Sappiamo tutti che la DAD è stata l’unico modo grazie al quale i nostri ragazzi hanno potuto mantenere un rapporto con la scuola e con il mondo degli apprendimenti. Sappiamo tutti che è stata una risorsa, e siamo altrettanto consapevoli di quali siano stati e siano i suoi limiti, stiamo pian piano capendo quali sono le implicazioni dell’aver fatto così tanto affidamento su di essa. E’ stata una fortuna che ci fosse, ma probabilmente questo è stato anche uno dei fattori che ha reso così facile, immediato e rapido decidere di interrompere la frequenza scolastica in presenza non appena i numeri del contagio salivano. Come se la scuola fosse solo apprendimenti, come se la scuola non fosse primariamente relazione.
Più di ogni altra fascia d’età, in questo tempo di Covid, le ragazze e i ragazzi sono stati deprivati del loro mondo relazionale: via lo sport, via la scuola… Azzerato lo scenario che normalmente è co-protagonista della loro crescita.
Come è cambiato il loro mondo?
Quanto è cambiato?
Hanno la possibilità di riflettere su questi temi? Di provare a dare un senso a tutto questo?
E i loro genitori come stanno?
Come è stato averli sempre a casa, vederli sempre di fronte ai monitor, assistere al loro cambiamento mentre anche la famiglia cambiava le sue routine e il lavoro chiedeva nuovi adattamenti?
Vorremmo provare a rispondere assieme a queste domande e proponiamo due percorsi di confronto di gruppo, uno per adolescenti e uno per genitori, che possano essere di sostegno e stimolo in questo sforzo comune di rielaborazione. La conduzione del gruppo sarà professionale, a garantire la sicurezza emotiva di ciascuno e di tutti, e ogni incontro svilupperà un tema specifico: la scuola, le relazioni amicali e quelle più periferiche, la famiglia e il modo in cui il corpo ha risposto all’isolamento.
Gli incontri per i ragazzi si svolgeranno nei pomeriggi di venerdì dalle 18.00 alle 19.30, quelli per i genitori nelle serate del mercoledì dalle 21.00 alle 22.30.
Fino a qualche giorno fa pensavamo che questi, forse più di quelli natalizi, sarebbero stati giorni di festa per i nostri ragazzi. I giorni del ritorno alla didattica in presenza, i giorni in cui si sarebbero rivisti e avrebbero di nuovo fatto gruppo.
Non è stato così. La scuola superiore riprende a distanza.
L’evidenza ci dice che in questo paese, ed in alcune regioni in particolare, del benessere degli adolescenti interessa veramente poco a tutti. Proviamo rabbia, come genitori e come cittadini, e ci sentiamo impotenti.
Come professionisti ciò che possiamo fare è ribadire perché la scuola in presenza sia un bisogno primario delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Lo è perché è essenziale all’apprendimento il condividere uno spazio-tempo in presenza: la persona nella sua interezza viene coinvolta in ciò che accade, può partecipare e costruire attivamente l’esperienza, rielaborare in modo attivo ciò che avviene nel contesto classe. Chi ancora pensa che la scuola trasmetta contenuti si ricreda: quando funziona essa fa molto di più e di meglio, favorisce infatti esperienze di apprendimento che cambiano le persone coinvolte, insegnanti compresi.
Ma la scuola in presenza è essenziale anche perché in adolescenza le ragazze ed i ragazzi devono stare fra di loro, imparare a costruire relazioni fra pari, sganciarsi dall’ambiente domestico, dall’influenza dei genitori, e costruire gli strumenti per rapportarsi in autonoma con il mondo adulto. Devono poter fare la fatica di guardare negli occhi un professore “difficile” ed inventarsi un modo per andarci a patti, affrontare gruppi di compagni “antipatici” e “stronzi” superando insicurezze e timori di essere giudicati. E devono poter sperimentare vari modi di essere un po’ adulti, negli affetti, nelle passioni, nelle amicizie, negli errori e nei fallimenti.
Questi mesi di didattica a distanza ci stanno invece regalando l’opposto: ragazzi chiusi in casa, una scuola che si limita a tentare di inculcare contenuti, sperimentazioni sociali, relazionali, affettive, amicali ridotte a meno del minimo.
Ed il risultato è una generazione sempre più fragile, insicura, impaurita, spaventata. Il mondo fuori fa sempre più paura, perché c’è il Covid, certo, ma anche perché si teme tutto ciò che non si frequenta e non si conosce. Aumentano i segnali di disagio e sofferenza (ansia, fobie, attacchi di panico, depressione) e si ricorre sempre più al terapeuta. Non si contano più le ricerche che lo attestano scientificamente.
Le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di tornare a scuola e hanno necessità di sentire che attorno a loro c’è un mondo di adulti che si prende cura di loro e delle loro esigenze.
Poche settimane fa su Teen&20 scrivevo un articolo, La guerra dentro, nel quale descrivevo il forte malessere e la profonda sofferenza che caratterizza la gran parte degli adolescenti di oggi, chiusi e bloccati dentro le mura domestiche, come pettirossi in gabba, rossi dalla rabbia.
La guerra, ora, è scoppiata davvero.
Le manifestazioni con cui i giovani hanno provato a farsi sentire e urlare a gran voce nelle piazze o fuori della scuola, vestiti a strati con berretto, guanti e una coperta stesa a terra come clochard lungo la strada, sono state parecchie. Telegiornali e notiziari ne hanno parlato molto, li hanno intervistati, ma nulla è cambiato. I continui DPCM tentennano tra salvare il mondo da una pandemia mondiale e l’Italia da un collasso economico, lasciando aperti fino a sera i centri commerciali per i regali di Natale, ma le scuole perennemente chiuse.
Risale a pochi giorni fa (5 dicembre 2020) la vicenda presso il Pincio di Roma in cui centinaia di giovani, gran parte minorenni, si sono raccolti, un sabato pomeriggio, per assistere ad una rissa tra due ragazze. Una di loro, però, non si è presentata ma ciò nonostante la rissa è esplosa lo stesso, tra gruppi di ragazzini guidati da rabbia e sete di vendetta. La diretta e inevitabile conseguenza è stato quindi un grande affollamento di centinaia di giovani arrabbiati che, senza l’utilizzo di mascherine, si è ribellato nel centro di Roma. Ma i pugni, incitamenti, aggressioni, e violenze scagliate uno contro l’altro, nonostante l’intervento delle Forze dell’Ordine in tenuta anti sommossa, non sono bastati a frenare la rivolta.
E su Tik Tok, Telegram e WhatsApp, circola già il messaggio “Confermata al 100% la rissa il prossimo sabato” ma sta volta i pugni e calci non basteranno e le armi della “rivincita” saranno lame e coltelli.
Ci impressioniamo di tanta violenza, maleducazione, vandalismo e intemperanza. Questo, alla fine, colpisce. L’attenzione è diretta alle conseguenze più che alle cause e si cerca un modo per frenarli e disarmarli con tute antisommossa quando invece dovremmo fermarci ad ascoltarli, con le parole. Perchè mettersi ancora contro di loro non fa altro che aumentare la distanza, e più saranno lontani e più loro urleranno.
I numeri parlano chiaro: dallo scorso anno il numero degli atti vandalici provocato da ragazzi nella fascia adolescenziale è aumentato dal 16% al 22%; le risse ora sono al 24%, l’utilizzo di armi o oggetti pericolosi all’8% e l’aggressività su persone al 35% (Osservatorio Nazionale Adolescenza).
I nostri non sono più ragazzi e adolescenti che si ribellano per trovare dei limiti o dei confini per la definizione di sè; sono ragazzi demotivati, arrabbiati; sono adolescenti stufi di ribellarsi e che quindi, lottano. Lottano (o meglio, lottavano) a scuola dove attenzione e concentrazione sembrano capacità irraggiungibili e una buona comunicazione con insegnanti e compagni una grande utopia. Lottano nelle strade contro una società che li giudica e li considera un peso anziché una ricchezza. Lottano infine nelle piazze, unico luogo in cui ritrovare la voce e le urla dei coetanei arrabbiati e sconfortati come loro per scagliarsi insieme contro un mondo che non dà opportunità e sa di amaro. Ma lottano soprattutto in casa e in camera in particolare, contro se stessi. Mancano obiettivi, tante volte mancano perfino i sogni, mancano figure solide, mancano punti di riferimento verso le quali dirigere la rotta, manca la rotta e manca la motivazione che lascia spazio alla noia. E la noia di un vuoto, soprattutto in un’età in cui istinti e ormoni prendono il sopravvento, porta a frustrazione e percezione di scarsa autoefficacia (non faccio quindi non imparo quindi evito di fare per non fallire). Mettiamoci un futuro senza certezze del domani, una pandemia in corso che limita gli spostamenti bloccando i contatti fondamentali e la ricetta è pronta.
Così, abbandonati alla noia e all’angoscia, l’unica strada rimane quella dell’esplorare l’oltre, una pseudo realtà fatta di adrenalina e autoefficacia che restituisce sensazioni di libertà, coraggio, competenza e vita. Ed ecco che spesso si ricorre all’alcol, alla droga, alla violenza, ai killer selfie, ai knockout, alle challenges virali spesso mortali, sfide ricche di sensazioni fortissime, devianze nate non più per raggiungere dei limiti ma per scavalcarli.
E’ una guerra spietata quella che sentono dentro e ce lo stanno dimostrando in tutti i modi, arrivando a volte persino al suicidio.
Ora tocca a noi ascoltarli, senza giudicarli e senza pretendere da loro chi vorremmo che fossero, ma accettiamoli, comprendiamoli e aiutiamoli con tutti gli sforzi che stanno facendo per crescere in un mondo così astioso come l’attuale. Hanno bisogno di noi, figure di riferimento, autorità competenti e persone da stimare che possono insegnare loro come sconfiggere lo sconforto e la frustrazione, per recuperare i sogni perduti e per poter credere che dopo ci sarà qualcosa di buono per cui valga la pena lottare ma soprattutto, per cui valga la pena vivere.
A costo di ripetere concetti triti e ritriti, vorrei affrontare con voi la questione “voto”. La ragione per cui credo sia importante ribadire alcuni punti è che continuo ad incontrare ragazzi e ragazze ossessionati dai voti, dalle medie e da tutto quello che ruota attorno all’idea di prestazione nel mondo della scuola.
I ragazzi e le ragazze che vedo non sono studenti che arrivano a stento alla sufficienza, sono invece persone che si impegnano molto ed ottengono buoni, o ottimi, risultati di cui, però, non riescono a godere per due motivi: il primo è che, dal loro punto di vista, per quanto un voto sia bello non lo è mai abbastanza; il secondo è che sono comunque talmente terrorizzati dall’idea di prendere un brutto voto, alla prossima interrogazione o verifica, che la soddisfazione e la gratificazione del buon risultato di ora durano, se durano, lo spazio di qualche secondo… e forse è più sollievo – per il brutto voto sventato – che reale appagamento…
Vorrei sottolineare che non si tratta di “capricci” o di isterismi da prime donne, la loro sofferenza è reale ed intensa. E lo è perchè sui voti questi ragazzi e queste ragazze misurano la loro intelligenza ed il loro valore personale. E’ per loro abbastanza scontato pensare che chi prende brutti voti (dal loro punto di vista lo è tutto ciò che è sotto l’8) è uno stupido e che, quindi, se vogliono capire se sono o meno intelligenti, è ai loro voti che devono chiedere il verdetto. Ed è altrettanto scontato per loro pensare che solo chi è intelligente vale, chi non lo è non vale nulla. Credo peraltro che queste credenze siano condivise in gran parte anche dal mondo degli adulti, altrimenti non se ne spiegherebbe la pervasività nei ragazzi.
Mi piacerebbe pensare che sia un’operazione superflua tentare di confutare queste idee, ma l’evidenza indica che non è proprio così, che forse è necessario ribadire e ripetere, affinchè le consapevolezze si possano consolidare.
Cominciamo dalla convinzione che il brutto voto sia frutto di stupidità. Immagino che chi legge abbia chiaro in mente che un brutto voto possa essere il frutto di scarso impegno, comprensione insufficiente, giornata storta (mal di testa, pancia, febbre…), preoccupazione ed ansia. Sì, perchè quando siamo molto preoccupati ed in ansia, la nostra mente è talmente sovraccarica di pensieri legati ai nostri timori, che non ha proprio lo spazio per elaborare efficacemente le consegne di un compito di matematica, o impostare la traduzione di una versione di greco, o costruire la scaletta di un testo di italiano. Ed allora accade che, nonostante un’ottima preparazione, il risultato della prova non sia eccellente. Cioè, può accadere che il timore di prendere un brutto voto generi una situazione di confusione mentale tale da generare proprio le condizioni per una prestazione scadente. Tra ciò che sappiamo e come lo dimostriamo, insomma, ci sono molte variabili, anche, ma non solo, di tipo emotivo.
Tuttavia, forse è venuto il momento di capire cosa sia questa stupidità. Mi si potrà rispondere che essere stupidi è l’opposto di essere intelligenti. Ma, anche accettando questa definizione per negazione, ci rimane da definire cosa sia l’intelligenza. Ed a questo punto avremmo bisogno di interi scaffali di biblioteche di psicologia, perchè è questo un tema su cui fin dagli albori della disciplina si è esercitata la riflessione degli studiosi. Io però non vorrei andare a ripescare la letteratura scientifica. Intanto vorrei cercare di capire cosa intendono i ragazzi, ed i loro genitori, con la parola intelligenza e poi mi riserverei di proporre un diverso punto di vista. Ho l’impressione che i ragazzi – in particolare quelli che temono i brutti voti – spesso pensino all’intelligenza come ad una sorta di app che possono avere o non avere nel loro sistema cognitivo e di cui emerge la presenza o l’assenza nei momenti delle verifiche e delle interrogazioni. Una sorta di dotazione di base che, o ce l’hai o non ce l’hai. Credo anche che spesso ereditino questa concezione dal mondo degli adulti che li circonda, mondo che tende ad enfatizzare, nella prestazione di atleti di eccellenza, ma anche di musicisti, attori, artisti, scienziati… il ruolo del talento a scapito di quelli della passione, dell’impegno, del duro lavoro e della perseveranza di fronte agli insuccessi (che sono i veri determinanti della prestazione eccellente).
Ricapitolando, fino ad ora, fra le nostre cause possibili per un fantomatico brutto voto, non abbiamo ancora rinvenuto la “stupidità”. Forse anche perchè, se ci fermiamo a pensare un attimo, ci rendiamo conto che le verifiche riguardano i contenuti di un insegnamento non le abilità delle persone. Ma procediamo con la nostra riflessione. Ribadisco, fino a qui possiamo dire che fra le cause di un brutto voto non sembra esserci la stupidità.
Ora, se i ragazzi partono dal presupposto che l’intelligenza sia una dotazione innata, è chiaro che vivono le verifiche come il momento in cui verrà sancito se sono stupidi o meno. Questo presupposto, però, non è vero: l’intelligenza non è una caratteristica “genetica” che alla nascita o c’è o non c’è, come gli occhi azzurri.
Dal mio punto di vista l’intelligenza è un qualcosa che ha molto a che fare con la capacità di imparare. Ritengo che questo un punto di vista sia utile almeno per un paio di ragioni. Innanzitutto ci permette di focalizzarci su qualcosa, l’imparare, di cui possiamo fare esperienza diretta ed inoltre, poiché è evidente che tutte le persone possono in generale imparare, ci permette di concepire l’incapacità di imparare, la stupidità, come un’eccezione alla regola, eccezione che deve essere spiegata di volta in volta da ragioni specifiche.
Ad esempio, sappiamo che esistono dei disturbi dell’apprendimento che hanno a che fare con la difficoltà specifica ad apprendere a svolgere alcune attività, come leggere o scrivere, ma non altre. Una persona con dislessia è in grado di imparare tantissime cose, è molto intelligente, ma fa molta fatica ad apprendere i meccanismi della lettura. Oppure sappiamo che gravi condizioni di denutrizione pregiudicano la capacità di imparare, perchè, in questo caso, sono proprio i meccanismi neurobiologici di base ad essere messi in difficoltà dalla mancanza dei nutrienti necessari al corretto funzionamento dei circuiti neuronali. Sappiamo anche che la nostra capacità di apprendere dipende tantissimo dalla nostra attenzione e sappiamo anche che quest’ultima viene molto influenzata dalle nostre emozioni. Per cui, banalmente, di fronte ad un medico che ci comunica una diagnosi, agitati come siamo, non riusciamo ad essere attenti e non memorizziamo bene ciò che ci dice.
Insomma ci siamo capiti: tutti possiamo imparare e, se a volte non ci riesce, la cosa interessante ed utile da fare è capire perchè, non pensare che siamo stupidi (=incapaci di imparare), perchè è evidente che non lo siamo (magari siamo dei maghi di Fortnight, o siamo in grado di suonare la Patetica di Behethoven senza spartito, o ancora ricordiamo perfettamente i compleanni di tutti i nostri amici). Allora, come adulti potremmo provare a trasmettere ai ragazzi la curiosità per i loro processi mentali piuttosto che dei giudizi sulla loro persona, l’entusiasmo per l’apprendere piuttosto che la paura dello sbagliare, e la serenità della consapevolezza che sì, sono in grado di imparare e quindi sì, sono intelligenti.
Un’ultima breve riflessione sul collegamento fra valore personale ed intelligenza.
Potete in parte intuire la mia linea argomentativa, immagino. Se con intelligenza intendiamo la dotazione di base che o c’è o non c’è, legare il valore personale all’intelligenza significa affermare che esistono persone che valgono e persone che non valgono. Legare, dall’altro lato, il valore personale all’intelligenza come capacità di apprendere significa, di fatto, affermare che tutte le persone hanno valore, ma apre alla possibilità che questo valore possa essere situazionalmente diminuito (come negli esempi fatti sopra), temporaneamente diminuito (come nei casi legati a patologie neurologiche reversibili o stati di shock) o definitivamente azzerato (come nei casi di gravi traumi cranici e demenze). Credo che la soluzione possa essere, semplicemente, pensare ed insegnare ai nostri ragazzi che come esseri umani il loro valore è assoluto e non risiede nella loro biologia, nella loro genetica, nella loro fisiologia o nella loro prestazione, ma nel loro essere persone, ai loro stessi occhi ed agli occhi delle altre persone.
Quanta intrepida attesa per il rientro a questa “normalità”, a quella quotidianità che ha sempre saputo scandire, con ordinaria costanza, le nostre giornate, i nostri impegni, i nostri appuntamenti di vita. Per quanto l’abbiamo aspettata, questa rassicurante quotidianità, dopo mesi e mesi di un lockdown che ha messo un freno ai quotidiani programmi in agenda, ai progetti futuri e a quelle banali ma fondamentali abitudini che sanno di conforto e ci danno la sensazione di avere il controllo delle cose, avere in mano la nostra vita!
Quella rassicurante quotidianità che per bambini e ragazzi significa alzarsi ogni mattina per andare a scuola, fare una colazione da campioni per tenere a bada stomaco ed energie fino all’ora della ricreazione, prendere il bus e tenere il posto all’amico o percorrere la strada in auto in compagnia delle solite raccomandazioni di mamma o papà; significa anche l’entusiasmo e la voglia di ritrovarsi fuori della scuola con amici e compagni e, perché no, anche meno amici e concorrenti, perché anche loro, in qualche modo, rientrano in quella significativa famiglia, la seconda famiglia, che dà senso di appartenenza ad un gruppo, comprensione e vicinanza; significa anche didattica: interrogazioni e verifiche che hanno sempre portato quel pizzico di sale e angoscia per delle prestazioni che poi finiscono sempre con un voto, un giudizio, un numero, capace di portare l’umore alle stelle o affondare nello sconforto. Rassicurante quotidianità per i nostri giovani significa anche responsabilità scandita a piccole dosi, e l’ottica di un futuro prossimo nel prepararsi vestiti e zaino per la curiosa aspettativa del giorno dopo.
Per i più grandi invece, la rassicurante quotidianità può significare un rientro al lavoro più pacifico e distante dal pensiero dei figli bloccati a casa; può significare più tempo libero per sé: dallo sport allo svago dello shopping, le uscite in famiglia e gli appuntamenti con gli amici; rassicurante quotidianità vuol dire anche riprendere il proprio ruolo professionale, tornare alle proprie competenze lavorative, con stress più o meno annesso, e a quella sensazione di padronanza che fa sentire vivi, attivi e intraprendenti; significa anche stipendio, possibilità economica e progetti, magari lasciati in sospeso.
Dopo lunghi mesi vissuti in balìa di un Virus, direttive e regolamenti ministeriali, ognuno si riprende i propri desideri, obiettivi, oneri e doveri. Ognuno si riappropria, pian piano, della propria libertà e della propria autonomia tornando ad essere protagonista attivo e proattivo verso il futuro. Quel futuro che era stato lasciato momentaneamente da parte perchè “con sto Virus non si può sapere”; quel futuro che era stato frenato improvvisamente perchè l’incertezza era all’ordine del giorno.
E’ da poco iniziata la scuola, siamo a due settimane dalla ripresa e ancora ci sono ragazzi che quest’anno la scuola non l’hanno ancora mai vista e che, dopo un lungo, lunghissimo periodo in cui anche le vacanze estive si sono mescolate alla penombra del lockdown, si sono trovati nuovamente di fronte allo schermo di un pc in attesa della videolezione o della chiamata del compagno di classe che riferisse i compiti assegnati.
Un flashback.
Un déjà-vu.
Ecco che allora espressioni come “Sono stufo. Non ho voglia di alzarmi. Voglio tornare a scuola e basta. Svegliarmi, prendere il bus e rompermi le scatole perchè non ci sono posti” diventano lecite di fronte all’aspettativa dell’entusiasmante rientro a quella rassicurante quotidianità a cui tutti siamo ancorati. Perché sì, nel marasma dell’incertezza, anche quelle piccole, seppur scomode, incertezze diventano abitudini significative e pilastri resistenti a cui appendersi in caso di oblio. Parlo di oblio perché è difficile pensare ad un panorama fiorito, per loro, in questo momento. E’ difficile immaginarlo per noi adulti, figuriamoci per chi, come loro, non riesce nemmeno ad immaginarsi in che direzione sia il futuro, né, tanto meno, che strada intraprendere. Così sogni e desideri, già annebbiati e insicuri in partenza, faticano sempre più a trovare conferma e un collocamento stabile in quel futuro che, chissà. E’ vero che sogni e desideri sono sempre stati, per definizione, concetti astratti in cui credere e sperare. Questa volta però, in questi anni a venire, manca l’ingrediente fondamentale: la motivazione. Si è motivati nel momento in cui si crede profondamente che la scelta fatta sia valida e piacevole e che l’obiettivo porti serenità e soddisfazione, nonostante ostacoli e difficoltà. Si è motivati nel momento i cui si crede nei propri sogni. E quando si crede fermamente nei propri sogni, si possono superare tutte le difficoltà.
Banalmente, è un pò come alzarsi dal letto la mattina per andare a scuola: non importa quali siano le difficoltà, trovare posto o meno nel bus, la voglia di andare a scuola, intraprendere e seguire un obiettivo, rimane ferma.
Non è facile crescere su queste basi poco sicure, crescere e maturare la propria individualità, soprattutto se il massimo dell’espressione, ora, è nascosto dietro mascherine, gel igienizzanti e distanziamento sociale. E’ una battaglia, non tanto contro la società o le Istituzioni, quanto piuttosto contro quel Sé ideale, quel vorrei essere che, già difficile da scovare e scoprire, non è facile inseguire poiché spesso si trova sconfinato in un profilo social, non riuscendo, nella vita reale, a trovare una sana e coesa manifestazione.
Ecco che allora quella rassicurante quotidianità ha profondamente deluso ogni aspettativa: oltre a non aver portato alcuna rassicurazione, ha aggiunto sconforto e disillusione per quel futuro già precario di per sé. Forse, essere troppo ancorati alle abitudini del passato con una legittima, ma disfunzionale, pretesa che l’adesso sia come il prima, ha deviato troppo il panorama che ci avrebbe aspettato.
Forse quindi, non ci sarà una rassicurante ripresa, ma sicuramente ci aspetta una nuova partenza che molto probabilmente non ha nulla a che vedere con le riprese degli anni passati, ma avrà un altro sapore mai provato prima, altre opportunità e altre rassicurazioni su cui potremo ri-adattare i nostri progetti futuri.
Quanto ai nostri ragazzi, in una società che ha perso molte certezze, hanno bisogno di un’àncora che li rassicuri e li aiuti ad intravedere la luce anche nel più tenebroso dei panorami; un’àncora che li protegga dai venti avversi per evitare che perdano di vista la strada, il loro obiettivo, le speranze dei loro sogni. Che ricordi loro chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Così, nel peggiore dei panorami, se anche molte cose intorno si sgretolano e crollano, loro, grazie a noi, figure di riferimento essenziali, sapranno imparare a stare a galla.
Finalmente le tanto attese e meritate vacanze! La tipica esclamazione che caratterizza l’avvicinarsi del periodo estivo. Quest’anno però non è proprio così, almeno per una gran parte di noi.
Vacanza vuol dire mollare tutto, abbandonare sedia e scrivania, accantonare carte e scartoffie e nascondere, più o meno forzatamente, l’agenda nel cassetto, per timore che la sua presenza in qualche modo rovini le ferie.
Vacanza vuol dire raggiungere un posto meraviglioso dal mare cristallino e assaporare l’aria marittima, la sfida di una scalata in montagna, il campeggio con i bambini o qualche tour in città. Per altri invece, vacanza vuol dire puro relax e la casa, o la baita in montagna, sono sempre i migliori congedi in cui riposare.
Ma, al di là di queste faccende pratiche, che cosa significa davvero andare in vacanza? Significa libertà, togliersi di dosso i pesi e le responsabilità che appesantiscono tutto l’anno e ripristinare il contatto con il proprio sé, le proprie passioni, con ciò di cui abbiamo bisogno, unico indispensabile e fondamentale ingrediente per poter stare bene.
Ma quest’anno, o meglio, questi mesi di un 2020 così tartassato e insicuro, le vacanze estive invece di risollevare gli animi rappresentano quasi una minaccia alla salute pubblica e un dilemma angosciante al dove vado che c’è il Covid dietro l’angolo?
Oggi, estate 2020, di cosa abbiamo veramente bisogno? E’ proprio quel mare cristallino o quella vetta di montagna che sopperirebbero al nostro bisogno di….. di?
Le vacanze quest’anno hanno un altro sapore, il sapore del timore di una pandemia mondiale, il sapore dell’insicurezza politica ed economica, dell’incertezza di poter tornare al proprio posto di lavoro e tra i cari vecchi banchi di scuola.
Che vacanze sono queste, in cui tanti lavoratori vivono con il dubbio sul futuro della propria azienda, che “Non so se quando rientrerò il Covid farà chiudere l’intera azienda” e dove i contratti a tempo determinato sono destinati a non essere rinnovati?
Ma soprattutto, che vacanze possono essere quelle dei nostri ragazzi che, concluso un anno scolastico confuso e caotico, non sanno nemmeno se tra i banchi di scuola ci torneranno? E, se ci torneranno, la scuola di sicuro non sarà più la stessa, forse nemmeno i banchi di scuola che hanno accompagnato generazioni e generazioni di studenti, che verranno sostituiti da rigide sedie in plastica scura con tavolozza annessa che non ammette spazio a nient’altro che un libro.
Appare nostalgica, e ora utopica, la concezione di vacanza che fino allo corso anno caratterizzava tutte le estati di ogni studente quando la sveglia termina di esistere, i compiti e lo studio vengono rimandati ad agosto (e forse anche un pò più in là) ma la cosa più importante e fondamentale è quell’attesissima e beata spensieratezza accompagnata dalle uscite e le scampagnate con gli amici.
“Mah, non hanno tanto senso queste vacanze perchè non mi è sembrato neanche di andare a scuola quest’anno”. Certo, perchè quest’anno la scuola è rimasta per troppo tempo in stand-by, c’era, ma non c’era. Le lezioni quest’anno non avevano sapore, come non hanno sapore queste vacanze in cui l’ingrediente fondamentale, le relazioni con amici e coetanei, vengono controllate e limitate a prova di mascherina. Vacanze scandite quotidianamente dagli interventi del TG o del ministro dell’istruzione che ogni mattina contribuiscono all’incertezza e alla confusione verso l’imminente futuro, il 14 settembre per l’appunto. Sentimenti di delusione e angoscia che minacciano di polverizzare i piccoli grandi progetti che ogni ragazzo persegue da tempo: iscriversi alla facoltà di Lettere o Medicina, studiare all’estero, il test d’ingresso, l’esame per la patente, l’acquisto dello scooter, la vacanza dai parenti lontani, ecc ecc. Progetti che, per quanto poco, danno senso e forma al futuro dei nostri piccoli grandi ragazzi che si stanno affacciando proprio ora alla vita del futuro e che ora rischiano di vedersi costretti a cambiare rotta e seguire la scia del vento.
Quindi, i nostri giovani come possono godersi queste vacanze quando anche un innocuo raffreddore si trasforma in una minaccia alla salute pubblica e un lieve mal di gola il preludio ad un’angosciante quarantena?
E’ vietato ammalarsi anche perchè, se per sbaglio scappa uno starnuto al supermercato, scatta la gara a chi sta più lontano dal malato con sguardi infami e terrorizzati che chi se li toglie più, poi.
Sono vietati gli assembramenti. Ma cosa significa assembramento, nel mondo dei giovani e degli adolescenti? Quali sono i limiti di vicinanza fisica spiegata a quei quindicenni che costruiscono la loro quotidianità, il loro essere e la loro vita proprio grazie al contatto fisico (che per loro non è solo fisico ma anche mentale, affettivo ed emotivo)? Come si spiega ai nostri ragazzi che la mascherina è obbligatoria quando spesso noi adulti, sbadatamente o meno, siamo i primi ad entrare nei locali senza la mascherina?
Sarebbe una punizione troppo crudele quella del “non uscire alle feste con i tuoi amici perchè sennò si creano assembramenti” Che cos’è esattamente un assembramento? Un gruppo di 5 persone può definirsi tale? Si può uscire sì, ma non troppo vicini? Quali alternative ci sono che possono, realmente e concretamente, rispettare le indicazioni dell’OMS? E’ difficile capirlo per noi adulti (oppure forse nonvogliamo capire?) figuriamoci insegnarlo a loro, in un mondo di confusione e incertezza fuori (il nostro), un mondo di caos e insicurezze dentro (il loro) e scariche di ormoni impazziti.
Ma molto spesso ad attenersi diligentemente alle indicazioni sono proprio i nostri adolescenti, che sembrano schierati tra chi, la questione del Covid-19, la prende sul serio e chi invece ritiene il virus un’entità poco probabile e lontana dal rischio. Comportamenti leciti da un certo punto di vista, d’altronde non desideriamo altro che questa pandemia se ne vada al più presto, mascherine e igienizzanti compresi. Indossare la mascherina non è più la novità del momento, l’estrosità di casalinghe impegnate a cucire pezzi di stoffa unici e colorati; indossare la mascherina ora significa ricordare a noi stessi che il virus esiste ancora, che non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia e che il pericolo è sempre dietro l’angolo. Spesso forse, dimenticarla o non indossarla non è solo pura dimenticanza.
Quello che si prospetta sarà per tutti l’inizio di un nuovo corso, scandito da numeri e regole, tra l’ansia di un nuovo lockdown e la speranza di una nuova ripresa. Saremo diversi, come saranno diverse le nostre, nuove, abitudini, diverse prospettive e le garanzie del futuro, la consapevolezza di noi stessi e di quel che abbiamo vissuto fin’ora, chi più e chi meno.
Ma i veri protagonisti ora sono loro, quei giovani che fino a qualche mese fa sognavano di iscriversi a Lettere e diventare insegnanti e ora deviano i binari verso la facoltà di Medicina o Infermieristica oppure un corso OSS per aiutare la fascia più debole. Sono loro al primo posto dell’incertezza di settembre, a cavalcioni su un equilibrio precario tra il devo e il vorrei, che si trovano a fare i conti con un futuro incerto e poco promettente già in partenza. Penso che gran parte del supporto e del sostegno vada proprio a loro, alla loro speranza del costruirsi e del costruire un futuro che possano meritarsi.
«Era l’estate del 2014 quando ho letto un’inchiesta sulla Arthur G. Dozier School. Era una storia della quale si era scritto molto, soprattutto sui quotidiani della Florida settentrionale, ma questa era la prima volta che ne sentivo parlare. Stavano riaprendo le tombe senza nome per cercare di capire chi vi fosse sepolto. Leggendo le storie dei sopravvissuti, soprattutto bianchi anche se la maggior parte degli studenti in quella scuola era afroamericana, mi sono chiesto che tipo di storia avrei potuto ricavare dalla parte nera del college. Ho scelto di fare iniziare il libro nel 1963 perché era il culmine delle leggi Jim Crow e della segregazione e discriminazione nel Sud, ma era anche il momento in cui i movimenti per i diritti civili stavano acquistando forza», racconta lo scrittore Colson Whitehead ad Alessandra Tedesco che lo intervista per il Sole24ore.
La Arthur G. Dozier School (vedi ad esempio qui) era una “scuola di correzione” alla quale venivano mandati i ragazzi, bianchi o neri, che avevano guai con la legge o con i servizi sociali. Ed è a questa sorta di inferno in terra che Whitehead si ispira per trarne una storia intensa e straziante, che scrive con una maestria che gli vale il suo secondo Pulitzer per la fiction e che ammalia noi lettori che, una volta aperto il libro, non riusciamo a chiuderlo più, fino alla sua fine.
La narrazione si concentra attorno alle figure di due ragazzi: Elwood Curtis, ragazzo nero che aspira a frequentare il college grazie alle sue capacità ed alla sua determinazione, e Turner, già ospite della Nickel (questo è il nome dell’istituto di correzione del romanzo) quando Elwood vi viene mandato. Sì, perché Elwood ha la sfortuna di accettare un passaggio in un’auto rubata che verrà fermata dalla polizia e quindi, pur essendo assolutamente estraneo al furto, verrà considerato complice del ladro.
Elwood affronta quell’inferno di crudeltà e violenza con la dirittura etica e morale che gli è propria e che in lui trova forza e legittimazione grazie allo studio dei discorsi di Martin Luther King, discorsi che Elwood ascoltava grazie al giradischi della nonna: “Non possedevano un televisore, ma i discorsi del Dottor King erano una cronaca così vivida – contenente tutto ciò che i neri erano stati e sarebbero diventati – che quel disco era quasi interessante quanto la TV. forse addirittura migliore, più maestoso, come l’imponente schermo del Davis Drive-In, dove Elwood era stato due volte. Gli mostrava tutto: gli africani perseguitati dal peccato bianco della schiavitù, i neri umiliati e tenuti sottomessi con la segregazione, e quella luminosa immagine del futuro quando tutti i luoghi chiusi alla sua razza sarebbero stati aperti.”
“Elwood si atteneva ad un codice, e il Dottor King dava a quel codice forma, espressione e significato.”
“Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.”
Martin Luther King
La Nickel cerca in tutti i modi di piegare Elwood, di azzerare la sua speranza, la sua fede nel bene, ma non ci riesce. Eppure non ci può essere lieto fine in quel mondo. L’epilogo però è narrativamente magistrale e non si può proprio parlarne per non rovinarlo: deve essere letto, parola dopo parola.
Dopo L’età dei sogni, Come Teen&20 proponiamo I ragazzi della Nickel come lettura per ragazzi ed adulti non solo perché tratta di un tema a noi caro, quello delle discriminazioni razziali, e non solo perché si tratta di un libro meraviglioso dal punto di vista letterario, ma anche perché è una storia che parla di relazioni e con chiarezza indica la differenza fra le relazioni di oppressione, caratterizzate dall’uso del potere, della violenza e della paura e le relazioni vere, quelle dove le persone si guardano negli occhi e si riconoscono, si rispettano, si stimano e sono disposte a rischiare l’una per l’altra e per il valore che ha per loro la loro stessa relazione.
Ma è anche un libro che parla di come si possa resistere all’esercizio del potere e di come non ci siano scusanti alla responsabilità individuale, anche all’interno di sistemi ed organizzazioni violenti ed opprimenti.
Naturalmente Whitehead, nero americano, ha in mente la società statunitense quando scrive, ad Alessandra Tedesco dichiara infatti: “L’America è estremamente razzista. Chi non ha votato Obama alle ultime elezioni è stato contento di aver portato un razzista, misogino e demagogo alla Casa Bianca e tutta questa gente odiosa stava solo aspettando qualcuno che desse loro il permesso di agire. Ora i crimini di odio, i crimini razzisti e gli episodi di antisemitismo sono cresciuti rispetto a prima. Trump ha permesso alla gente di tirare fuori il peggio di sé, allo stesso modo in cui lui ha concesso a sé stesso di esprimere il peggio di sé”.
L’episodio recente di Beatrice Ion, di cui anche noi abbiamo parlato in un recente articolo, così come infiniti altri che accadono ogni giorno nel nostro paese, ci dice che non possiamo dichiararci esenti e che non dobbiamo mai smettere di tenere aperto questo file, per noi e per i nostri ragazzi.
di Francesca Del Rizzo in collaborazione con “Due lettrici quasi perfette”
L’omicidio di George Floyd e il movimento Black Lives Matter ci stanno facendo riflettere – perché davvero non è mai abbastanza – sulla persistenza di pensieri, atteggiamenti, comportamenti, delitti razzisti anche in questo XXI secolo di ipermodernità.
In molte occasioni su questo sito abbiamo avuto modo di illustrare atteggiamenti discriminatori nei confronti, in particolare, delle persone con orientamento non-eterosessuale. Ora è venuto il momento di rivolgere il nostro sguardo al problema della discriminazione razziale, almeno cominciamo e almeno ci proviamo. E proviamo a farlo grazie alla collaborazione di Lea e Stefi, le nostre due amiche autrici del blog “Due lettrici quasi perfette”.
Instancabili lettrici e persone attente e competenti, raccolgono nel loro blog una quantità importante di recensioni fra cui abbiamo trovato particolarmente interessante in questo momento quella che riguarda il libro L’età dei sogni di Annelise Heurtier, un libro adatto anche per adolescenti che anche di adolescenti racconta.
Esso si ispira infatti a ciò che è accaduto nel 1957 ai “nove di Little Rock”, i nove ragazzi neri che per primi furono ammessi al liceo pubblico – bianco – di Little Rock in virtù dei loro meriti scolastici. Per far rispettare il loro diritto ad entrare a scuola il presidente Eisenhower dovette inviare l’esercito, ma, nonostante questa protezione, i ragazzi e le loro famiglie continuarono ad essere oggetto di aggressioni e discriminazioni. Trovate qui un articolo che racconta questa storia e che può essere fonte di ulteriori informazioni, oltre che di documentazione fotografica.
Questa è la trama del libro: Settembre 1957, Grace e Molly hanno 15 anni e sono alla vigilia di un anno scolastico importante. La prima è la reginetta della scuola, con una famiglia benestante alle spalle e gli amici che l’adorano; la seconda è tra i nove studenti neri ammessi per la prima volta nella storia degli Stati Uniti a frequentare un liceo di bianchi. Entrambe hanno qualcosa da imparare l’una dall’altra: Grace dovrà superare le barriere del conformismo e cominciare a pensare con la propria testa, Molly dovrà accettare la mano tesa da parte di chi pensava provasse solo odio nei suoi confronti.
La figura di Molly è proprio ispirata a quella di Melba Pattillo, una delle ragazze nere dei nove di Little Rock. Lea ci racconta che Molly “si trova ad accettare quell’anno in un liceo di bianchi senza stare troppo a rifletterci, ma quella decisione stravolgerà per sempre la sua vita. Pagherà il prezzo che viene richiesto a tutti quelli che hanno il coraggio di aprire la pista e spianare la strada agli altri. E’ un cammino di solitudine, senza vera riconoscenza da parte di nessuno. Alla fine è così che funziona: c’è chi sacrifica e quello che ne riceve in cambio, nel caso più fortunato, è l’ indifferenza.”
La figura di Grace rappresenta invece l’opposto di Molly: è la classica “reginetta della scuola. A lei interessano i vestiti e i ragazzi (uno in particolare) e per nulla le questioni inerenti la razza”. Succede però che “Assistere a tutte le umiliazioni a cui è soggetta giornalmente Mary, porta Grace a farsi delle domande, a chiedersi perché le cose debbano andare in quel modo. All’inizio è solo un interrogarsi, un fastidio indistinto che a poco a poco la porta ad una presa di posizione. Le conseguenze non tarderanno ad arrivare. Il libro non ci risparmia la sofferenza che nasce dall’assistere a queste gravi ingiustizie e infligge al lettore una grande, grandissima amarezza, appena mitigata dalla speranza. L’autrice è riuscita a scrivere un romanzo potente, senza sbavature, mai moralista o didascalico.”
Immergersi nella Storia, anche recente, attraverso le storie delle persone che l’hanno fatta o attraversata – anche quando sono figure solo ispirate ai protagonisti reali – ci permette di partecipare a ciò che è stato, di sentirne il peso, perché ci identifichiamo con quelle persone, arriviamo a viverne le emozioni, le fatiche, le paure e le speranze. Facciamo esperienza con loro, ed i grandi Eventi non sono più solo una pagina di Wikipedia o “qualcosa di cui ho sentito parlare”, ma possono diventare parte di noi, parte del nostro patrimonio di vita.
Possiamo così conoscere e sentire vicino e prossimo, ciò che sembra lontano e distante. La discriminazione, in tutte le sue forme, è frutto di mancanza di conoscenza che genera paura che genera distanza che genera mancanza di conoscenza in un circolo vizioso e perverso.
Noi di Teen&20 ringraziamo Lea per questa recensione che ci introduce ad uno strumento utile a ricucire la distanza ed invitiamo tutti coloro che ci leggono a fare propria anche la storia di Molly e Grace. A conoscere, non temere, avvicinare.
Scriveva così Antonello Venditti nel 1984 quando ancora la notte prima degli esami era fatta di serate con amici, una pizza con i compagni di classe tra grandi risate e qualche beffa ai professori, ma anche lunghi pianti, prime follie d’amore e, per alcuni, l’ultima sfida scolastica.
Notti insonni in preda all’ansia e all’immaginazione che non smetteva di pensare all’ultimo giorno di scuola, ai banchi occupati da quei compagni di scuola che forse mai, come in quel momento, rappresentavano solidi pilastri di un’identità collettiva e unita, elementi di conforto di un vissuto che, in quei giorni prima degli esami, solo loro avrebbero potuto capire: la maturità. O meglio, l’attesa per la maturità. Sì, perché la maturità mica arriva con la prova di italiano o di matematica, né tantomeno all’esame orale; anche perché insomma, agli esami ci si abitua prima o poi. E’ ciò che la maturità nasconde implicitamente che angoscia più di tutto: la maturità quella vera, quella che arriva quando non sai che arriva. Ma la senti perchè è lì, lì dietro l’angolo ad aspettarti. E sai che, da quel momento, tutto cambia. Tutto cambia: la scuola lascia spazio all’università o per altri al lavoro, i compagni di classe chissà, ognuno prende la propria strada, amori che vanno e amori che vengono, mamma e papà pronti a consegnare “le chiavi” per l’autonomia, responsabilità che aumentano, insomma: si diventa grandi. Volenti o nolenti, è ora di crescere. Tutto cambia e l’angoscia del futuro sale alle stelle.
Ecco che, nella notte prima degli esami, il pensiero di rivedere per l’ultima volta i propri compagni di banco all’interno di quella classe che, come un’amica fedele, ha saputo contenere per anni gioie e dolori, la mamma e il suo abbraccio di conforto, il papà e la mano sulla spalla, diventano cure di sollievo, fondamenti sui quali costruire la propria identità, il proprio futuro, la propria vita.
Ma non siamo nel 1984, siamo nel 2020 e l’immagine che salta in mente se pensiamo a esami di stato 2020 è, più o meno, questa:
con un grande punto di domanda. Seguito dall’ordinanza del Miur (O.M. del 16 maggio 2020) che cita:
Esami del primo ciclo: L’esame di Stato delle studentesse e degli studenti coincide, quest’anno, con la valutazione finale da parte del Consiglio di Classe e terrà conto anche di un elaborato prodotto dall’alunno, su un argomento concordato con gli insegnanti.
Esami del secondo ciclo: Gli Esami del secondo ciclo avranno inizio il 17 giugno alle ore 8.30. Previsto, per quest’anno, il solo colloquio orale. I crediti e il voto finale si baseranno sul percorso realmente fatto dagli studenti.
Il Covid-19 ha destabilizzato tutto, ha anticipato senza alcun preavviso quel tutto cambia angosciantegià di per sé. Nessuno era pronto e nessuno si sarebbe aspettato un colpo di scena così drastico.
I nostri ragazzi e i nostri nuovi maturandi si prestano a lanciarsi in una nuova missione verso un territorio da mesi abbandonato e rivisitato in vesti diverse: non più l’ennesimo ritrovo tra compagni e professori, la lotta del prendersi i posti migliori tra i banchi e la forte sensazione di condividere insieme un’esperienza collettiva unica, ma un ritrovarsi con i professori allineati dietro dei banchi resi insipidi dal disinfettante e una mascherina che non lascia trasparire nemmeno l’accenno ad un sorriso amichevole di un rassicurante tranquillo, andrà tutto bene. E’ una maturità insolita che non ha dato la possibilità o meglio, l’opportunità, di vivere quell’esperienza unica, tra ansia e adrenalina, che ha contagiato i maturandi degli anni passati. Il lockdown ha impedito i momenti, forse più significativi, che colorano l’immaginario degli adolescenti in questo momento di crescita difficile e delicato: l’ultima gita scolastica, l’ultima settimana di scuola appesantita dalle interrogazioni di recupero ma alleggerita dal calore del sole di giugno che apre le porte all’estate, agli ultimi giorni di autogestione, al suono dell’ultima campanella, agli ultimi scambi di sguardi celati e agli ultimi baci segreti durante la ricreazione, fanno il saldo di tutte quelle esperienze d’oro che per mesi hanno fantasticato e sognato all’interno delle loro stanze, tra videochiamate e social network. Hanno fatto i conti con loro stessi, con ciò che vorrebbero e non vorrebbero, con ciò che avrebbero fatto appena usciti dal lockdown, una considerazione su qualche amicizia persa e per alcuni un maggiore apprezzamento all’ambiente di casa.
La scuola non rappresenta più solo il luogo in cui imparare e sperimentare il successo scolastico e prestazionale, ma è diventata il luogo in cui più di ogni altro, si lotta alla valorizzazione e al successo personale e affettivo. E’ diventata una seconda casa in cui ognuno investe in tante relazioni affettive e, come succede a casa, se queste relazioni sono sane e positive allora favoriranno maggiormente partecipazione e apprendimento; al contrario, se queste relazioni dovessero rivelarsi mendaci e deludenti, allora tutto il palco crolla: ascolto, partecipazione, apprendimento, relazioni e, di conseguenza, valorizzazione personale.
Un momento in cui, per gli adolescenti del giorno d’oggi la ricerca al rispecchiamento (condivisione di sentimenti ed emozioni), all’essere cioè riconosciuti, ammirati e valorizzati si rivolge prevalentemente nella cerchia dei coetanei che molto spesso vengono percepiti, a scapito degli adulti, più competenti nel riconoscere e valorizzare le loro modalità espressive e creative (Matteo Lancini, Adolescenti navigati).
L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha letteralmente sradicato i nostri ragazzi fuori del loro habitat naturale (la scuola, le piazze, il cinema o qualche centro commerciale) impedendogli vicinanze, fisiche ed emotive, fondamentali per la crescita, la costruzione della loro identità, per quel famoso diventare grandi che la prova di maturità, questa maturità ancor di più, sembra imporre.
Penso principalmente ai maturandi o coloro che dovranno salutare la loro scuola per affrontare, a settembre, il critico passaggio alle scuole medie o ancor più determinante, all’università o al lavoro. In questo momento in cui l’incertezza regna sovrana, trovare un luogo di attracco quanto più sicuro e fermo non è per niente semplice. “Sto cambiando io, stanno cambiando le mie idee, sta cambiando il mondo là fuori e non c‘è niente di fermo.”
Con i test di ammissione e gli open day delle università rimandati, è diventato ancora più difficile prendere decisioni; e l’insicurezza del futuro, di questo futuro post Covid-19, porterebbe anche lo studente più deciso e convinto a mettere in discussione le proprie priorità e le proprie scelte. D’altronde come può un adolescente che sta crescendo e cambiando, vedersi proiettato verso una realtà che sta cambiando a sua volta? Come è possibile pensare ai prossimi mesi, o per i più caparbi al prossimo anno,quando oggi non sappiamo nemmeno se programmare le ferie delle prossime settimane? Beh, una cosa è certa: potranno raccontare ai loro nipoti di essere stati dei veri e propri sopravvissuti ad una delle più grandi epidemie mondiali degli ultimi secoli, ma soprattutto, potranno vantare l’onore di aver affrontato una delle più grandi sfide personali.
Questa settimana si è celebrato l’anniversario della nascita di Don Milani (27 maggio) e questa ricorrenza mi ha fatto riflettere: mi sono chiesta cosa avrebbe pensato lui della didattica a distanza di questi giorni, lui che faceva lezione all’aria aperta, lui che aveva con i suoi alunni un rapporto di prossimità, ancor più che di vicinanza. Sono certa che si sarebbe inventato qualcosa di bellissimo ed entusiasmante, per poter conservare la vicinanza nella sicurezza. Certo, non so se glielo avrebbero lasciato fare… ma sicuramente lui ci avrebbe provato ed avrebbe perseverato.
Perché amava educare ed amava i suoi ragazzi, tutti.
Io ho invece l’impressione che, nella scuola di oggi, come in quella di ieri del resto, forse, non tutti gli insegnanti amino sempre tutti i loro studenti. Alcuni tendono a valorizzare e gratificare quelli che seguono percorsi lineari, che lavorano, si impegnano ed ottengono bei risultati, mentre tendono a svalutare, svilire, a volte umiliare chi invece sembra fare più fatica, magari si impegna poco ed ottiene risultati insufficienti o al limite. Credo che sia naturale, da un certo punto di vista. Insegnare non è per nulla una professione facile ed un insegnante può vivere il disimpegno di uno studente, il suo palese disinteresse per la materia e per i compiti, il suo scarso apprendimento come una sorta di insulto personale, mentre i risultati e l’abnegazione dell’allievo studioso lo gratificano e ripagano di tanta fatica.
Naturalmente non intendo assolutamente suggerire che agli studenti “bravi” non debba essere riconosciuto il lavoro che fanno, anzi probabilmente dovremmo riflettere – e non escludo che ci proverò – su come farlo in maniera davvero costruttiva, forse, però, un pensiero diverso su quelli che “non hanno voglia” potremmo articolarlo proprio ora, anche in memoria dei percorsi tortuosi dei ragazzi di don Milani.
Ho letto recentemente un libro che una persona che stimo mi ha prestato e che consiglio a tutti, senza distinzioni di età o di preferenze letterarie: è un libro che val la pena leggere. Si tratta di Bianco come Dio di Nicolò Govoni.
L’obiettivo di Nicolò nel libro non è raccontare il suo percorso scolastico, tuttavia a tratti egli ci parla di un’adolescenza difficile, caratterizzata da colpi di testa e da un difficile rapporto con il padre e con la scuola ed i suoi insegnanti. Alla fine delle superiori Nicolò, a diciotto anni, si sente vuoto: “Mi era stato detto che non valevo nulla così tante volte che avevo finito per crederci”.
Ed è proprio così che capita anche a molti ragazzi che io conosco in studio: è stato detto loro che non sono capaci, che non sono in grado di fare niente di buono, che non hanno combinato nulla nella vita (appunto, a 15, 16, 17, 18 anni…) così tante volte che queste sentenze sono diventate la definizione che loro stessi danno di sé.
Queste parole sono state dette da “adulti” (non solo insegnanti, certo, anche genitori, allenatori… ) che non hanno saputo fare qualcosa di diverso dal giudicare la persona sulla base di un comportamento, o una serie di comportamenti, senza mai chiedersi davvero: perché? Senza mai provare a guardare il mondo con gli occhi di quei ragazzi o di quelle ragazze (perché, intendiamoci, spiegare il comportamento di un ragazzo che non studia dicendo che non ha voglia di studiare mi sembra vagamente tautologico). Forse varrebbe la pena di chiedersi: e perché non ha voglia di studiare? Magari perché, con il passare degli anni, e delle parole degli adulti, si è convinto che non ha senso provarci, visto che tanto non può riuscirci… oppure perché è talmente impegnato a combattere i demoni dentro di sé che non ha energie o risorse da investire negli apprendimenti… o ancora perché ormai l’unico ruolo in cui si sente riconosciuto è quello del deviante. Le ragioni possono essere tante quante sono i ragazzi, ma, appunto, sono ragioni: c’è sempre un perché e concedersi di comprendere quel perché apre a mondi personali in cui anche le scelte apparentemente più sbagliate appaiono ragionevoli…
Le sentenze che gli adulti emettono con tanta, troppa leggerezza segnano i ragazzi e le ragazze, li inchiodano ad una versione temporanea e affaticata di loro stessi, e troppo spesso finiscono per stabilire e tracciare il loro futuro.
Nicolò si è ribellato a queste definizioni, ha scelto di abbandonare l’Italia e di andare a fare un periodo di volontariato in un orfanotrofio in India. Lì, fra molte altre cose, si è dedicato all’appoggio ai ragazzi dell’orfanotrofio nello svolgimento dei loro compiti scolastici. In un passaggio scrive:
“Dopo tre anni, i ragazzi parlano un inglese eccellente. Sono i primi della loro classe. […] Sono così orgoglioso dei loro progressi da stentare a credere di esserne stato in qualche parte il fautore. Stando con loro ho imparato qualcosa di fondamentale: un bambino crescendo si rivela sempre all’altezza delle tue aspettative. Se lo consideri un buono a nulla, ti crederà sulla parola e non andrà da nessuna parte. Se invece hai fiducia in lui, non c’è nulla che non possa ottenere. Non ho mai creduto nei miracoli, ma se assistere allo spettacolo di un bambino che impara qualcosa di nuovo non lo è, non so cos’altro possa esserlo.”
Ora Nicolò Govoni, ragazzo del 1993 cui gli insegnati avevano predetto che non avrebbe mai combinato nulla nella vita, è un giovane uomo la cui ultima, ma non unica, impresa è stata costruire, nell’isola di Samos, sostanzialmente dal nulla e con donazioni solo di privati, una scuola per bambini rifugiati sfuggiti alla guerra:
“Oggi, oltre 150 bambini e adolescenti imparano e vivono nello spazio più sicuro, adatto e, lasciatemelo dire, bello dell’isola. Oggi cento minori altamente vulnerabili hanno la scuola che meritano, la scuola che era stata loro negata, la scuola per cui sono sopravvissuti a una guerra e attraversato mari e monti, la scuola che offre loro un’alternativa alla prigione in cui vivono. Questa è Mazì—Insieme.”
Mazì è un progetto che mi sembra molto simile alla scuola di Barbiana di Don Milani: un luogo dove gli adulti educano i piccoli e li accompagnano con amore e comprensione nei percorsi tortuosi cui la vita li costringe affinché possano liberarsi dalle sentenze definitive emesse da mondi violenti ed ingiusti e, come dice Nicolò, possano costruire, per sé e per gli altri, “la migliore versione di se stessi”.