L’omofobia interiorizzata

di Rosa Olga Nardelli

C’è un fenomeno strano che riguarda le persone che sono abituate ad essere prese in giro, etichettate, discriminate: ad un certo punto iniziano a pensare che ciò che si dice di loro sia vero. Talmente vero che iniziano a crederci, a fare in modo che tutti ci credano, a fare in modo di cambiare per evitare di essere ancora sottoposti a quella tortura.

È un fenomeno molto comune tra le persone LGBT e in letteratura è stato utilizzato il termine di omofobia interiorizzata.

Definiamo: per omofobia interiorizzata si intende l’adesione più o meno consapevole da parte di persone omosessuali ai pregiudizi e agli atteggiamenti discriminatori di cui essi stessi sono vittime. In sostanza, deriva dall’accettazione passiva di tutti i sentimenti negativi, i comportamenti, le opinioni, i pregiudizi tipici della cultura omofoba. L’omofobia interiorizzata è in grado di condizionare notevolmente il funzionamento psicologico di persone gay e lesbiche, arrivando fino a voler negare e contrastare la propria omosessualità, o addirittura a nutrire sentimenti negativi nei confronti di altre persone omosessuali.

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Nei suoi studi, lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi (2014) individua le precise caratteristiche associate all’omofobia interiorizzata:

  • scarsa accettazione di sé, che può arrivare all’odio di sé,
  • sentimenti di incertezza, inferiorità e vergogna,
  • incapacità di comunicare agli altri la propria omosessualità,
  • convinzione di essere rifiutati a causa del proprio orientamento,
  • identificazione con gli stereotipi denigratori.

Anche il bullismo omofobico fa leva sull’omofobia interiorizzata della vittima. Un ragazzo omosessuale che prova vergogna, senso di colpa, forte ansia e fatica ad accettare serenamente il proprio orientamento sessuale, può essere una facile vittima di bullismo omofobico. Quel ragazzo, infatti, potrebbe non avere il coraggio di denunciare i propri aggressori, non solo per paura di ripercussioni, ma anche per evitare di mettere ancora di più al centro dell’attenzione pubblica la propria omosessualità, vera o presunta, la propria diversità.

Allargando il nostro campo, possiamo dire che l’omofobia interiorizzata non è un concetto a sé stante ma, assieme allo stigma percepito (la sensazione di essere percepiti come omosessuali, e quindi di essere socialmente rifiutati), fa parte del concetto più ampio di minority stress, ovvero l’insieme dei disagi che si provano per il fatto di appartenere ad una minoranza.

Il pregiudizio e la discriminazione sono una grossa fonte di stress per le persone LGBT, e i fatti di cronaca ci hanno abituati a confrontarci con episodi talvolta molto violenti e traumatici. In un certo senso, si può infatti affermare che l’omofobia gode di una maggiore accettazione sociale rispetto ad altre forme di discriminazione e razzismo. Le persone omosessuali, a differenza di altre minoranze (es. etniche, religiose, etc.), non sempre possono contare sul sostegno sociale e familiare: accade sempre più di frequente che gli episodi di omofobia avvengano in casa, oppure vengano appoggiate dai familiari stessi, che colludono con quella violenza e ne sono altrettanto responsabili.

Cosa può fare un adulto per contrastare il fenomeno dell’omofobia interiorizzata?

La prima cosa da fare, sicuramente, è ascoltare. Poi parlare, e infine ascoltare ancora.

Innanzitutto proviamo ad ascoltare di più riguardo a questi temi: informarsi e conoscere è il modo più immediato per uscire dal pregiudizio. Ascoltare opinioni autorevoli a riguardo, imparare concetti e termini nuovi, sapere cos’è l’identità sessuale e come si forma, ci aiuta a capire bene di cosa si sta parlando, fa ordine nella confusione nostra e dei nostri ragazzi. 

Poi parliamo di questi temi: a cena, nei viaggi in macchina, durante il pranzo di Pasqua o di Ferragosto, la sera sul divano. In questo modo prendiamo dimestichezza noi con l’argomento, ma anche i nostri figli si abituano ad un dialogo più aperto e comprensivo. Non sempre serve che loro siano presenti: parliamone anche semplicemente con i nostri compagni, mariti, mogli, genitori, amici, così da contagiare anche gli altri.

Infine, torniamo ad ascoltare i ragazzi, disponendoci diversamente ad un ascolto più attento e concentrato su di loro. Cosa ci portano? Quali sono le loro preoccupazioni? Di cosa vogliono parlare con noi? Di cosa non riescono a parlare con gli altri? C’è qualcosa per la quale provano vergogna?

Solo se noi, gli adulti di oggi, saremo aperti al dialogo e al confronto potremo “coltivare” degli adulti consapevoli e privi di pregiudizi. 

Di adolescenza, sport ed amicizia

di Piero della Putta*

Parlare dell’adolescenza è quanto di più difficile si possa chiedere ad una persona.

Delle età evolutive è quella più ardua da affrontare: apparentemente sempre in salita, è ricca di contrasti, di mutamenti, di tempeste ormonali che collegano il periodo della fanciullezza a quello dell’età adulta.

Parlare della mia, di adolescenza, mi riesce ancora più difficile: farlo in chiave sportiva aiuta, e non poco. E’ difficile farlo perché di essa ricordo tante aspettative, proiettatemi addosso non da due genitori straordinari, nella loro semplicità e bontà, ma da un contesto sociale, da una bolla nella quale ognuno di noi vive e deve affermarsi. Deve, poi. Non ho capito perché, ma nemmeno io sfuggivo a questa regola, quella di volere e dovere piacere, dovere e volere ritagliarsi un ruolo, di dovere e volere non deludere chi ci stava accanto.

Non ero quello che avrei voluto essere, come tutti gli adolescenti. E mi vedevo, in questo mio non esserlo, molto peggio di quanto fossi. Ecco perché, in un periodi di grandi riflessioni, di amare constatazioni, fare leva sullo sport è stato fondamentale. Non che fossi un campione, sia chiaro: come amo dire spesso, a quattordici anni ho compreso che non avrei giocato nell’NBA, a sedici ho intuito che non avrei vestito la maglia della nazionale, a diciassette ho rinunciato alla serie A, e lentamente a tutte le categorie sino all’attuale C2, nella quale ho giocato a sprazzi. Poco conta il livello, per me contava la passione che mi ha fatto consumare il gesso giocando nel cortile dell’oratorio cittadino di San Giorgio.

Pallacanestro, dicevamo, sport che ho scelto dopo aver lentamente abbandonato il tennistavolo, dove peraltro avevo raccolto risultati interessanti. Ma i risultati non possono e non devono esser tutto, sono solo il logico raccolto di un percorso faticoso, e spesso non direttamente proporzionale a un fattore sopravvalutato ma essenziale quale l’impegno. Già, perché – e questa convinzione la debbo ai miei tormenti e alle mie riflessioni adolescenziali – impegno e divertimento non possono essere il fine di un atleta. Non lo possono essere non perché non siano importanti, ma perché dovrebbero essere scontati.

Ed è proprio in virtù di ciò che posso dire di aver vissuto, da sportivo, una adolescenza felice. Perché in un gruppo – e qui ritorniamo al riconoscimento, al ruolo, all’affermazione che sono riuscito ad ottenere – spesso il talento non conta se non è affiancato da questi due fattori. Come il bambino passa la palla solo al più bravo ed al suo migliore amico, il gruppo riconosce le capacità, ma anche quelle cose che gli stolti non vedono. La parola giusta per il compagno in difficoltà, l’esserci, lo sbucciarsi le ginocchia per recuperare un pallone fanno la differenza. E qui – vado avanti e indietro, mescolo le cose – torniamo all’esempio dei miei genitori. Non diventare il migliore, ma impégnati per fare le cose al tuo meglio: non so se me lo abbiano detto o fatto comprendere con l’esempio di persone semplici, che non finirò mai di ringraziare.

Come non finirò di ringraziare lo sport, che mi ha regalato quanto di più prezioso ho, i miei migliori amici. Grazie a loro sono passato attraverso mille delusioni, cadendo ma sapendomi rialzare: delusioni sportive, relazionali, sentimentali, lavorative, amicali. Grazie a loro ho imparato a passar sopra – senza dimenticare, io purtroppo non ne sono capace – ad allenatori e dirigenti non sempre capaci di parlare il mio linguaggio, quello di un adolescente con i suoi sogni. Se non fossi stato sportivo, un adolescente sportivo, il “chi sono Moro e Brusamarello?” (i più forti tra i nostri coetanei, ndr), che ci chiese dopo pochi minuti di allenamento con la selezione provinciale il responsabile delle nazionali giovanili, mi avrebbe abbattuto come un tornado.

Perché per dirti che non conti nulla, e che eran li solo per vedere due atleti, ci sono un sacco di modi. E chi non rispetta le persone, i ragazzi e gli adolescenti sa trovare sempre il peggiore.

Ecco, se son fiero di poter dire di non essermi mai comportato così, o di avere fatto il possibile per utilizzare i linguaggi più adatti ai ragazzi che alleno, lo devo proprio a questo. Lo devo ad un’adolescenza difficile come quella di tutti noi, ma ad una adolescenza che grazie anche allo sport mi ha insegnato il rispetto ed i valori che cerco di trasmettere in ogni cosa che faccio.

*Superata da un po’ – dice inconsapevolmente, mentendo spudoratamente a sé stesso – la soglia dei cinquant’anni, piero della putta è rimasto ciò che era: istruttore nazionale e delegato provinciale minibasket, allenatore, operatore nella vita vera delle politiche giovanili presso l’Informagiovani di Pordenone. Lavora – divertendosi – con i bambini ed i ragazzi da sempre, dopo una breve parentesi nella gestione di team senior non altrettanto appagante. Europeista, viaggiatore, crede fermamente che una società che non investe nei più giovani sia una società fallita o destinata al fallimento, unica parentesi negativa in una visione del mondo piuttosto rosea.

Generazione 32bit

Di Sara Verardo*

Diciamoci la verità: noi gamer, con il Coronavirus o senza, passavamo già tante ore davanti agli schermi e abbiamo affrontato così tante apocalissi zombie e nucleari che sapremmo esattamente cosa fare.
In questo momento i videogiochi sono diventati una terapia per la quarantena, tanto che c’è stato addirittura un boom nel mercato videoludico. E pensare che qualche mese fa i videogiochi erano considerati una dipendenza, un disordine.

Ma partiamo dall’inizio…
Per me i videogiochi sono stati fedeli compagni da sempre, alcuni li ricordo con malinconia, altri sono come mondi nuovi da scoprire.
L’incontro col mondo dei pixel è avvenuto da bambina, quando mi sono trasferita con la mia famiglia in un nuovo quartiere e ho fatto amicizia con un mio coetaneo con cui passavo i pomeriggi a giocare all’aperto, ma spesso anche per avere il “potere illimitato” sulla sua PS1. 

È da quando avevo 12 anni, invece, che il mondo che veniva definito “nerd” mi iniziò a interessare moltissimo. A casa abbiamo sempre avuto un computer e quando si premeva il pulsante “on” partiva il ronzio delle ventole, i vari “bip-bop” di avvio del sistema e il modem che faceva decisamente troppo rumore per il poco servizio che offriva: sembrava di stare in un’astronave.
Ricordo mio papà che passava i pomeriggi davanti al computer mezzo smontato, da cui uscivano cavi e schede che lui pazientemente mi indicava, spiegandomi la loro funzione, quasi come un chirurgo che analizza il corpo umano.

La passione è nata anche da mio cugino che, quando doveva “badare a me”, mi piazzava davanti ai videogiochi, in particolare davanti ai livelli di Doom; insomma, la tecnologia era il vizio di famiglia.

Mi ricordo ancora quando ho avuto la fortuna di costruire il mio primo pc assemblato, sembrava di costruire Frankenstein. E poi finalmente l’accensione, funzionava tutto: si poteva fare!

Il mondo fuori qualche volta non sembrava capire la mia passione “stai troppe ore lì”, “non preferisci la compagnia dei tuoi coetanei?” o “ti fa male alla vista”, la verità era che portavo già gli occhiali e i ragazzi della mia stessa età non usavano solo parole come ‘quattrocchi’ o ‘nerd’ per sfottermi, quindi il gioco ‘coetanei’ non rientrava nel mio passatempo ideale.
Col tempo poi ho scoperto che esistevano altre persone come me, quasi sempre ragazzi, con cui condividevamo trucchi, riviste per pc (beato internet) e giornate a casa l’uno dell’altro (l’online era davvero per pochi eletti ancora): improvvisamente quel senso di solitudine si era attutito. 

Poi, come tante belle storie, i personaggi a un certo punto si salutano o prendono strade diverse e anche coi videogiochi funziona così: ieri conducevi eserciti in battaglia, oggi sei il sindaco di una metropoli e domani magari un mago Khajiiti.
Il videogioco ti permette di essere chiunque tu voglia, senza pregiudizi, senza commenti indesiderati e con l’immaginazione come tuo unico limite, un po’ come fanno in modo più “passivo” libri e film, ma mica puoi andare a cavallo o brandire un’ascia in quelli!
Anche il senso di appagamento è una componente molto forte che crea un legame con il gioco, ad esempio quando costruisci qualcosa, quando ottiene delle ricompense alla fine di un livello o ancora la scritta cubitale “victory” alla fine di una partita.

Chiaramente i libri e i film non possono offenderti dandoti del ‘noob’ oppure insultando i tuoi parenti fino al 6° grado nel più creativo dei modi, ma d’altronde non può esserci male senza bene, Sith senza Jedi, orda senza alleanza.

Scomodando vecchie citazioni, io ho un sogno: ovvero quello di poter vedere il mondo videoludico come un collante che crea ponti tra nazioni, generazioni, genere e qualsiasi altra sfaccettatura che ci contraddistingue, partendo soprattutto dalla connessione tra visibilità e videogiochi: gli esports.
C’è infatti il rischio che un altro mondo sportivo diventi esclusivamente maschile, quando invece le ragazze che giocano esistono, non sono ‘maschi mancati’ e devono avere la stessa opportunità di giocare e di non essere sempre il player2.
Ben venga la collaborazione tanto quanto è benvenuta la competitività, la sfida e la forza di fare squadra per un unico obiettivo. 

Il mondo dei videogiochi ha imparato col tempo a rispecchiare sempre più la società in cui viviamo, e non solo tramite le tecnologie, ma anche tramite la percezione sociale; basti pensare a come negli anni ’90 certi personaggi venivano ‘scoperti’ LGBT solo con trame nascoste, dichiarazioni velate dei creatori o supposizioni della comunità dei fan, quando ora sono invece aspetti molto più visibili e che fanno parte della stessa trama del gioco.
Con questo non dico che non fanno più scalpore, perché purtroppo i pregiudizi non spariscono con in mano un gamepad, ma danno una cosa molto importante: la visibilità.

Anche la stessa violenza, tanto criticata nel mondo del gaming, è un aspetto tanto controverso e su cui ognuno ha la propria opinione, ma che personalmente credo si possa distinguere tra: “giochi adatti a un pubblico minore” e “giochi non adatti a un pubblico minore”, proprio perché l’adulto fa la sua parte nella decisione per chi non ha l’età di decidere per sé.

I videogiochi sono un passatempo, uno sfogo, un’avventura, un rifugio, fanno emozionare e fanno anche schifo qualche volta, ma non dovrebbero mai essere un mezzo per identificare e colpevolizzare un adolescente o un adulto perché, appunto, gioca.

Il mio invito è, se non avete mai giocato, di provarci almeno una volta, o guardate giocare qualcuno e magari chiedere di essere coinvolti: ritornate per un momento al “facciamo finta che”.

*“Sono Sara, studio all’università di Udine, da sempre appassionata di tecnologia, robe geek, sci-fi, film fantasy, videogames, minimalismo e divanismo. attivista Arcigay dal 2011, sostenitrice di uguaglianza di genere su ogni fronte, soprattutto quelle dei pelati; la leggenda narra che le mie battute potranno creare una futura glaciazione.”

17 maggio – giornata mondiale contro l’omofobia

di Rosa Olga Nardelli

Il 17 maggio del 1990 l’omosessualità viene definitivamente cancellata dalla lista delle malattie mentali, portando a compimento una vera e propria rivoluzione, arrivata dopo anni di battaglie da parte della comunità LGBT. Per questo motivo in questa data viene celebrata la Giornata internazionale contro l’omofobia, proprio a ricordare non solo la svolta, ma anche le innumerevoli persone che ne sono state vittime e che continuano ad esserlo. 

In un certo senso, celebrare questo passaggio rappresenta una rottura con la storia recente, non solo della medicina, perché ha di fatto portato ad un cambio di prospettiva importante per la vita delle persone. Fino a pochi anni fa, infatti, l’omosessualità era considerata una malattia come le altre anche da parte della comunità medica, tanto che sono state concepite le cosiddette terapie riparative.

Sebbene condannata da tempo, solo tra gli anni ’50 e ’60 l’omosessualità viene inserita all’interno dei manuali diagnostici condivisi dalla comunità scientifica e medica: nel 1952 viene classificata all’interno dei “disturbi sociopatici di personalità”; nel 1968 il DSM II (Manuale Diagnostico Statistico che raccoglie e classifica i disturbi mentali e psicopatologici, e che viene utilizzato da psichiatri, psicologi e medici sia nella pratica clinica che nell’ambito della ricerca) considera l’omosessualità una deviazione sessuale, al pari della pedofilia. Bisogna aspettare gli anni ’70 perché l’omosessualità venga rimossa come categoria diagnostica, fino ad arrivare ad una vera e propria derubricazione proprio nel 1990, quando la medicina dichiarò apertamente la propria posizione: l’orientamento sessuale è una caratteristica dell’individuo che si esprime nella relazione con l’altro ed è connessa ai bisogni di sicurezza e sociali quali i bisogni di amore, affetto ed intimità; l’orientamento sessuale prevede tre varianti naturali – eterosessualità, omosessualità, bisessualità.

Nel frattempo, in quei decenni avevano preso piede anche le terapie riparative, chiamate anche terapie di conversione o di ri-orientamento sessuale: metodi che avevano come obiettivo quello di modificare l’orientamento sessuale di una persona, una sorta di “riprogrammazione” dell’orientamento da omosessuale/bisessuale a eterosessuale, tanto da modificarne anche i desideri sessuali. Le terapie riparative consistevano, sostanzialmente, nel “curare un difetto di mascolinità” che si credeva avesse origine da una relazione disfunzionale con le figure genitoriali e le tecniche più comunemente utilizzate riguardavano: la terapia dell’avversione (associando una sensazione spiacevole e/o disgustosa – es. scariche elettriche, nausea e vomito – ad immagini omoerotiche), l’esorcismo, le punizioni corporali, l’assunzione di farmaci inibenti il desiderio sessuale o che modificano la secrezione ormonale (ovvero la castrazione chimica), la modificazione del comportamento, l’astinenza sessuale, il confinamento sociale.

Nel 1969 i moti di Stonewall hanno dato origine al movimento LGBT, aumentando la visibilità delle persone e portando alla luce la questione: questo incentivò un movimento scientifico ed etico, tanto da arrivare all’evidenza scientifica odierna per cui le terapie riparative non solo non sono più riconosciute dalla comunità scientifica, bensì sono considerate inefficaci, dannose e altamente pericolose

Ma, come abbiamo già esposto in precedenza, non si può pensare di cambiare l’orientamento sessuale e non si può curare l’omosessualità, perché l’orientamento è una caratteristica naturale dell’essere umano e l’omosessualità e la bisessualità non sono delle malattie, come ormai ampiamente testimoniato da una innumerevole quantità di studi scientifici. Bisogna, dunque, aspettare il 17 maggio del 1990 perché avvenga il cambiamento e perché l’intera comunità scientifica si renda conto dell’errore commesso.

Successivamente, nel 2004 l’Unione Europea prende posizione e si impegna a lottare apertamente contro ogni forma di discriminazione legata al genere e all’orientamento sessuale, istituendo la Giornata Mondiale contro l’Omofobia-Bifobia-Transfobia (per essere precisi, dal momento che riguarda persone omosessuali, bisessuali e transessuali). Varie nazioni europee, nel corso degli anni, hanno compiuto notevoli sforzi per l’integrazione e per combattere la discriminazione, sebbene nel mondo la strada sia ancora lunga da percorrere perché questa rivoluzione culturale possa dirsi veramente riuscita: in ben 7 paesi al mondo, al momento, vige la pena di morte per il “reato” di omosessualità, in altri 5 ne è contemplata la possibilità; 26 stati impongono sanzioni per le relazioni omosessuali, che vanno dai 10 anni all’ergastolo; in 32 stati esistono leggi che limitano la libertà di espressione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, compresa la “propaganda dell’omosessualità” (Fonte: rapporto ILGA 2019 – https://ilga.org/state-sponsored-homophobia-report).

In Italia e nel mondo ogni anno le associazioni si impegnano per parlare di questi temi, raccontare esperienze, aprire discussioni a riguardo. E anche quest’anno accadrà, tra dirette Facebook e Instagram, di incontrare i membri di queste associazioni alle prese con la lotta all’omofobia: forse quest’anno più che mai sarà visibile e utile raccontare cos’è il bullismo omofobico e come possiamo farvi fronte, ascoltare le storie di coloro che ci sono passati, confrontarsi con esperti e attivisti, discutere sulla questione dei diritti civili. Al coro delle associazioni, per la prima volta quest’anno, si sono unite anche alcune scuole che hanno chiesto ai loro docenti di parlare di questa giornata e di dedicare del tempo nel corso delle loro lezioni con gli alunni.

Dunque, domenica 17 maggio ci diamo appuntamento sulle varie piattaforme e nei vari siti per celebrare questa importante ricorrenza, apriamo le orecchie e la mente a questo spazio, perché non è mai abbastanza parlare di diritti e di lotta alle discriminazioni.

I valori professionali

di Alessandra Vignando

Perché sono importanti i valori professionali nelle scelte scolastiche e professionali?

Nell’ambito degli studi e delle pratiche di orientamento scolastico e lavorativo, un ruolo di sicuro interesse viene dato all’analisi dei valori personali e professionali. Ciò deriva dal ruolo che questi hanno nell’influire le azioni che le persone attuano o nel favorire determinati percorsi di scelta. I valori di una persona hanno importanti implicazioni nella vita sociale e nell’identità del singolo.

Questi principi danno un senso di scopo, sono dei fini da raggiungere, e per questo influenzano gli interessi e le preferenze delle persone. Comprendono sia elementi intrinseci che estrinseci all’individuo come ad esempio lo sviluppo personale, la creatività, l’altruismo, l’autonomia piuttosto che le relazioni sociali o lo stile di vita.

Questi atteggiamenti trascendono specifiche azioni o situazioni, sono obiettivi astratti che orientano la selezione o la valutazione di percorsi, persone o eventi. 

I valori personali possono essere considerati costrutti sovraordinati e nucleari, ovvero dimensioni di significato, che la persona struttura, con la propria esperienza, anche attraverso l’interazione sociale. 

I costrutti sovraordinati regolano le scelte, sia riferite alle attività personali che alle relazioni interpersonali. Sono principi e credenze, non solo di natura cognitiva ma risultano anche fortemente legati anche alle emozioni. 

Secondo Bellotto, uno degli studiosi maggiormente accreditati in tale ambito, “i valori professionali sono un’organizzazione durevole di credenze e di atteggiamenti su cosa sia preferibile, giusto, migliore, opportuno perseguire nella vita….. Il questo senso costituiscono un insieme di criteri che guida il comportamento delle persone, orientandole, supportandole, facilitando le prese di decisione e l’integrazione di differenti attività(Bellotto Trentini 1997).

Ma in che modo le persone attribuiscono valore al lavoro?

Primariamente il lavoro permette di assolvere ad una funzione economica utile a garantire il soddisfacimento dei bisogni di sussistenza e di sicurezza. Questa funzione viene spesso identificata, appunto, come la prima motivazione verso il lavoro, anche se definire a priori una classifica valida per tutte le persone appare una pretesa limitata e fuorviante. 

L’esperienza professionale concorre ad alimentare anche i bisogni di autostima e di autorealizzazione e consente ad ognuno di relazionarsi in sistemi sociali diversi che contribuiscono a definire ruoli ma anche status e prestigio.

Il significato personale attribuito a questi aspetti della vita lavorativa influenza il modo di sentire, di pensare e di comportarsi delle persone sia quando operano nel luogo lavorativo che al di fuori di esso.

Come possono cambiare i valori lavorativi a livello sociale?

E’ la stessa società che rimanda agli individui il valore del lavoro e questo processo riflette le caratteristiche dei diversi periodi storico-economici. Il riconoscimento sociale attribuito alle singole professioni muta anche drasticamente nel corso degli anni ed emerge negli atteggiamenti delle persone verso il lavoro.

L’impatto della pandemia da Coronavirus, ad esempio, ha fatto riscoprire a tutti i bisogni della salute, della cura, dell’alimentazione, della sicurezza e del poter essere connessi agli anche a distanza. 

Lo street artist olandese FAKE ha deciso di realizzare un ultimo lavoro, prima di chiudersi in quarantena. Un tributo al sistema sanitario mondiale e a tutti i medici che in questi giorni stanno lottando contro la pandemia.

Le professioni collegate al soddisfacimento di tali esigenze hanno così assunto una nuova dignità e un riconoscimento diverso.  

E’ cambiata la percezione rispetto al valore aggiunto che tali mestieri garantiscono. La loro utilità e la loro importanza non sono calcolabili solo in termini economici ma si basano appunto su dimensioni diverse. Il loro valore è direttamente proporzionale all’importanza del bisogno a cui risponde.

La crisi che stiamo attraversando ha sottolineato l’insostituibilità di alcuni beni e servizi e ha reso indispensabile il lavoro di chi opera per fornirli, come i medici, gli infermieri, ma anche i commessi, i trasportatori di merci e molti altri.

Le immagini di chi ha messo in gioco la propria vita per garantire la salute e la sicurezza della popolazione restano impresse nella memoria di tutti e contribuiscono ad elevare il valore delle professioni grazie alle quali si è potuto affrontare questo difficile periodo.

“Game Changer” è l’ultima opera di Banksy donata all’ospedale di Southampton in Inghilterra
ANDREW MATTHEWS – PA IMAGESGETTY IMAGES

I valori professionali sono contemporaneamente il prodotto delle interazioni con il proprio ambiente e a loro volta, la causa delle strade che si percorrono anche in termini di desiderio o di giudizio.

Conoscerli e riconoscerli permette di comprendere le scelte delle persone nei diversi momenti della vita personale e professionale.

La psicologia dei valori costituisce un argomento di riflessione e di studio tanto delicato quanto basilare, che si innesta nella vita del lavoratore e richiama l’attenzione a proposito di scelte professionali, di processi decisionali, in riferimento alle culture organizzative, e in generale rispetto ai comportamenti lavorativi.

Si fa presto a dire ansia…

di Francesca Del Rizzo

Molti ragazzi arrivano da me e sanno già dare un nome alla loro sofferenza: si chiama ansia e prende la forma di attacchi di panico, momenti di terrore, paura estrema di alcune situazioni, irrequietezza, incapacità di fermarsi o rallentare o al contrario, paralisi.

La sentono nel corpo, prima ancora che a livello emotivo: nel respiro che si fa affannoso e nel cuore che sembra scoppiare, o nella testa che fa male, tanto male, oppure nella tensione dei muscoli, nella pancia che duole e nello stomaco che si chiude. Per alcuni di loro la sofferenza fisica è così importante da arrivare a limitare di molto la loro quotidianità, da diventare una presenza quasi costante.

Prima andava tutto bene, poi, ad un certo punto della loro vita, è arrivata questa cosa. Inizialmente hanno cercato di farvi fronte con gli strumenti che avevano a disposizione e con l’aiuto dei familiari. Hanno provato a risolvere le loro difficoltà con strategie pratiche ed i familiari hanno spesso oscillato tra l’accudimento condiscendente e la sfida a farcela, “che tu sei più forte della tua paura”.

Quando un figlio o una figlia mostrano segni di così forte sofferenza non è facile per i genitori, ci si sente in colpa e responsabili, un po’ a prescindere. Certo, cerchiamo di capire, ma siamo così coinvolti che non possiamo essere molto lucidi nell’analisi e nella comprensione di ciò che sta accadendo.

E poi ci sentiamo impotenti.

Parlarne con un esperto ci può fare paura: da un lato significa accettare e dirci davvero che c’è qualcosa che non va, dall’altro temiamo che ci verranno dette parole che non vogliamo sentirci tanto dire, e cioè che c’è qualcosa, nel nostro stile educativo, che sbagliamo, che non facciamo bene.

E allora ci concentriamo sulla gestione dei sintomi. Essi diventano un po’ il focus dell’attenzione di tutti: della ragazza o del ragazzo, perché li fanno stare male, e della famiglia, perché a loro appaiono come il vero problema.

Ma non è così. Per illustrare il mio modo di concepire il ruolo dei sintomi d’ansia vorrei proporre una metafora che calza solo in parte, ma che trovo talvolta utile: immaginare il sintomo come una spia di allarme sul cruscotto dell’auto: quando la spia si accende il problema non è il malfunzionamento della lucina rossa né del cruscotto, il problema è da qualche parte nell’auto. Semmai, la spia è il primo tentativo, da parte del sistema auto, di trovare una soluzione al problema sottostante.

Ecco, spesso l’ansia è proprio questo: il primo maldestro tentativo, da parte della persona, di risolvere un problema, un tentativo che poi crea ulteriori problemi, ma su di un altro piano.

Pensiamo ad esempio a cosa può accadere quando un ragazzo ha un attacco di panico. Solitamente i genitori si allarmano: la prima impressione è che ci sia qualcosa che non va a livello fisico. Si parte quindi con una sequenza di accertamenti più o meno immediati che hanno l’effetto di concentrare sul ragazzo tutta una serie di azioni di cura e di accudimento piuttosto prevedibili. I genitori vengono così temporaneamente distolti dalle loro attività quotidiane, dalle usuali preoccupazioni, dal flusso della loro vita, e calamitati sul sintomo e sulle modalità per eliminarlo. Abbastanza velocemente scoprono che per fortuna non c’è nulla che non vada a livello cardiaco e, se da un lato ciò è indubbiamente tranquillizzante, è anche spiazzante: se c’è qualcosa di fisico se ne occupano i medici, che sanno cosa fare, ma così no, se ne devono occupare loro. E quindi, il più delle volte, cominciano a ristrutturare la loro vita in modo da rispondere ai nuovi bisogni (di sicurezza, vicinanza, presenza) che il figlio sembra reclamare. E la loro routine cambia: fra le loro occupazioni si colloca prepotentemente il prendersi cura in modo diverso di questo figlio grande che, per certi versi, si comporta però come se fosse piccolo e che in questo modo condiziona scelte, tempistiche e logistiche. Vorrebbe infatti smettere di fare le cose che fanno i ragazzi della sua età: prendere l’autobus, uscire con gli amici, andare in palestra o a scuola, giocare le partite di basket, perché lì si sente male, gli viene l’ansia, l’attacco di panico.

Risultato netto: grazie al sintomo il ragazzo ha riavvicinato a sé i suoi genitori, ha fatto in modo che si occupassero di lui, che si sostituissero a lui in alcune faccende, che smettessero, magari, di fare alcune delle loro cose e, contemporaneamente ha rivoluzionato la sua vita, interrompendo alcune attività consuete, o facendole solo talvolta e magari con accompagnamento. È stata una manovra consapevole? No, certo che no, ma è ciò che è accaduto, e se, per un attimo, concepiamo tutto questo come il tentativo di risolvere un problema, da parte del ragazzo, ci possiamo chiedere: ma quale era il suo problema?

Era forse spaventato da qualche compito evolutivo (qualche importante passaggio a livello scolastico, relazionale, sociale, sportivo) che sentiva di non essere in grado di affrontare? Era preoccupato perché vedeva i suoi genitori molto impegnati nelle attività axtrafamiliari e si sentiva abbandonato?

Non si può certo rispondere a queste domande in astratto, per quanto il caso che vi ho raccontato sia un caso in astratto. Per rispondere a queste domande è necessario comprendere quale sia la percezione che la singola persona ha della situazione, di se stessa e delle sue figure di riferimento.

E questo è principalmente compito della psicoterapia.

Ciò che voglio però sottolineare è, appunto, che “si fa presto a dire ansia”, come se con un singolo sostantivo, con l’atto di dare un nome, di porre un’etichetta verbale, si concludesse il processo di comprensione di una sofferenza. In realtà, la comprensione vera è un processo che a quel punto, il punto dell’etichettamento, deve ancora cominciare, e sarà solo grazie a quel processo che sarà possibile individuare il cuore della sofferenza. A quel punto, poi, paziente e terapeuta potranno assieme aprire a nuove possibilità.

L’omofobia non va in quarantena

di Rosa Olga Nardelli

Succede che arriva il Coronavirus e che siamo tutti in lockdown forzato per giorni.

Succede che i giorni di quarantena si trasformano in settimane, e poi in mesi. 

Succede che le scuole sono chiuse e si resta tutti in casa, adulti e ragazzi, non si può uscire.

Ma cosa succede se la casa, il luogo più sicuro del mondo per un adolescente, finisce per essere un luogo di angherie? Se la propria famiglia, le persone più care al mondo, finiscono per essere i propri aguzzini?

Questa riflessione parte da un dato: nelle ultime settimane c’è stato un boom di richieste di aiuto da parte di adolescenti LGBT alle chat amiche o agli sportelli di ascolto: sono centinaia i ragazzi e le ragazze che hanno denunciato anonimamente soprusi e violenze alle associazioni del territorio che si occupano di questi temi. L’orco è in casa, il suo alleato principale è il silenzio e sopravvivere negando la propria identità, col passare dei giorni, diventa sempre più difficile.

Il fenomeno delle violenze omofobiche all’interno del proprio nucleo familiare è precedente alla quarantena, anche perché il contesto familiare, assieme a quello scolastico, è sempre stato segnalato come uno dei contesti principali di violenza verso le persone LGBT. La convivenza forzata, però, ha visto un aggravarsi del problema e un esacerbarsi degli episodi di violenza.

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La prima forma di violenza riguarda proprio la negazione della propria identità.

Accade spesso che i ragazzi, dopo aver fatto coming out e aver ricevuto un sonoro ceffone (reale o verbale che sia), decidano di ritrattare le proprie affermazioni, o di dire di essersi sbagliati, di aver agito sull’onda delle emozioni ma “no, non è vero che sono lesbica, Vittoria è solo una mia amica”. Questo genere di violenza, subdola e pervasiva, ha un impatto grave sulla salute degli adolescenti LGBT, perché li priva di qualcosa di fondamentale: la fiducia. La fiducia nei confronti delle persone care, di coloro che li hanno cresciuti e ai quali si sono affidati per questioni piccole e grandi della vita. Una fiducia che successivamente è difficile da ripristinare, poiché resta la paura che quello sguardo ricevuto – d’odio, di delusione o di sofferenza che sia – possa ripresentarsi e trasformarsi in qualcosa di ancora più crudele, più spietato, sicuramente più intollerabile.

Un’altra forma di violenza sono le punizioni.

Nel momento in cui una persona LGBT inizia ad esprimere sé stessa, la propria sensibilità, le proprie preferenze sessuali, le punizioni più comuni riguardano restrizioni e le proibizioni: non chattare con alcuni amici, non guardare certe serie, non frequentare determinati siti. Naturalmente, spesso la minaccia di confisca di dispositivi, tablet e cellulari è accompagnata anche dai ricatti, che possono essere di natura economica (nella misura in cui la persona dipende economicamente dai genitori) e affettiva (“mi hai deluso”, “non parlo con te”, “non dirlo alla nonna sennò ne muore”).

Obiettivo da parte della famiglia è quello di controllare e di evitare che queste “distrazioni” possano incidere sulle condotte dei ragazzi e delle ragazze, invitandoli prepotentemente a non avere contatti con l’esterno. Anche in questo caso, l’impatto è deflagrante e porta direttamente verso l’isolamento e la solitudine. Tutti noi, di fronte all’obbligo di rispettare i decreti governativi e la quarantena, abbiamo avvertito la necessità di tenerci in contatto con le persone a noi care, amici e conoscenti, che ci alleviano lo stress di restare a casa e di veder ridurre le nostre attività lavorative e ricreative. E’ fondamentale per ognuno rimanere collegati e avere la certezza di trovare supporto nei momenti di sconforto, di non essere soli, di condividere i propri pensieri con gli altri. Ecco, tutto questo per un adolescente LGBT non è scontato, anzi diventa qualcosa a cui può solo anelare e, non riuscendo ad alleviare questa solitudine, diventa fonte di grande sofferenza.

Infine, la forma di violenza più tangibile ed identificabile, la violenza fisica, che può manifestarsi in svariate forme: dallo schiaffo al pestaggio vero e proprio, dalla violenza sessuale a scopo correttivo alle torture (una delle forme più diffuse, che si manifesta spesso con l’obbligo di terapie riparative o con l’esorcismo), dal tentativo di omicidio all’istigazione al suicidio. E tutto questo non è per nulla facile da denunciare, se si vive a stretto contatto con coloro che perpetrano tali forme di violenza.

Spesso gli adolescenti LGBT arrivano ad acconsentire e permettere che queste brutalità accadano, vuoi per una forma di omofobia interiorizzata che li porta a sentirsi in dovere di espiare delle colpe, vuoi per la paura che queste conseguenze siano peggiori della situazione di partenza. Ci sono vari fattori che portano un ragazzo o una ragazza a non denunciare, tutti governati proprio dalla paura: di mettere in pericolo sé stessi o altri membri della propria famiglia (magari un fratello che li sostiene) o altre persone (ad esempio un amico con cui si sono confidati); di mettere a repentaglio la stabilità e il clima familiare; di essere sbattuti fuori di casa; di essere rinnegati, derisi o non creduti dagli altri (familiari, funzionari di polizia, amici, etc.); di vedere la necessità di intraprendere vie legali economicamente impegnative. In sostanza, la paura di perdere tutto, o quantomeno una parte di sé e della propria identità.

Per far fronte a questi problemi, le associazioni di volontariato hanno fatto fronte comune e hanno rinforzato la rete delle chat amiche o degli sportelli di ascolto, allo scopo di aiutare quegli adolescenti che decidono di chiedere aiuto. Ci sono alcuni aspetti che è fondamentale sottolineare rispetto alle chat e agli sportelli:

  • garantiscono rigorosamente l’anonimato di coloro che li contattano;
  • sono sostenuti da personale qualificato – psicologi, educatori, avvocati, assistenti sociali – che, spesso in forma di volontariato, forniscono aiuto telefonico e pratico;
  • forniscono uno spazio neutrale di ascolto aperto e privo di giudizio;
  • prevedono la presenza di qualcuno che ci è già passato attraverso quell’inferno, adolescenti di un tempo e adulti di oggi che, più o meno a fatica, sono in grado di raccontare che da quelle situazioni si può uscire.

È fondamentale per tutti combattere il senso di spaesamento e di solitudine che questa pandemia mondiale ha portato con sé, coltivando i legami e le relazioni, appoggiandosi a chi ci è vicino, facendo riferimento ai nostri cari. E questo deve essere ancora più valido per coloro che sono considerate categorie fragili, delicate, come gli adolescenti in generale e, nello specifico, i giovani LGBT in difficoltà.

L’immaginazione mentale ovvero “E chi se l’aspettava?”

di Sara Feltrin

E’ ormai passato più di un mese da quando il Covid-19 ha deciso di metterci in ginocchio. Ultimamente mi capita spesso, durante l’attesa del mio turno fuori del panificio, di sentire signore e anziani del paese condividere pensieri e riflessioni sulla difficile situazione che stiamo tutti vivendo. E la domanda di maggior tendenza è: 

Chi se l’aspettava ‘na roba del genere?”

Nessuno”. 

Nessuno si poteva aspettare di vivere chiuso in casa da un momento all’altro, per giorni e settimane; nessuno se l’aspettava di dover uscire con un blocco di certificazioni per giustificare e legittimare ogni minimo spostamento; nessuno se l’aspettava di fare la fila al supermercato con mascherina, guanti e amuchina; nessuno se l’aspettava che un virus potesse toglierci tanta libertà; nessuno se l’aspettava un’apocalisse del genere.

Questi del Covid-19 sono giorni di sofferenza e attesa  e il ritiro coercitivo nelle proprie abitazioni non fa altro che alimentare solitudine e paura. L’incertezza è ormai diventata una compagna fedele all’ordine del giorno e quello che prima ci trasmetteva sicurezza ha improvvisamente lasciato il posto al dubbio e al vuoto. 

Così, ci troviamo a vivere una situazione completamente nuova, mai vissuta prima e soprattutto, nemmeno mai immaginata. Pongo l’attenzione all’immaginazione perché penso che in un momento come questo la nostra immaginazione sia una risorsa tanto fondamentale quanto vitale, più forte ancora dell’esperienza vissuta. 

Utilizziamo la nostra immaginazione per divertimento, per trovare soluzioni ai problemi e per la nostra stessa sopravvivenza. 

Dal punto di vista psicologico, immaginazione mentale è la capacità della mente di generare immagini mentali attraverso il canale della percezione. Le immagini mentali non sono il prodotto di fantasie senza scopo, ma prendono le basi dalla nostra percezione del reale (prendono informazioni dai canali sensoriali) per dare forma e significato all’esperienza, pianificando azioni e strategie da mettere in atto nel futuro. L’immaginazione quindi, ci consente non solo di poter comprendere una determinata circostanza, ma ci consente anche di poterla in qualche modo pensare o prevedere. Questa poi, complice la paura, ci aiuta a riconoscere un probabile pericolo prima ancora che si presenti; come quando guidiamo e ad un certo punto sentiamo il suono del clacson: potrebbe essere rivolto a noi per qualcosa che non funziona oppure non riguardarci affatto. In ogni caso, nel dubbio, restiamo in allerta. In allerta è una specifica condizione psichica (variabili livelli di attività cerebrale della corteccia, delle strutture sottocorticali e del sistema nervoso autonomo) che prepara il nostro corpo d utilizzare le armi migliori per gestire qualcosa, piacevole o spiacevole che sia, che ancora non sappiamo identificare e quindi, controllare. 

Capiamo ora quindi, quanto sia fondamentale il potere dell’immaginazione. Ecco che allora la domanda “Chi se l’aspettava ‘na roba del genere?” ha tutta la sua piena legittimità. 

Oltretutto, all’immaginazione è spesso associata un’emozione che origina dalla nostra memoria (i ricordi) oppure dalle aspettative verso il futuro e ci consente di trovare la soluzione adatta in ogni momento. 

Il rapporto tra immaginazione e emozione è bidirezionale: una influenza l’altra e viceversa. Questo significa che stimolando e suggestionando l’immaginazione è facile provare specifiche attivazioni fisiologiche e psicosomatiche, emozioni quindi. Viceversa stimolando intense emozioni. Questo naturale processo è alla base di ogni nostra azione e rappresenta una valida risorsa cognitivo-emotiva che ci consente di arricchire e potenziare ogni nostro comportamento.

Cosa accade quindi, quando si presenta una circostanza mai immaginata? Come quando SBAM! La nostra auto ha tamponato l’auto davanti a noi e, prima ancora che ce ne rendiamo conto, scoppiano gli airbag e facciamo fatica a respirare

Non ce l’aspettavamo, siamo stati colti impreparati e ci mettiamo un po’ a capire che cosa stia accadendo. Non abbiamo quindi potuto utilizzare, in tempo, le nostre risorse e i nostri strumenti per affrontare l’evento. 

Ci sentiamo impotenti e abbiamo la percezione che tutto ciò che stiamo vivendo non sia sotto il nostro controllo. E, come ogni qualvolta siamo protagonisti di una circostanza che non sappiamo in alcun modo controllare, entriamo nel circolo vizioso della paura, dell’ansia o, peggio ancora, dell’angoscia. L’angoscia è un’emozione fatta di paura più impotenza: paura verso qualcosa che potrebbe infliggerci dolore (fisico o psichico) e impotenza verso qualcosa su cui ci sentiamo inermi e non sappiamo come affrontare. Non è semplice ascoltare l’angoscia, tanto meno piacevole, ma, mai come in questo momento, è così importante ascoltarla e saperla gestire. La paura ci comunica cosa sia davvero importante per noi e cosa non vorremmo perdere, mentre l’impotenza ci mette di fronte ai fatti reali e ai nostri limiti ricordandoci anche, però, quali sono le nostre risorse e i nostri assi nella manica. 

L’immaginazione ci spinge fuori di noi, a visitare squarci di noi stessi che forse prima non avremo mai preso in considerazione; l’angoscia, al contrario, ci blocca all’interno delle nostre paure più profonde e ci attanaglia. 

L’immaginazione ci spinge oltre, mentre l’angoscia ci trattiene. 

La cosa più sorprendente, però, è che molto spesso esse si trovano una accanto all’altra come compagne di viaggio fedeli e sincere e, se impariamo ad accoglierle nel modo giusto e ascoltate con fiducia e consapevolezza, possono aiutarci a vivere con serenità e scoprire nuove parti di noi. 

Quindi ascoltiamoci e immaginiamoci oltre.

La sospensione del lavoro ai tempi del Coronavirus

di Alessandra Vignando

In questi giorni siamo costretti a casa e quelle che erano le nostre quotidiane attività sono sospese nell’attesa che l’emergenza si risolva. Probabilmente questa situazione genera in molti di noi sentimenti di paura e di ansia rispetto a quanto accade e a cosa accadrà. L’evento Coronavirus comporta e comporterà significativi turbamenti, anche professionali, che vanno ad aggiungersi a quelli che, da diversi anni ormai, ci richiedono mutamenti nei percorsi di carriera e nei ruoli lavorativi. 

Questa situazione, che di certo ci spaventa, può rappresentare però anche l’occasione per riflettere su chi siamo noi professionalmente, su quale parte di noi stessi operiamo e sviluppiamo nel nostro agire quotidiano. 

Il doverci fermare oggi è diverso dal tempo delle ferie o delle vacanze. Stare con noi stessi ci dà l’opportunità di farci delle domande su come siamo quando lavoriamo e su come questo nostro essere influenzi il resto della nostra vita. 

Nella normalità, le nostre giornate sono ritmate e condizionale dalla nostra vita lavorativa. Le nostre relazioni sono anche il riflesso di ciò che ci accade durante le ore passate al lavoro. 

Oggi accade qualcosa di diverso: il lavoro si sospende, assume nuove forme e le nostre giornate si svolgono diversamente. Cambia anche il nostro modo di osservare la quotidianità, magari il tempo a disposizione ci permette di imparare cose nuove, di vivere sensazioni o sentimenti diversi, facciamo nuove esperienze pur restando a casa. 

La nostra vita psicologica può essere vista come un processo continuo di apprendimento, di costruzione e di ricostruzione. E’ attraverso l’incontro con gli eventi della vita che modifichiamo o confermiamo il modo di vedere e dare significato alle cose. 

Quanto sta accadendo oggi richiede a tutti noi di rapportarci con le restrizioni al nostro movimento e alla nostra operatività, ma ci può offrire l’occasione per scoprire risorse personali a cui non davamo importanza, per improvvisarci nel risolvere criticità o riaprire cassetti che tenevamo chiusi. 

Non sappiamo quanto durerà questo periodo e come riprenderà il nostro lavoro. Questi giorni però, possono aiutarci a riflettere su come vorremmo operare domani, su quali saperi e abilità vogliamo continuare ad investire o quali talenti rispolverare

Usiamo questo tempo come occasione che mai avremmo potuto concederci per pensare un po’ a noi e a come possiamo esprimere le nostre qualità. Quando questo tempo sarà passato, dovremmo ripartire e avere maggior consapevolezza di noi ci aiuterà a tenere a fuoco i nostri obiettivi e a valorizzare le nostre risorse

Il bilancio di competenze

di Alessandra Vignando

Il bilancio di competenze è una pratica “volontaria”, attiva, “accompagnata”, che permette di fare il punto su se stessi, sulle proprie competenze e interessi, di riconoscere le proprie priorità e i propri limiti al fine di elaborare un progetto realistico di sviluppo. Viene costruito utilizzando tutto quello che, in un modo o nell’altro, ha a che vedere con il lavoro nella vita di una persona e in particolare: le conoscenze e la abilità, le motivazioni e gli interessi, le risorse e le difficoltà.

Il bilancio di competenze è un metodo attivo e proattivo di potenziamento e sviluppo delle capacità di individuare le possibilità di crescita professionale più coerenti con il proprio patrimonio di competenze. La persona, accompagnata dal consulente di bilancio, analizza vari aspetti della propria competenza e considera quali sono le risorse personali sulle quali intende investire rispetto al proprio obiettivo professionale. Il percorso attiva inoltre l’interessato nella ricerca di informazioni per scoprire quali sono le reali opportunità professionali nel mercato del lavoro verso le quali investire con un progetto di formazione o di ricerca di lavoro.

Il bilancio di competenze non è:

  • una serie di test o una diagnosi di personalità;
  • un aiuto psicologico o una psicoterapia;
  • una prova di selezione o un colloquio di valutazione;
  • una certificazione delle proprie competenze.

Obiettivo generale

Saper individuare le competenze professionali e personali al fine di delineare il proprio progetto formativo e/o professionale.

Obiettivi specifici

  • Saper riconoscere ed investire le proprie risorse personali, formative e lavorative
  • Saper tradurre la proprie esperienze in vere e proprie competenze (in termini di “sapere”, “saper fare” e “saper essere”)
  • Saper operare delle scelte autonome per la costruzione del progetto formativo e/o professionale
  • Saper definire, con il supporto dell’operatore di bilancio, un proprio progetto professionale e un piano per realizzarlo. 

LE FASI  DEL PERCORSO DI BILANCIO

  1. Presentazione ed Accoglienza

Questa fase è tesa al “conoscersi” e si propone i seguenti obiettivi: 

  • individuare il tipo di risposta più opportuna tra bilancio e altri possibili servizi, sulla base di una appropriata analisi della domanda iniziale;
  • fornire chiarimenti sul percorso e raccogliere informazioni su motivazioni ed aspettative;
  • precisare gli obiettivi specifici del percorso e verificare insieme al cliente se ci sono le condizioni per l’avvio del bilancio
  1. Investigazione 

Nella fase centrale del bilancio si analizzano gli elementi che caratterizzano l’esperienza e il vissuto della persona:

  • ricostruzione della storia personale e professionale, 
  • individuazione delle aspettative e dei propri orientamenti professionali
  • analisi delle risorse personali (motivazioni, attitudini, stili di coping)
  • interessi e valori

Per questa fase possono essere utilizzati diversi strumenti quali: colloquio, schede narrative, questionari, test, interviste, animazioni di gruppo (in caso di orientamento di gruppo)…

  1. Conclusione e restituzione

Il percorso si conclude con la restituzione e l’accompagnamento al progetto professionale che mira anche a definire un piano d’azione.

Prodotti di questa fase sono il Descrittivo delle competenze, il Documento di sintesi e il Portfoglio delle competenze.

La durata di un bilancio di competenze può variare in relazione al tipo di richiesta  e di problema che si intende affrontare. Un percorso di bilancio di competenze non è rigidamente prestabilito e si svolge di norma nell’arco di 2-3 mesi.

Il bullismo omofobico

di Rosa Olga Nardelli

Questo articolo è l’ideale prosecuzione dell’articolo “L’identità sessuale”.

Sempre più spesso si sente parlare di bullismo, di omofobia, di intolleranza ma il più delle volte lo consideriamo come qualcosa di assolutamente distante da noi o qualcosa che non ci riguarda; in realtà è qualcosa che ci riguarda sempre o, comunque, che ci prende in causa o come diretti interessati o come coloro che assistono o ne hanno una diretta azione.

Per definizione, il bullismo omofobico comprende tutti gli atti di prepotenza e abuso (offese verbali, discriminazioni, minacce e aggressioni verbali e fisiche) che si fondano sull’omofobia, rivolti a persone percepite come omosessuali, bisessuali o atipiche rispetto al ruolo di genere. Il bullismo omo-bi-transfobico colpisce ogni persona che venga percepita o rappresentata come “fuori” dai modelli di genere normativi. Il bullismo omo-bi-transfobico tocca principalmente l’identità di genere e il ruolo di genere.

Può presentarsi sotto diverse forme. La più frequente è quella verbale: insultare qualcuno chiamandolo “ricchione”, “frocio”, “checca”; prendere in giro per atteggiamenti ritenuti troppo effemminati (per un maschio) o troppo mascolini (per una ragazza); fare telefonate di scherno o insulti; minacciare. È diffusa anche una forma fisica di bullismo: aggressioni di diversa entità (spintoni, pugni, calci); danni ai suoi oggetti personali; umiliazioni fisiche a sfondo sessuale, che possono sfociare anche in violenze sessuali di gruppo.

Queste forme dirette di bullismo sono piuttosto semplici da individuare (sebbene la vergogna che l’adolescente prova può già portarlo a nasconderne i segni); vi sono però delle forme meno dirette, meno esplicite (forma psicologica): escludere qualcuno da un gruppo, isolarlo; farlo sentire a disagio; diffondere pettegolezzi rispetto la sua condotta sessuale o il suo orientamento (es. scritte sui muri o sulla lavagna, bigliettini, etc.); cyber-bullismo (es. mandare foto o sms inappropriati a qualcuno, creare un blog o una pagina facebook di scherno.

Cosa rende specifico il bullismo omofobico?

  • Difficoltà a chiedere aiuto agli adulti (con vissuti di ansia e vergogna);
  • difficoltà di sostegno e protezione tra i pari (“se difendo il mio amico o se dico di essere un suo amico, anch’io verrò considerato omosessuale”);
  • coinvolgimento diretto o indiretto di insegnanti e genitori con possibili pregiudizi derivanti da un clima di omofobia diffuso in un dato contesto (es. atteggiamenti di sottostima delle difficoltà, negazione dell’accaduto, atteggiamento espulsivo di allontanamento, propositi di cura);
  • appoggio della società, alimentato dal clima di omofobia;
  • effetti negativi sull’identità stessa della persona poiché va ad intaccare il sé psicologico e sessuale.

Quali possono essere gli effetti emotivi e comportamentali del bullismo omofobico?

  • Scarsa autostima;
  • ritiro ed isolamento sociale;
  • assenteismo e ritiro scolastico, con conseguenze sulla prestazione scolastica;
  • uso di sostanze e/o comportamenti sessuali a rischio;
  • problemi di salute mentale (disturbi d’ansia, depressione, autolesionismo, suicidio).

Anche un “semplice” insulto omofobo, come “frocio”, “lesbica”, etc. che avviene davanti ad un insegnante che non interviene può mettere in moto un pericoloso circolo vizioso: da un lato l’adolescente si sente ferito per l’insulto e potenzialmente esposto ad altri atti di bullismo, ma soprattutto sperimenta un senso di abbandono da parte delle istituzioni che dovrebbero tutelarlo; dall’altro lato, i bulli si sentiranno ancora legittimati nei loro comportamenti poiché rimasti impuniti.

L’identità sessuale

di Rosa Olga Nardelli

Questo articolo è l’ideale premessa per l’articolo “Il bullismo omofobico”.

L’identità sessuale costituisce un tassello fondamentale della propria identità, al pari, per esempio, della professione, del luogo in cui si vive, delle proprie origini, ecc… Nel definire una persona, nel definire noi stessi, chi siamo, non possiamo prescindere anche dalla nostra identità sessuale.

Da un punto di vista scientifico, l’identità sessuale è un costrutto multidimensionale, cioè è costituito da più aspetti:

  • L’identità biologica, ovvero il sesso biologico di un individuo, definito al momento del concepimento.
  • L’identità di genere, ovvero come io mi rapporto a me stesso. È la personale percezione di sentirsi appartenere al genere maschile o al genere femminile. Nella maggior parte delle persone l’identità di genere coincide con l’identità biologica; nei casi di disforia di genere, invece, non c’è corrispondenza tra il sesso biologico e l’identità di genere e la persona prova disagio e malessere nella propria identità biologica.
  • Il ruolo di genere, ovvero come io mi rapporto alla società e come la società si rapporta a me. È la manifestazione pubblica dell’identità di genere, ed è costituita da tutte le credenze ed aspettative inerenti a ciò che viene considerato adeguato per una femmina e per un maschio. Il ruolo di genere è strettamente collegato al contesto sociale, culturale, storico-geografico in cui una persona si muove.
  • L’orientamento sessuale, ovvero come mi rapporto ad un’altra persona. Si definisce orientamento sessuale un modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso un’altra persona; a seconda del sesso biologico dell’altro avremo tre orientamenti sessuali: eterosessuale, bisessuale, omosessuale (American Psychological Association, 2008). È una caratteristica propria dell’individuo che si esprime nella relazione con l’altro ed è connessa ai bisogni di sicurezza e sociali quali i bisogni di amore, affetto ed intimità.

La definizione di identità sessuale apre una riflessione sulle dinamiche sociali e culturali che riguardano il corpo e la sfera dell’affettività. Il genere e, di conseguenza, ciò che significa “essere uomo” e “essere donna” viene costruito socialmente e culturalmente in un dato tempo e in un determinato spazio, quindi, come tale, assume significati diversi a seconda del contesto. Nella vita quotidiana gesti e azioni avvengono in un quadro normativo rigido che produce i corpi sessuati ed esclude la devianza dalla norma. La cultura occidentale è costruita intorno ad un modello definito “eteronormativo” della relazione tra i generi, in una logica binaria che regola rigidamente le aspettative e tutto ciò che si ritiene adeguato per i maschi e per le femmine rispetto ai comportamenti, alle scelte, al corpo, alla sessualità e alla riproduzione.

Questo modello possiamo considerarlo alla base tanto del sessismo quanto dell’omofobia, atteggiamenti entrambi che concorrono a legittimare e giustificare la violenza. Inoltre, questa premessa ci è utile anche per capire le radici del bullismo omofobico e il motivo per il quale è necessario prevenirlo e arginarlo.

La scuola ai tempi del CoronaVirus

di Sara Feltrin

Alzati, sono le 9!

Non è la solita sveglia delle 7 del mattino che preannunciava l’ennesimo giorno di scuola. E’ una sveglia più soft, quasi come quella della domenica mattina. 

Ma non è domenica mattina.

Alzati che tra mezz’ora hai videolezione con la prof di inglese!” 

Una lunga colazione, l’abituale TG di sottofondo, e via, davanti allo schermo del computer, con la felpa di scuola indossata sbrigativamente per coprire il pigiama, tutti pronti a fare lezione così, a piedi scalzi e un biscotto mezzo masticato in bocca.

Doppio click sulla cartella 1B. Inglese. D’un tratto, dal nulla: “Ah, eccovi! Ecco ecco, vi vedo quasi tutti….mancano Stefano e Giulia…” è la voce dell’insegnante, leggermente imbarazzata ma, stranamente, calma. Sì perché in classe non esiste “la calma” e si urla sempre per farsi comprendere. Agli occhi dei ragazzi l’immagine dell’insegnante suscita un’inaspettata, rassicurante familiarità. Per un attimo, sembrava di essere in classe. 

Si è trasformata così la scuola ai tempi del Coronavirus, alunni e docenti separati da uno schermo e connessi attraverso il network dell’era digitale che asseconda operosità e produttività senza lasciare spazio a emozioni e sentimenti. Si perchè si può digitalizzare un documento, un’immagine, un suono, ma non si può digitalizzare uno stato d’animo. 

Vi lascio i pdf da completare e riconsegnare nella cartella “lezioni settimana 16-21 marzo”, mi raccomando, entro sabato! Ci vediamo la prossima settimana, a presto ragazzi!

Le lezioni “in classe” durano 20-30 minuti al massimo perchè “Oh raga, non ho più internet, ho finito i giga” , “Bro, non ho capito l’ultima parte perchè c’era poca connessione” oppure “Ciao raga vi mollo perchè mia sore rompe che le serve il pc”, senza contare chi manca come Stefano e Giulia della 1B che a casa il wi-fi non e ce l’hanno proprio. Esistenze affidate totalmente agli schermi, che poi va a finire che “Oh ma raga, voi avete capito dove la prof mette i compiti?” e ci si perde, ci si esclude, per mancanza di segnale.  

Mai come in questo momento, navigare in internet ha portato un mal di mare così angosciante: un totale disorientamento annessa ad una profonda estraneazione. 

Sì perchè, chi lo poteva immaginare che quel saluto così sbrigativo ai miei amici, tre settimane fa, poteva mancarmi così tanto, ora? Chi lo poteva sapere che mancasse così tanto non vedere i volti dei miei compagni di scuola, compagni di vita?

Eh ma li puoi vedere su skype o su Whatsapp, o su Messenger!” 

Sì, ma non è la stessa cosa. Possiamo guardarci, possiamo parlarci, ma non ci possiamo avvicinare, non possiamo stare vicini. No, non è la stessa cosa.

Ora, della scuola è rimasta solo la parte peggiore: quella dei compiti e delle verifiche (che poi, che verifiche sono se posso tenere il libro sotto il naso?). 

Per non parlare poi delle boccate d’aria pura: sport, condivisioni al parco, le passeggiate con gli amici del paese, eccetera. 

Ora ringraziamo il cielo per aver permesso l’esistenza della tecnologia che ci permette di amplificare la nostra esistenza in ogni dove, distraendoci dal qui ed ora, dalla realtà attuale. Perché è proprio questo che fanno i telefoni, i tablet e qualsiasi schermo sia connesso ad internet: portarci via dal qui ed ora. Proiettarci in un realtà virtuale pericolosissima: quella del nostro “cerco, voglio”, estranea e lontana a quella del nostro “evito, scappo”. Quella dei desideri lontano da quella delle paure. 

E oggi, questi mostruosi quanto indispensabili, schermi sono diventati l’equilibrio tra quell’inesauribile “voglio tutto” e il catastrofico “vietato uscire”. 

Sono diventati la libertà di chi a casa non sa stare. 

Come siamo arrivati a tutto questo?

Ci sorprendiamo di noi stessi quando facciamo fatica a gestire la nostra vita a casa, quando ci hanno insegnato che la casa è il luogo più sicuro e rassicurante di tutto il mondo. Com’è che ora, la nostra casa, fa così paura? Perchè la percepiamo così pericolosa? Perché sentiamo l’esigenza di uscire a tutti i costi?

Siamo diventati un popolo più adattato al lavoro che a casa, più “al sicuro” nel fare (lavoro) anziché nell’essere (casa). Beh, la risposta sembra ovvia: perchè a casa non siamo abituati a stare, come non siamo abituati a gestire non tanto la casa in sè, ma noi stessi, nell’essere e non nel fare.

Noi stessi, senza gli impegni quotidiani, i doveri delle cose da fare, lo stress per gli obblighi del lavoro, le mansioni da svolgere a casa e le rassicuranti, quanto angoscianti immagini del lavoro del giorno dopo. Noi stessi. 

Questo siamo diventati. Un popolo alla mercé dell’operosità. E ora, che ci è chiesto a tutti di #stareacasa, facciamo fatica a farlo. 

Forse è il caso di abbandonare tutti quel caotico e continuo fare e ci lasciamo andare a quel difficile essere che sì, ci mette in discussione, ma mette alla prova emozioni e risorse che forse prima non sapevamo nemmeno di avere. 

Risorse che in questo momento ci possono salvare in una situazione di emergenza come questa, in cui sono necessari spirito di adattamento e gestione emotiva. 

Lontano dai telefoni, lontano dagli schermi. 

Guardate di fronte a voi, guardate in alto nel cielo. Per farlo, non serve raggiungere la cima più alta di una montagna e nemmeno il lungomare di una suggestiva spiaggia. 

Basta una sedia, fuori nel terrazzo accompagnati da un buon libro, un calice di vino, un giornale, un gatto sulle gambe o assolutamente nulla. 

Voi e nient’altro.

Aprite gli occhi. 

Avete il mondo, quello vero, davanti a voi.