Annoiati davanti al nulla, impotenti davanti a tutto

di Sara Feltrin

Poche settimane fa su Teen&20 scrivevo un articolo, La guerra dentro, nel quale descrivevo il forte malessere e la profonda sofferenza che caratterizza la gran parte degli adolescenti di oggi, chiusi e bloccati dentro le mura domestiche, come pettirossi in gabba, rossi dalla rabbia.

La guerra, ora, è scoppiata davvero. 

Le manifestazioni con cui i giovani hanno provato a farsi sentire e urlare a gran voce nelle piazze o fuori della scuola, vestiti a strati con berretto, guanti e una coperta stesa a terra come clochard lungo la strada, sono state parecchie. Telegiornali e notiziari ne hanno parlato molto, li hanno intervistati, ma nulla è cambiato. I continui DPCM tentennano tra salvare il mondo da una pandemia mondiale e l’Italia da un collasso economico, lasciando aperti fino a sera i centri commerciali per i regali di Natale, ma le scuole perennemente chiuse. 

Risale a pochi giorni fa (5 dicembre 2020) la vicenda presso il Pincio di Roma in cui centinaia di giovani, gran parte minorenni, si sono raccolti, un sabato pomeriggio, per assistere ad una rissa tra due ragazze. Una di loro, però, non si è presentata ma ciò nonostante la rissa è esplosa lo stesso, tra gruppi di ragazzini guidati da rabbia e sete di vendetta. La diretta e inevitabile conseguenza è stato quindi un grande affollamento di centinaia di giovani arrabbiati che, senza l’utilizzo di mascherine, si è ribellato nel centro di Roma. Ma i pugni, incitamenti, aggressioni, e violenze scagliate uno contro l’altro, nonostante l’intervento delle Forze dell’Ordine in tenuta anti sommossa, non sono bastati a frenare la rivolta. 

E su Tik Tok, Telegram e WhatsApp, circola già il messaggio “Confermata al 100% la rissa il prossimo sabato” ma sta volta i pugni e calci non basteranno e le armi della “rivincita” saranno lame e coltelli. 

Ci impressioniamo di tanta violenza, maleducazione, vandalismo e intemperanza. Questo, alla fine, colpisce. L’attenzione è diretta alle conseguenze più che alle cause e si cerca un modo per frenarli e disarmarli con tute antisommossa quando invece dovremmo fermarci ad ascoltarli, con le parole. Perchè mettersi ancora contro di loro non fa altro che aumentare la distanza, e più saranno lontani e più loro urleranno.

I numeri parlano chiaro: dallo scorso anno il numero degli atti vandalici provocato da ragazzi nella fascia adolescenziale è aumentato dal 16% al 22%; le risse ora sono al 24%, l’utilizzo di armi o oggetti pericolosi all’8% e l’aggressività su persone al 35% (Osservatorio Nazionale Adolescenza).

I nostri non sono più ragazzi e adolescenti che si ribellano per trovare dei limiti o dei confini per la definizione di sè; sono ragazzi demotivati, arrabbiati; sono adolescenti stufi di ribellarsi e che quindi, lottano. Lottano (o meglio, lottavano) a scuola dove attenzione e concentrazione sembrano capacità irraggiungibili e una buona comunicazione con insegnanti e compagni una grande utopia. Lottano nelle strade contro una società che li giudica e li considera un peso anziché una ricchezza. Lottano infine nelle piazze, unico luogo in cui ritrovare la voce e le urla dei coetanei arrabbiati e sconfortati come loro per scagliarsi insieme contro un mondo che non dà opportunità e sa di amaro. Ma lottano soprattutto in casa e in camera in particolare, contro se stessi. Mancano obiettivi, tante volte mancano perfino i sogni, mancano figure solide, mancano punti di riferimento verso le quali dirigere la rotta, manca la rotta e manca la motivazione che lascia spazio alla noia. E la noia di un vuoto, soprattutto in un’età in cui istinti e ormoni prendono il sopravvento, porta a frustrazione e percezione di scarsa autoefficacia (non faccio quindi non imparo quindi evito di fare per non fallire). Mettiamoci un futuro senza certezze del domani, una pandemia in corso che limita gli spostamenti bloccando i contatti fondamentali e la ricetta è pronta. 

Così, abbandonati alla noia e all’angoscia, l’unica strada rimane quella dell’esplorare l’oltre, una pseudo realtà fatta di adrenalina e autoefficacia che restituisce sensazioni di libertà, coraggio, competenza e vita. Ed ecco che spesso si ricorre all’alcol, alla droga, alla violenza, ai killer selfie, ai knockout, alle challenges virali spesso mortali, sfide ricche di sensazioni fortissime, devianze nate non più per raggiungere dei limiti ma per scavalcarli.

E’ una guerra spietata quella che sentono dentro e ce lo stanno dimostrando in tutti i modi, arrivando a volte persino al suicidio.

Ora tocca a noi ascoltarli, senza giudicarli e senza pretendere da loro chi vorremmo che fossero, ma accettiamoli, comprendiamoli e aiutiamoli con tutti gli sforzi che stanno facendo per crescere in un mondo così astioso come l’attuale. Hanno bisogno di noi, figure di riferimento, autorità competenti e persone da stimare che possono insegnare loro come sconfiggere lo sconforto e la frustrazione, per recuperare i sogni perduti e per poter credere che dopo ci sarà qualcosa di buono per cui valga la pena lottare ma soprattutto, per cui valga la pena vivere

Ora tocca a noi.

Vento dell’est, 

la nebbia è là, 

qualcosa di strano tra poco accadrà. 

Troppo difficile capire cos’è, 

ma penso che un ospite arrivi per me. 

                                                                  Walt Disney,  Saving Mr Banks

La guerra dentro

di Sara Feltrin

Zona rossa, zona gialla o zona arancione. Bar e ristoranti tornano a chiudere le serrande, i negozi hanno le ore contate e le scuole perennemente in ballo tra lezioni in presenza e lezioni online. Non si parla d’altro ormai, il Covid-19 è tornato al centro di ogni comunicazione, protagonista indiscusso delle nostre giornate. Ci troviamo di nuovo costretti a seguire delle direttive che limitano inevitabilmente il ciclo delle nostre giornate, cambiano le abitudini e non siamo più liberi. Oltre agli effetti più strettamente pratici e concreti, la pandemia sta portando ad una serie di conseguenze psichiche importanti e i più recenti studi lo dimostrano: ansia, panico, fobie, depressione e angoscia risalgono come un deja-vu, ma non è un deja-vu. E’ la seconda ondata della pandemia e coinvolge tutto il mondo, grandi e piccini. Ma gli adolescenti? Quella miriade di ragazzi e ragazze che in questo delicatissimo momento storico, stanno costruendo le fondamenta per il loro futuro e le basi della loro personalità. Quella fetta di popolazione che vive nel limbo tra la fanciullezza e l’età adulta, tra l’abbandono di un mondo, quello infantile, non più adatto alle loro esigenze e il lancio verso un mondo ignoto, quello dell’età adulta, in cui vengono proiettati bisogni, aspettative, sogni e desideri. Loro dunque, dove li abbiamo lasciati? Un pò come con i banchi con le rotelle, ci si è concentrati così tanto sulla didattica scolastica, sulle lezioni in presenza oppure online, su una parte del tutto, che si è perso il focus della una visione più generale e delle vere priorità che caratterizzano il mondo adolescenziale, che non è solo la scuola. DAD (Didattica A Distanza) o DDI (Didattica Digitale Integrata), qualsiasi acronimo il Ministero voglia utilizzare, il principio però, non è la didattica fine a se stessa, perchè la scuola non è solo didattica, ma anche rapporti sociali, relazioni, confronti, fuori e dentro la scuola, l’esporsi al mondo con tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti, stili personali, modi di vestire, truccarsi e comunicare, che solo l’esperienza sul campo può offrire. Uscire di casa, andare a scuola, andare a basket o a musica, significa proprio questo: vivere quella linfa vitale e quegli istinti che devono essere vissuti, toccati, conosciuti, per poter costruire la propria identità, creare la propria strada, con la tenacia e l’autoefficacia formatesi durante queste fondamentali esperienze di vita che danno forma e senso alla loro esistenza. 

Tutto questo è stato spostato sulla rete ormai da un pò, soprattutto con l’incremento dei social network e di tutte quelle piattaforme che portano alla creazione di un’identità digitale e, con essa, una fitta rete di relazioni digitali che favoriscono costanti confronti e ricerca di conferme. Come si fa quindi, a fare esperienza online, dove ogni situazione e ogni relazione viene creata e gestita ad hoc, su misura di un proprio avatar che difficilmente rispecchia l’identità della vita reale, ma un’identità ideale e immaginaria spesso irrealizzabile nella realtà. Come si fa a fare esperienza dietro uno schermo, dove emozioni e sentimenti vengono digitalizzati o scansionati in jpg o, meglio ancora, in pdf così tutti possono leggerli e nessuno può modificarli. Tanti sono i sentimenti che non riescono ad esprimersi, perchè per poterlo fare hanno bisogno di essere compresi e contenuti con empatia, condivisione, contatto e presenza

E ora, con la pandemia, dove qualsiasi forma di contatto o presenza è vietata, tutto questo si è amplificato a dismisura, ingigantendo il bisogno di uscire, di vedere gli amici, di mostrarsi al mondo e di essere liberi. Più di tutti quindi, in questa pandemia, ci stanno rimettendo loro, i bambini di ieri e gli adulti di domani, che si trovano bloccati e rassegnati a schiacciare impulsi e desideri sotto un cuscino.  

Rassegnazione, frustrazione, delusione e tristezza: queste sono le emozioni che prevalgono; di rabbia ce n’è poca, perchè la rabbia nasce quando c’è un fuoco dentro che brucia, un’energia vitale che arde per un desiderio o un obiettivo che in qualche modo ci viene ostacolato, e ci si arrabbia, sii reagisce, si lotta. Ma oggi, per la gran parte dei nostri adolescenti quel fuoco dentro si è trasformato in una piccola fiaccola alimentata da una lieve speranza che “le cose passino in fretta e che si sistemi tutto al meglio”. E più le delusioni procedono, più quel fuoco rischia di spegnersi, come si spengono impulsi e istinti, essenza vitale del corpo umano (e non solo adolescenziale). E’ facile capire, quindi, come la curiosità, l’intraprendenza e la motivazione inizino a mancare e come dall’essere attivi si passi all’essere passivi verso il mondo, il mondo esterno, ma soprattutto il mondo interno.  

D’altronde come fa un ragazzo, oggi come oggi, ad immaginarsi un futuro? o semplicemente a proiettarsi, tra qualche anno, in vesti di chi vorrebbe essere? Il futuro, lo indica il nome stesso, non è mai stato certo per nessuno, però, costruirlo in un presente più o meno chiaro e ricco di opportunità di crescita è ben diverso dal costruirlo in un presente di totale confusione e incertezza: in questo momento è difficilissimo per i nostri giovani definirsi, percepire i loro bisogni e desideri. Se somministrassimo loro un tema di italiano con la classica consegna “descriviti e racconta di te” penso che non potremo proporgli un lavoro più arduo e angosciante. 

Occorre quindi aiutarli a trovare la motivazione e la voglia di investire su se stessi, oggi più che mai; aiutarli ad avere massimo contatto con la loro sofferenza, la loro delusione e la rabbia nascosta dietro un profondo senso di frustrazione e rassegnazione. Dobbiamo aiutarli ad esprimersi, ad urlare, a pretendere e lottare per il loro futuro, per un ritorno alla vita reale molto diversa e, per certi aspetti anche spaventosa, della realtà digitale. Compiere questo passaggio, abbandonare il Sè virtuale/ideale e rientrare nelle vesti del complesso Sè reale, non sarà affatto semplice. Come non sarà semplice riprendere contatto con quelle relazioni difficili che il digitale ci consentiva di dimenticare. 

Cari adulti, cari mamma e papà: il Covid e le restrizioni che esso porta con sé  non devono diventare dei muri insormontabili, ma opportunità di relazione, di stare assieme, con noi stessi e in famiglia. Coltivare tempo e spazio di vita reale anziché connessi ai social o alla rete. Il mondo dei vostri figli è prevalentemente tecnologico oramai e non possiamo eliminare questa componente importante dalla loro vita, essendo quello l’unico contatto col mondo esterno, potete però insegnargli e guidarli ad un utilizzo consapevole e limitato di dispositivi elettronici, smartphone e tablet. Comunicate con la loro lingua tecnologica, partecipate alla loro vita digitale ma insegnategli a utilizzare lo smartphone per chiamare o scrivere agli amici, usare il pc per le videolezioni e lo studio; aiutateli ad allontanarsi dalla costante ossessione dei social network, dalle lunghe attese dei like, dei feedback rinforzanti che non fanno altro che alimentare il loro precario fatto spesso di incertezze e timori. Ascoltate i loro bisogni, le loro necessità, aiutateli a riprendere in mano le loro passioni e i loro interessi perchè le risposte non si trovano dietro uno schermo ma dentro di loro, dentro di voi insieme a loro, nelle scelte che fanno, nella vita che conducono e negli spazi che vivono. 

Infine, cari ragazzi, care ragazze: avete tutta la ragione per essere delusi e frustrati dalla realtà che vi si pone davanti, però il futuro siete voi e il futuro, per cambiare, ha bisogno di un fuoco che arde e che lotta per perseguire obiettivi e desideri. E noi, come adulti, vi aiuteremo ad accendere quel fuoco e quell’energia vitale per pianificare gli anni che verranno, senza gli sbagli delle generazioni passate e con la resilienza di chi ha saputo reggere una guerra dentro e la tenacia di chi ha saputo pazientare e vincere. 

Covid-19 parte 2

di Sara Feltrin

Ripartiamo da ciò che abbiamo imparato, dalla nostra vulnerabilità.

Parla chiaro il nuovo DPCM del 24 ottobre 2020 e parla di un pericoloso picco di contagi che potrebbe compromettere ancor di più la salute degli italiani e del popolo mondiale. Così, via libera a restrizioni, coprifuoco e indicazioni strettamente consigliate. Così, il nuovo decreto ci pone davanti a quell’immaginario tanto temuto quanto forse non preso troppo sul serio, che il Virus sarebbe tornato a seminare panico, terrore, paura, sconforto, senso di fallimento collettivo ma soprattutto, quel senso di vulnerabilità a cui a fatica ci eravamo abituati e che presto abbiamo abbandonato. 

D’altronde, era inevitabile.

Il Virus che a marzo ci aveva messo alle strette, portando ognuno di noi ad interrogarci sui nostri bisogni e stili di vita per riordinare priorità e trovare un compromesso tra noi e gli altri, è tornato a porci davanti a quello stesso specchio che ora riconosciamo bene ma, come qualche mese fa, facciamo fatica a guardarlo e guardarci dentro.

Così, ricominciamo.

Ricominciamo a fare spazio in casa, ordine nella mente e ridimensionare le nostre abitudini. Ricominciamo a fare i conti con la nostra fragilità e la nostra vulnerabilità di esseri umani, non onnipotenti, che inevitabilmente trascinano con sé l’ansia di un futuro incerto e l’angoscia di un senso di sé costretto e bloccato nella propria autonomia, libertà e indipendenza, tasselli fondamentali per la realizzazione personale. 

L’epidemia ci ha bloccati di nuovo, ma questa volta noi abbiamo qualche carta in più: è un panorama che abbiamo già vissuto, dal quale qualcosa abbiamo imparato e dal quale possiamo ripartire. Non affrettandoci a supermercati e farmacie ma prendendo contatto con noi stessi prima di tutto, e con chi ci sta vicino. 

La pandemia da Covid-19 ci ha insegnato tante cose: 

  • Ci ha insegnato che la collettività, la collaborazione e il senso di comunità sono fondamentali e che i piccoli gesti possono diventare i grandi cambiamenti.
  • Ci ha insegnato la possibilità di poter lavorare e studiare da casa, imparando a gestire orari e responsabilità in autonomia e (per chi più, per chi meno) indipendenza, migliorando la flessibilità al cambiamento.
  • Ci ha insegnato a fermarci: non più succubi delle incombenze a rincorrere affannosamente il tempo ma guidarlo e gestirlo in base ai nostri bisogni. 
  • Ci ha insegnato a stare in famiglia: che non è più una dimensione così scontata ma è parte di noi, del nostro passato, presente e futuro. Riscoprire noi stessi nel nucleo familiare e il rispetto per gli altri, la loro presenza, i compromessi, le attese, l’ascolto, il dialogo, i litigi, le discussioni e il fare la pace. 
  • Ci ha insegnato a fare amicizia con l’incertezza: accettare che non abbiamo sempre tutto sotto controllo e che l’incertezza del quotidiano fa parte della vita, dell’essere umano e come tale, possiamo imparare ad affrontarlo con serenità.
  • Ci ha insegnato, nonostante tutto, a coltivare le relazioni a distanza perchè gli amici, i colleghi e tutte quelle persone che quotidianamente diamo per scontate, possono mancare come l’acqua e, come l’acqua, ne abbiamo bisogno, perchè ci danno quel senso di appartenenza e comprensione che non sempre possiamo trovare a casa. 
  • Ci ha insegnato, soprattutto, a prenderci cura di noi stessi, a dare spazio a quelle passioni e a quegli interessi che forse avevamo messo da parte perchè già troppo saturi di impegni.   

Quindi, caro Virus, sarai anche potente e pericoloso, ma non ci spaventi, perchè possiamo ripartire da quello che ci hai tolto e da quello che ci hai dato, con la consapevolezza acquisita durante questi mesi e la speranza che il futuro che vogliamo ci sta attendendo immune e di certo non smetterà di lottare.

Maschi, femmine e stereotipi di genere

di Rosa Olga Nardelli

Nel momento in cui cerchiamo di definire l’identità sessuale di una persona dobbiamo fare riferimento ad un costrutto molto complesso, che necessita prendere in considerazione quattro aspetti distinti tra loro ma imprescindibili l’uno dall’altro:

  • L’identità biologica – ovvero il sesso biologico con cui nasciamo, maschio o femmina, in termini di cromosomi e di anatomia sessuale;
  • l’identità di genere – ovvero, come ci sentiamo, la percezione di noi come a nostro agio o meno all’interno del nostro corpo. Ha a che fare con il percepirsi uomo o donna;
  • il ruolo di genere – ovvero tutti quei comportamenti che una persona adotta come manifestazione pubblica della propria identità di genere. Ha a che fare con come ci si percepisce all’interno di una società e come la società ci percepisce;
  • l’orientamento sessuale – ovvero un “modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso gli uomini, le donne o entrambi i sessi” (APA, 2008) e che ha a che fare con chi è la persona che ci piace e dalla quale siamo attratti fisicamente e mentalmente.

Come dicevamo all’inizio, le quattro componenti dell’identità sessuale sono strettamente legate tra di loro, nel senso che si influenzano a vicenda e i relativi significati, le percezioni che ne abbiamo, contribuiscono a costruire la complessità dell’identità sessuale.

Soffermiamoci oggi sul ruolo di genere

Il ruolo di genere, dunque, è un insieme di aspettative rispetto ai ruoli che uomini e donne dovrebbero avere, in considerazione del periodo storico, della zona geografica, della cultura in cui sono inseriti. Queste aspettative si traducono, a loro volta, in comportamenti che la persona mette in atto per indicare agli altri la propria identità femminile o maschile:

  • il modo di parlare e la gestualità (es. uso delle parolacce, accompagnare le parole coi gesti)
  • gli attributi fisici (es. grandezza del seno, gestione dei peli, colorare i capelli)
  • la gestione delle emozioni (es. piangere o rimanere impassibili)
  • la cura di sé (es. curare il proprio corpo o meno)
  • il modo di vestirsi (dal colore agli accessori)
  • i tratti di personalità (es. socievolezza e timidezza)
  • i giochi e gli interessi (es. bambole o macchinine; cura della casa o informatica)
  • gli sport e il tempo libero (es. danza classica o calcio)
  • professioni e mestieri (es. camionista o insegnante della scuola dell’infanzia)
  • desideri e aspettative per il futuro (es. proseguire gli studi e fare carriera o restare ad accudire la casa e la famiglia)
  • modo di fare riferimento a sé stessi.

Alla nascita ciascuno di noi ha ricevuto un fiocco rosa, se siamo femmine, o un fiocco azzurro se siamo maschi.  Questi colori non indicano soltanto il nostro sesso biologico, ma portano con sé tutte quelle aspettative a cui abbiamo appena fatto cenno, e da quel momento in poi tutto ciò che facciamo rientrerà nella dicotomia maschio vs femmina.

Fiocco rosa: “sarà una brava donnina di casa”, “quanti figli vuoi avere?”, “mi raccomando, parla bene e non usare parolacce”, “una brava ragazza sa stare al suo posto!”, “ho regalato alla mia nipotina la cucina di Barbie”, “la danza è una attività per bambine, vedrai che ti farà venire un corpo armonioso e quando diventerai grande i ragazzi ti guarderanno”, “fare la maestra è un lavoro che solo le femmine possono fare”.

Fiocco azzurro: “dai, su, non piangere, sei un maschietto!”, “beh, è un maschio, per Natale gli regalo delle macchinine e dei camion”, “le propongo questi colori maschili: blu, azzurro e navy”, “agli uomini sta bene un po’ di panzetta”, “per l’uomo che non deve chiedere mai!”, “beh, è un maschietto, è normale che non riesca a stare fermo”, “i maschi non ne capiscono nulla di come si trattano i bambini”.

Di per sé gli stereotipi legati al ruolo di genere non sono giusti o sbagliati, proprio perché fanno parte di una cultura, sono legati ad eventi storici ben precisi, sono un modo per regolare la società stessa e per “riconoscere” il ruolo di una persona all’interno di quella società. 

La questione però è un’altra: ogni qualvolta una persona non si conforma alle aspettative che la società ha costruito per lui o lei, la società stessa lo considera strano, tende a farlo sentire sbagliato rispetto ad uno stereotipo di riferimento, ad un “modello” a cui è “necessario” fare riferimento. E, possiamo aggiungere, in questo concetto c’è la base attorno a cui si costruisce il bullismo omofobico: “fai danza classica, sei una femminuccia”, “fai calcio, sei lesbica e un maschiaccio”; “quel bambino sta giocando con le bambole, sarà gay da grande”, “a quella bambina piacciono le macchinine, diventerà sicuramente lesbica”; “lei si muove proprio come un maschio”, “lui si atteggia da femmina”; “è lesbica, quindi non può avere dei figli”, “quell’educatore è gay, non voglio che stia vicino ai bambini dell’asilo”; “sei lesbica perché hai quel tono di voce”, “sono sicura che il mio parrucchiere sia gay” e via dicendo, di esempi potremmo essercene migliaia.

Gli stereotipi, nel momento in cui si trasformano in pregiudizi granitici, impediscono alla persona di scegliere, di essere quella che è, e fanno male alle femmine, tanto quanto ai maschi: una società in cui il maschio, per esser considerato tale, deve essere sempre forte, emotivamente e fisicamente, sempre un passo avanti, sempre in grado di gestire la situazione, deve raggiungere sempre i massimi livelli, e dove la femmina deve essere sempre un passo indietro, deve sentirsi chiedere quando vuole dei figli (e non SE), deve mantenere un ruolo dimesso, corre il rischio di impantanarsi in questi modelli e di perdere di vista la sensibilità e la ricchezza che maschi e femmine, indistintamente, possiedono.

E’ davvero questione di “carattere”?

di Francesca Del Rizzo

“Ogni bambino [e ogni bambina] modifica istintivamente le proprie necessità e le proprie risposte comportamentali in funzione delle richieste e delle preferenze dei genitori, imparando presto cosa ci si aspetta dalla relazione con lui [o con lei]” (Pat Ogden).

Partiamo oggi da questa citazione per riflettere su un tema che considero molto importante.

Sia nell’ambito della consulenza che in contesti più informali mi capita di sentire molti genitori iniziare o completare una frase che riguarda la loro relazione con i figli con l’espressione “eh, sì, perchè ha un carattere!!” naturalmente sottintendendo che il carattere è difficile, complicato, testardo… o qualche cosa di simile. Questa frase viene generalmente utilizzata come spiegazione: non riesco a fare con lei (o con lui) una certa cosa, ad ottenere un certo comportamento, perchè ha un carattere difficile. Scendendo nel concreto: “non riesco mica a convincere Luca a giocare con sua sorella, sai, ha un carattere!!…”

In questo ragionamento ci sono vari aspetti che potremmo sottolineare, ne sceglierò solo un paio. Innanzitutto vi è l’idea che la responsabilità del mancato risultato atteso – o della ennesima ripetizione di un risultato indesiderato – sia del figlio, e per la precisione del suo carattere. In questo modo il genitore nega che la responsabilità possa essere sua e sembra non prendere nemmeno in considerazione l’eventualità che essa possa essere condivisa. Inoltre egli appare non contemplare la possibilità che le ragioni di quel comportamento possano collocarsi in qualcosa di diverso dal “carattere”.

Per esempio, nel nostro caso, se chiedessimo a Luca perchè non vuole giocare con la sorellina, potrebbe risponderci che per lui, che ha 13 anni, ed è un maschio, giocare con la sorella di 8 non esiste proprio, che poi magari i suoi amici vengono a saperlo. Questa risposta ci potrebbe suggerire l’ipotesi che per Luca sia “degradante” e vergognoso giocare con la sorella. Non intendo dire che, ammesso che questa ipotesi corrisponda davvero al motivo del comportamento di Luca, il rifiuto al gioco e la ragione che lo sostiene debbano essere accettati e basta, ma che sia molto importante cercare di comprendere davvero le ragioni per cui egli fa quello che fa. In questo caso, alla base della scelta di non giocare con la sorella ci sarebbe una convinzione basata su un paio di stereotipi molto diffusi (non solo fra i ragazzini): che giocare con le femmine possa essere disonorevole per un maschio e che giocare con i più piccoli renda ridicoli. Nulla a che fare con il “carattere”.

Stiamo solo sostituendo una spiegazione con un’altra? Cosa c’è di fondamentalmente diverso fra le due? Molte cose, ma fra tutte evidenzierei il fatto che, per come inteso comunemente, il “carattere” è concepito vagamente come una dotazione individuale immodificabile, mentre si pensa che le convinzioni e gli stereotipi, invece, possano cambiare, seppur talvolta a fatica.

Infatti, se chiediamo a bruciapelo alle persone cosa sia il carattere otteniamo risposte come “il carattere è come uno è, ad esempio se uno è scontroso, quello è il suo carattere”. La definizione è quindi vaga (il carattere è come uno è) ma al contempo monolitica, perché contiene implicitamente la convinzione che le persone siano fatte in un certo modo (quante volte abbiamo sentito dire che il carattere non si cambia?). Così come una persona può essere alta due metri, cosa che non si cambia, può essere solare, e nemmeno questo si cambia, perché uno è come è.

Torniamo ora alla citazione di Pat Ogden. Ripetiamola, per avercela qui, di fronte agli occhi:

“Ogni bambino [e ogni bambina] modifica istintivamente le proprie necessità e le proprie risposte comportamentali in funzione delle richieste e delle preferenze dei genitori, imparando presto cosa ci si aspetta dalla relazione con lui [o con lei].”

Cosa ha a che fare questa citazione con il ragionamento basato sul carattere? Ad occhio mi verrebbe da dire che si colloca un po’ all’opposto, anzi, no, “di lato”. Ogden sembra dirci che i bambini non hanno un certo carattere, non sono in un certo modo, ma fanno una serie di cose, cioè costruiscono abitudini ed atteggiamenti nell’ottica di confrontarsi con le richieste e con le preferenze dei genitori.

Perchè affermo che non sia l’opposto della teoria del carattere? Perchè Ogden non dice che ciò che i bambini fanno dipende dai genitori (quindi non passa dall’attribuire la responsabilità al figlio all’attribuirla al genitore), ci dice piuttosto che il bambino attivamente cerca di agire in un certo modo – modo che gli viene suggerito dal suo pensiero, dalle sue esperienze, dalla sua immaginazione – sulla base della sua idea di quali sono le richieste e i desideri dei genitori.

Se tornassimo a Luca e al suo rifiuto di giocare con la sorella, potremmo chiederci se ad esempio lui condivida il suo maschilismo con il padre, o con un’altra importante figura di riferimento, oppure se, più ottimisticamente, stia “disobbedendo” alla madre perché ha capito che non è necessario obbedirle per avere il suo affetto…

Le parole di Ogden ci aprono ad una visione in cui ciò che accade nella relazione è frutto del contributo di ciascuno dei partecipanti alla relazione stessa: i genitori ci mettono le loro aspettative, le loro preferenze, le loro richieste, i figli ci mettono la loro comprensione di queste ultime e la scelta di alcune azioni piuttosto che di altre. Non sempre nell’ottica di soddisfare le richieste dei genitori, ma sempre nell’ottica di rispondervi, talvolta oppondendovisi.

Inoltre, quello che Ogden ci suggerisce sembra essere un’immagine della relazione come una danza di assestamenti reciproci continui, non come la recita di un copione basato sul carattere, su modi di essere immutabili nel tempo. Questa prospettiva ci permette di guardare alle relazioni, ed ai comportamenti delle persone in relazione, come a dei processi in continua evoluzione lungo linee che vengono tracciate in tempo reale nell’ambito delle reciproche interazioni. Essa ci invita inoltre ad essere sempre curiosi rispetto a ciò che accade, a ciò che apportiamo sia noi che l’altro, a non dare insomma per scontato di sapere sempre perché le cose vanno come vanno.

Film 1: Favolacce

di Alessandra Vignando

Questa settimana Teen&20 vuole segnalare un film: si tratta di Favolacce, dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, film premiato alla ultima Berlinale con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura. 

Di quest’opera si è molto scritto, ed in maniera eccellente, per cui noi qui proponiamo una delle recensioni più complete sia dal punto di vista tecnico che sociopsicologico per invitare alla visione del film, la recensione di Goffredo Fofi su Internazionale.

Favolacce viene narrato come appunto accade con le fiabe, i suoi protagonisti non sono però principesse o fate, ma episodi di vita di alcuni bambini e delle loro famiglie della periferia romana. 

Al silenzio assordante di quei bambini, nei loro sguardi intensi e nelle scelte a cui vengono portati, si contrappone la miseria degli adulti che calpestano e violentano le vite dei loro figli con cattiveria se non indifferenza. 

E’ un film che lascia addosso il peso del maltrattamento e dell’inadeguatezza genitoriale e che obbliga a riflettere su questo tema, anche quando gli scenari non sono prevedibili ma per questo possono diventare ancor più gravi.

Estate

di Francesca Del Rizzo

Estate, per noi e per i nostri ragazzi, significa vacanze, svago, attività all’aperto. E’ un tempo in cui vorremmo riposare e recuperare energie. Quest’anno la compagnia della pandemia da Coronavirus rende il tutto speciale, diverso e talvolta irreale, ma forse ancor più significativo.

Illustrazione di Emiliano Ponzi, link Instagram: https://bit.ly/2KMoQyV

Non è forse ancora un ricordo il tempo del lockdown, in cui eravamo costretti in casa, le nostre attività ridotte, i nostri scambi di persona con gli amici azzerati. Dico che forse non è ancora un ricordo perché l’impressione è che ce ne vogliamo dimenticare, o meglio, vorremo cancellare quei giorni, fare come non ci fossero stati mai.

Molto si è detto e scritto sugli effetti psicologici delle misure di contenimento, ma la mia impressione è che davvero facciamo fatica a realizzare quanto la rottura delle nostre abitudini, la rinuncia alle nostre attività consuete, il ricorso a modalità comunicative mediate dal computer, ma, soprattutto, la scarsità di contatti con le altre persone ci abbiano turbato e scombussolato.

Vorremmo riprendere da dove abbiamo lasciato, ma il nostro umore è cambiato, il nostro assetto mentale mi sembra caratterizzato da maggior inquietudine, nervosismo, fastidio e rabbia.

Ed allora, che fare in questa estate speciale?

Credo potrebbe essere molto utile poterci dare la possibilità di fermarci ed ascoltarci, chiederci come stiamo e provare a dare davvero voce alle nostre sensazioni. Abbiamo molto bisogno di prenderci cura di noi, ma per riuscirci è necessario che facciamo il punto sul nostro stare, ne prendiamo atto e partiamo da lì. E proviamo a non avere fretta, ma a stare fermi, in ascolto, in osservazione per comprendere i nostri bisogni e cercare con pazienza il modo di negoziarne la soddisfazione anche con chi ci circonda. Affinché la cura di noi stessi non diventi un solitario, egoistico e narcisistico viaggio verso l’appagamento autistico.

mmagine di Agostino Iacurci, link Instagram: https://bit.ly/2P25NDT

Grazie al periodo passato chiusi in casa, abbiamo infatti realizzato, ripeto, forse non con la necessaria profondità, quanto abbiamo bisogno di relazioni, di relazioni di ogni tipo, varie e diversificate. Così come vario e diversificato deve essere il nutrimento che attraverso il cibo diamo al nostro organismo, altrettanto deve essere il “nutrimento” che concediamo al nostro essere persone attraverso lo stare in relazione. Abbiamo necessità di confronto con la ricchezza e la sorprendente eterogeneità delle altre menti per rinvigorire la nostra, abbiamo necessità di assumere temporaneamente i punti di vista degli altri per poter superare i limiti e le chiusure del nostro. Nel dialogo con l’altro troviamo lo spazio e la possibilità per definire chi siamo, e chi non siamo, e per ricevere riconoscimento, per avere la percezione del nostro esistere ed essere visti, considerati, amati.

Per queste ragioni credo che “estate”, quest’anno, debba significare soprattutto “relazione“. Vorrei che tutti ci dessimo la possibilità di farci ricaricare dalle nostre relazioni. Certo, sarà bello andare al mare, in montagna, visitare la nostra splendida Italia nei suoi borghi e nelle sue città, ma sarà terapeutico concederci di incontrare l’altro, sentirne la presenza, condividere il suo mondo. Lo sarà per adulti, bambini, ragazzi ed anziani, per tutti proprio.