventi che hanno punteggiato le nostre vite o del nostro modo di viverli?
Certo che no, possiamo sempre riflettere sui nostri atteggiamenti, comprenderne le ragioni, elaborare modalità di azione alternative modificando la traiettoria che la nostra storia ha avuto. Ed in questo tentativo di fare cose diverse, nuove, che ci sembrano avere più senso, credo possa essere utile porci una domanda: chi è l’Altro per noi?
Considerando e ripercorrendo le nostre possibili storie abbiamo infatti visto come sempre, negli scenari che immaginavamo, fossero presenti anche altre persone.
Ci arrabbiamo infatti sempre con(tro) l’Altro, qualcuno, a volte qualcosa, perché la rabbia è un’emozione che nasce nelle relazioni. Ce la prendiamo con chi riteniamo intenzionalmente responsabile dell’evento che ci ha fatto soffrire: una persona, un’istituzione, Dio, il destino, noi stessi … e vorremmo punirlo per quella sofferenza, fare in modo che quel qualcuno, o qualcosa, soffrisse almeno quanto noi, quasi che questa seconda sofferenza saldasse un conto rimasto aperto.
Non c’è una logica in questa sorta di immaginario ribilanciamento di un equilibrio rotto, ma tant’è, questo è ciò che contemporaneamente sentiamo e pensiamo quando siamo arrabbiati. Se poi scegliamo anche di dare corpo, dare il nostro corpo, a questo sentire, esprimendolo in azioni aggressive o violente, dipende anche da chi è per noi quell’Altro che ci ha fatto male.
Lo viviamo e lo percepiamo come un Nemico, come qualcuno che vuole il nostro male? Oppure come un Indifferente, un essere lontano e potente che non si cura di noi ma brama solo di raggiungere i suoi obiettivi calpestandoci noncurante nel suo pesante cammino? Ci appare come un Manipolatore o uno Sfruttatore che nega i nostri bisogni ed i nostri diritti ed è solo interessato a sfruttarci per i suoi fini? O lo vediamo invece come un essere umano confuso e sofferente, a sua volta arrabbiato o in difficoltà, che non ha compreso fino in fondo quello che stava facendo nei nostri confronti?
Queste letture così varie – che naturalmente possono condurre ad azioni molto diverse fra loro – possono essere appropriate, utili ed opportune in situazioni e contesti differenti. Pertanto, se ci concediamo il tempo di chiedere davvero a noi stessi chi è per noi quell’altro che ci fa stare così male, ci diamo la possibilità di uscire dalle traiettorie che la nostra storia può aver consolidato. Ed infine, se ci concediamo di provare a comprendere cosa quella persona, dal suo punto di vista, sta veramente cercando di fare con noi, possiamo provare a capire cosa noi vogliamo fare con lei, quale direzione imprimere alla nostra relazione. Se vogliamo giocare al “gioco” della guerra, a quello della vendetta, a quello del confronto o della testimonianza. O a molti altri possibili “giochi”.
Ecco, mi sembra però che questo ragionamento possa fare pensare al lettore che a me sia indifferente, alla fine, quale gioco la persona arrabbiata scelga di fare. Non è così. Dal mio punto di vista, come ho dichiarato fin dall’inizio di questo articolo, ci sono “giochi” che, seppur possibili, non sono legittimi. Sono tutti quelli in cui l’Altro smette di essere, agli occhi di chi è arrabbiato, persona tanto quanto lui, o lei, e diventa invece meno-che-persona, cosa. Non sono legittime le espressioni della rabbia che violano l’altro nel suo valore, nella sua integrità, nella sua libertà, nei suoi diritti. Non sono legittime, insomma, e sempre dal mio punto di vista, tutte le espressioni di rabbia che ripetono simmetricamente quei processi di negazione, svalutazione, oppressione, che di quella stessa rabbia sono stati l’origine.
Questo articolo fa parte di un dittico che ho pensato di dedicare alla rabbia ed alla sua espressione: esso ne costituisce la prima parte, dedicata all’emozione in sé, ed è idealmente completato da “Sono arrabbiato!!” che invece si focalizza sull’espressione della rabbia. Non distinguerò in questa occasione fra la rabbia dell’adulto e quella dell’adolescente, a questa distinzione, infatti dedicherò un ulteriore dittico, che Teen&20 pubblicherà in futuro.
A volte, pensando all’emozione della rabbia, mi scopro ad immaginarla, esercizio che chiedo spesso di fare alle persone che vengono in studio da me. Non immagino però la mia, di rabbia, ma la rabbia in generale, la rabbia come emozione, appunto. E non la vedo accesa, energica, ribollente, non immagino qualcosa di rosso e potente e dinamico, ma mi scopro a vederla un po’ spenta, sconsolata, debole ed al contempo livida, incupita, che mi guarda di traverso. Insomma, non mi fa paura, ma un po’ tristezza e pena. Perché la considero una delle emozioni più incomprese e maltrattate.
Il vocabolario della Treccani così la definisce: “Irritazione violenta prodotta dal senso della propria impotenza o da un’improvvisa delusione o contrarietà, e che esplode in azioni e in parole incontrollate e scomposte. Quindi anche furia bestiale, violenza non controllata e moderata dalla ragione. In altri casi indica un’irritazione grave e profonda ma contenuta, interna. In senso attenuato può significare impazienza stizzosa e seccata, disappunto vivo e dispettoso per essere costretto a fare ciò che non si vuole o per non aver ottenuto ciò che si voleva.”
In questa definizione possiamo apprezzare come, nell’uso comune della lingua, nella parola rabbia confluiscano sia l’emozione, il sentire, che il comportamento rabbioso. Troviamo anche l’irragionevolezza, la mancanza di controllo e la violenza. Se questa è la costellazione di significati legata all’emozione della rabbia, è a mio avviso piuttosto comprensibile perché essa possa essere incompresa e maltrattata.
Se infatti la rabbia viene vista come sinonimo di comportamento aggressivo, incontrollato, scomposto, irrazionale è piuttosto prevedibile che le persone la temano, sia quando ne sono vittime che quando ne sono protagoniste, e cerchino di evitarla, controllarla, a volte negarla, anche a se stesse.
Ho conosciuto persone che affermavano di non arrabbiarsi mai… alcune di loro semplicemente si arrabbiavano raramente, altre si arrabbiavano, invece, e molto, ma non se ne rendevano conto, non se ne potevano rendere conto, perché, nel loro mondo di significati, essere arrabbiate equivaleva a sbagliare, mancare di rispetto all’altro, perdere le relazioni, soffrire e fare soffrire.
Ed allora la rabbia che, naturalmente, ogni tanto, avrebbe avuto occasione di accendersi, rimaneva silente, presente ma sottotraccia, come brace sotto la cenere. E semplicemente non arrivava a coscienza, ma agiva comunque, proprio come la brace che, coperta dalla cenere, non manifesta il suo colore, ma scalda con il suo calore.
Ma la rabbia non è l’espressione della rabbia. Vorrei distinguere questi due piani e riservare alla parola “rabbia” il riferimento allo stato emotivo, al vissuto, a quello che sentiamo dentro di noi quando siamo arrabbiati. Al contempo preferirei chiamare “espressione della rabbia” tutto ciò che facciamo per dire al mondo, ed a noi stessi, che siamo arrabbiati. Penso che questa distinzione sia utile perché ci permette di separare l’emozione, che quando sorge ha una sua profonda ed assoluta legittimità, dai modi in cui la esprimiamo, che invece non sono tutti legittimi, equivalenti, utili.
Quando sentiamo rabbia è perché il mondo (una persona, una situazione, un’istituzione, un evento, noi stessi) ha fatto qualcosa che ha negato una parte di noi. Un bimbo può arrabbiarsi tantissimo quando la mamma si rifiuta di permettergli di giocare con il martello del suo papà; uno studente perché un insegnante lo ha valutato in modo, secondo lui, ingiusto; un adolescente perché i genitori non lo lasciano stare fuori fino a mattina il sabato sera ed i genitori perché il figlio non rispetta il loro divieto di usare il cellulare a tavola. Il problema, per quel bambino, non è il martello ma lo stop al suo desiderio di esplorare. E per lo studente non è solo il voto a fare male, ma il naufragio, di fronte al roccioso “arbitrio” dell’insegnante, della possibilità di determinare, con il proprio impegno e la propria prestazione, il risultato di una verifica. All’adolescente che si sente grande, viene sbattuto in faccia che non lo è, ed ai genitori, che vivono come un riconoscimento del loro ruolo il rispetto delle regole che impongono, quel riconoscimento viene negato.
Dal loro punto di vista, tutti stanno soffrendo perché è stata loro negata la possibilità di fare qualcosa che è diretta conseguenza del modo in cui essi concepiscono la loro identità. Si arrabbiano, insomma, perché hanno sentito minacciato qualcosa di profondamente nucleare. E di fronte a questa minaccia gridano, attraverso l’emozione della rabbia, un sonoro no.
Potremmo quindi immaginare la rabbia come una spia di allarme che si accende sulla plancia di comando e segnala che qualcosa di grave ed importante sta succedendo, per cui è necessario mobilitare le nostre energie per risolvere il problema.
Essa è infatti una emozione potente, forte, che prepara all’azione, al fare. Quando siamo arrabbiati non sentiamo fatica né dolore, il nostro pensiero è completamente calamitato da quella spia accesa. Tutto il resto sparisce.
Ed allora talvolta accade che, appunto, facciamo cose in modo impulsivo, “incontrollato”, noncuranti delle reali conseguenze. Questa tuttavia non è più rabbia, ma espressione della rabbia, espressione che può essere meno legittima, corretta, utile. Perché ci sono molti modi di esprimere la rabbia e non sono equivalenti. E noi possiamo scegliere.
Purtroppo però una sorta di psicologia del senso comune, di cui è imbevuto anche il nostro linguaggio, tende a dipingere la rabbia come un demone che si impossessa di noi e rispetto al quale noi siamo passivi (ed allora è chiaro che il nostro sforzo deve concentrarsi sull’evitare di arrabbiarsi…). Consideriamo ad esempio le espressioni: accecato dalla rabbia, divorato dalla rabbia, dominato dalla rabbia. Come se con questa emozione (ma con le emozioni in generale) non fosse possibile un rapporto diverso da quello della dominazione: o la persona domina le emozioni o ne è dominata.
Sono profondamente convinta non solo che esistano altre strade, ma che nemmeno sia sensato puntare al “dominio” della rabbia per evitare di esserne dominati. Questa emozione è importante, quando arriva ci dice che ci sta accadendo qualcosa che merita la nostra completa attenzione, ci parla di noi, delle cose che per noi sono importanti e che, in qualche modo, avvertiamo in pericolo, è preziosa e possiamo ascoltarla, dialogare con lei per comprendere cosa ci sta accadendo. È preziosa Se non la giudichiamo sbagliata a prescindere, se non ci spaventiamo ma la frequentiamo, impariamo a conoscerla, ad abitarla, se mettiamo a servizio di questa potente molla per l’azione la nostra capacità di riflettere, comprendere ed anticipare scenari, se, insomma, ci concediamo di arrabbiarci e di scegliere come esprimere la nostra rabbia, nel rispetto di noi stessi e degli altri.