Un triangolo rosa e un triangolo invisibile

di Rosa Olga Nardelli

Il 27 gennaio di ogni anno viene celebrata la Giornata della Memoria, una ricorrenza internazionale che commemora le vittime dell’Olocausto: il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa entrarono nella cittadina polacca di Oświęcim, in tedesco Auschwitz, scoprendo il vicino campo di concentramento. I superstiti vennero liberati e, col tempo, questi iniziarono a raccontare al mondo gli orrori perpetuati al suo interno (e all’interno delle centinaia di campi sparsi per mezza Europa) da parte dei nazifascisti.

Ad essere condannate ad una morte atroce furono migliaia di persone, ma vittime di tale follia non furono solo gli ebrei: anche i Rom, gli zingari, i dissidenti politici, gli emigrati, gli “asociali”, i “delinquenti comuni”, le persone omosessuali. Tutte persone considerate esseri inferiori o non degne di vivere, se non per lavorare all’interno dei campi e per esser usate come cavie dei numerosi esperimenti compiuti dai medici tedeschi. Come ben noto, ognuna di queste categorie aveva un simbolo che ne contraddistingueva il “reato”: la Stella di David per gli ebrei, il triangolo marrone per i prigionieri Rom, viola per i testimoni di Geova, un triangolo nero per gli asociali (al cui interno vi erano vagabondi, etilisti, persone con disabilità e con qualche disturbo mentale, prostitute), rosso per i prigionieri politici, blu per gli emigrati, un triangolo verde per i cosiddetti delinquenti comuni.

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Le persone omosessuali, tutti rigorosamente maschi, avevano un triangolo rosa sulla divisa, mentre le donne lesbiche non erano “degne” di essere definite, dunque nemmeno di avere un triangolo tutto loro. Il triangolo rosa, il colore delle ragazzine, veniva usato per ridicolizzare gli uomini omosessuali e la loro mascolinità: erano gli ultimi, emarginati dagli stessi internati. Le lesbiche invece erano invisibili nel mondo e restarono invisibili anche di fronte alle atrocità dei campi: nell’ottica nazista, che credeva fortemente nel ruolo tradizionale delle donne, le lesbiche venivano considerate asociali, quindi risulta traccia solo di 4 donne (su migliaia di persone sterminate) segnalate come lesbiche, sebbene perseguitate e confinate per motivi politici o religiosi.

Ciò che accadeva alle persone omosessuali internate non è difficile immaginarlo: venivano sottoposti a castrazione, stuprati per il divertimento delle guardie SS, costretti a lavori estremamente faticosi, continuamente derisi ed umiliati. Per molti la sola via d’uscita è stata il suicidio, spesso assieme al proprio compagno; per altri, invece, l’inferno non si è fermato con l’uscita dal campo, bensì è rimasto lucido ogni giorno, con la continua sensazione di sentirsi intrappolati. Le sbarre, in questo caso, si sono trasformate da fisiche a mentali dal momento che, ad esempio, in molti paesi europei è stato necessario attendere gli anni ’90 per abolire le leggi che proibivano le relazioni tra persone dello stesso sesso. E tutt’oggi, in molti paesi del mondo, l’omosessualità è condannata e, anche nella moderna Europa, non cessano i rigurgiti omofobici – basti pensare ai recentissimi avvenimenti in Polonia.

Si può usare una parola ben precisa, dunque: Omocausto.

Non è possibile definire l’esatto numero di vittime dell’omocausto, poiché i nazisti sono stati molto accurati nel distruggere migliaia di documenti che avrebbero accertato i loro crimini; alcuni studiosi però attestano il numero a circa 50mila persone, altri addirittura parlano di 200mila vittime.

Questa giornata è ogni anno accompagnata da celebrazioni di vario tipo: mostre, proiezioni, convegni, manifestazioni. Tutti modi per ricordare ciò che è stato, con la speranza e l’obiettivo che certe atrocità non vengano mai più commesse in nessun angolo del mondo. E risulta importante accostare la parola Omocausto ad Olocausto, poiché in questo modo si consente di far luce su un tema complesso e articolato, cercando di far conoscere l’eterogeneità delle testimonianze: uno spunto a non far spegnere il ricordo doloroso e la profonda indignazione e a farci riflettere su come ancora oggi le persone LGBT continuino a subire odio e discriminazioni, spesso in modo più subdolo e strisciante, talvolta in aperta persecuzione, in molti paesi del mondo.

È importante e doveroso partecipare a tali eventi, informarsi su quanto accaduto, ascoltare le testimonianze che gli ultimi superstiti dei campi raccontano, sebbene sia spesso necessario dotarsi di notevole “pelo sullo stomaco”. I suggerimenti possono essere tanti, basta sbirciare nelle bacheche delle associazioni LGBT per trovare eventi interessanti. Suggerisco però la visione di un vecchio film per la serata del 27 gennaio 2021, in cui le immagini crude e violente vengono solo evocate, sebbene lasci l’amaro in bocca sapendo ciò che accadrà di lì a poco: Una giornata particolare, di Ettore Scola, con Sophia Loren e Marcello Mastrioanni come attori protagonisti.

Film 1: Favolacce

di Alessandra Vignando

Questa settimana Teen&20 vuole segnalare un film: si tratta di Favolacce, dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, film premiato alla ultima Berlinale con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura. 

Di quest’opera si è molto scritto, ed in maniera eccellente, per cui noi qui proponiamo una delle recensioni più complete sia dal punto di vista tecnico che sociopsicologico per invitare alla visione del film, la recensione di Goffredo Fofi su Internazionale.

Favolacce viene narrato come appunto accade con le fiabe, i suoi protagonisti non sono però principesse o fate, ma episodi di vita di alcuni bambini e delle loro famiglie della periferia romana. 

Al silenzio assordante di quei bambini, nei loro sguardi intensi e nelle scelte a cui vengono portati, si contrappone la miseria degli adulti che calpestano e violentano le vite dei loro figli con cattiveria se non indifferenza. 

E’ un film che lascia addosso il peso del maltrattamento e dell’inadeguatezza genitoriale e che obbliga a riflettere su questo tema, anche quando gli scenari non sono prevedibili ma per questo possono diventare ancor più gravi.