Annoiati davanti al nulla, impotenti davanti a tutto

di Sara Feltrin

Poche settimane fa su Teen&20 scrivevo un articolo, La guerra dentro, nel quale descrivevo il forte malessere e la profonda sofferenza che caratterizza la gran parte degli adolescenti di oggi, chiusi e bloccati dentro le mura domestiche, come pettirossi in gabba, rossi dalla rabbia.

La guerra, ora, è scoppiata davvero. 

Le manifestazioni con cui i giovani hanno provato a farsi sentire e urlare a gran voce nelle piazze o fuori della scuola, vestiti a strati con berretto, guanti e una coperta stesa a terra come clochard lungo la strada, sono state parecchie. Telegiornali e notiziari ne hanno parlato molto, li hanno intervistati, ma nulla è cambiato. I continui DPCM tentennano tra salvare il mondo da una pandemia mondiale e l’Italia da un collasso economico, lasciando aperti fino a sera i centri commerciali per i regali di Natale, ma le scuole perennemente chiuse. 

Risale a pochi giorni fa (5 dicembre 2020) la vicenda presso il Pincio di Roma in cui centinaia di giovani, gran parte minorenni, si sono raccolti, un sabato pomeriggio, per assistere ad una rissa tra due ragazze. Una di loro, però, non si è presentata ma ciò nonostante la rissa è esplosa lo stesso, tra gruppi di ragazzini guidati da rabbia e sete di vendetta. La diretta e inevitabile conseguenza è stato quindi un grande affollamento di centinaia di giovani arrabbiati che, senza l’utilizzo di mascherine, si è ribellato nel centro di Roma. Ma i pugni, incitamenti, aggressioni, e violenze scagliate uno contro l’altro, nonostante l’intervento delle Forze dell’Ordine in tenuta anti sommossa, non sono bastati a frenare la rivolta. 

E su Tik Tok, Telegram e WhatsApp, circola già il messaggio “Confermata al 100% la rissa il prossimo sabato” ma sta volta i pugni e calci non basteranno e le armi della “rivincita” saranno lame e coltelli. 

Ci impressioniamo di tanta violenza, maleducazione, vandalismo e intemperanza. Questo, alla fine, colpisce. L’attenzione è diretta alle conseguenze più che alle cause e si cerca un modo per frenarli e disarmarli con tute antisommossa quando invece dovremmo fermarci ad ascoltarli, con le parole. Perchè mettersi ancora contro di loro non fa altro che aumentare la distanza, e più saranno lontani e più loro urleranno.

I numeri parlano chiaro: dallo scorso anno il numero degli atti vandalici provocato da ragazzi nella fascia adolescenziale è aumentato dal 16% al 22%; le risse ora sono al 24%, l’utilizzo di armi o oggetti pericolosi all’8% e l’aggressività su persone al 35% (Osservatorio Nazionale Adolescenza).

I nostri non sono più ragazzi e adolescenti che si ribellano per trovare dei limiti o dei confini per la definizione di sè; sono ragazzi demotivati, arrabbiati; sono adolescenti stufi di ribellarsi e che quindi, lottano. Lottano (o meglio, lottavano) a scuola dove attenzione e concentrazione sembrano capacità irraggiungibili e una buona comunicazione con insegnanti e compagni una grande utopia. Lottano nelle strade contro una società che li giudica e li considera un peso anziché una ricchezza. Lottano infine nelle piazze, unico luogo in cui ritrovare la voce e le urla dei coetanei arrabbiati e sconfortati come loro per scagliarsi insieme contro un mondo che non dà opportunità e sa di amaro. Ma lottano soprattutto in casa e in camera in particolare, contro se stessi. Mancano obiettivi, tante volte mancano perfino i sogni, mancano figure solide, mancano punti di riferimento verso le quali dirigere la rotta, manca la rotta e manca la motivazione che lascia spazio alla noia. E la noia di un vuoto, soprattutto in un’età in cui istinti e ormoni prendono il sopravvento, porta a frustrazione e percezione di scarsa autoefficacia (non faccio quindi non imparo quindi evito di fare per non fallire). Mettiamoci un futuro senza certezze del domani, una pandemia in corso che limita gli spostamenti bloccando i contatti fondamentali e la ricetta è pronta. 

Così, abbandonati alla noia e all’angoscia, l’unica strada rimane quella dell’esplorare l’oltre, una pseudo realtà fatta di adrenalina e autoefficacia che restituisce sensazioni di libertà, coraggio, competenza e vita. Ed ecco che spesso si ricorre all’alcol, alla droga, alla violenza, ai killer selfie, ai knockout, alle challenges virali spesso mortali, sfide ricche di sensazioni fortissime, devianze nate non più per raggiungere dei limiti ma per scavalcarli.

E’ una guerra spietata quella che sentono dentro e ce lo stanno dimostrando in tutti i modi, arrivando a volte persino al suicidio.

Ora tocca a noi ascoltarli, senza giudicarli e senza pretendere da loro chi vorremmo che fossero, ma accettiamoli, comprendiamoli e aiutiamoli con tutti gli sforzi che stanno facendo per crescere in un mondo così astioso come l’attuale. Hanno bisogno di noi, figure di riferimento, autorità competenti e persone da stimare che possono insegnare loro come sconfiggere lo sconforto e la frustrazione, per recuperare i sogni perduti e per poter credere che dopo ci sarà qualcosa di buono per cui valga la pena lottare ma soprattutto, per cui valga la pena vivere

Ora tocca a noi.

Vento dell’est, 

la nebbia è là, 

qualcosa di strano tra poco accadrà. 

Troppo difficile capire cos’è, 

ma penso che un ospite arrivi per me. 

                                                                  Walt Disney,  Saving Mr Banks

Ti conosco?

di Francesca Del Rizzo

Cosa significa conoscere una persona?

Mi è capitato, recentemente, di sentire spesso questa domanda attraversarmi la mente. Pensandoci credo che incontrare costantemente persone nuove, approfondire la conoscenza di persone che conosco da tempo, ma soprattutto, vedere crescere figli adolescenti possano forse essere gli inneschi per questo tipo di interrogativo.

Professionalmente incontro le persone e sono profondamente impegnata nel tentativo di comprendere loro ed il mondo che le circonda. Nella mia vita privata frequento amici che posso dire di conoscere da tempo eppure ho sempre la sensazione che qualcosa mi sfugga. Di fronte a mio figlio in rapida e disarmante trasformazione, poi, mi sento talvolta priva di bussola e disorientata. Ed è mio figlio, me lo sono visto crescere giorno per giorno. Ho cercato di stare attenta e di non perdermi nulla della sua evoluzione, eppure…

Eppure mi trovo a dire che forse non lo conosco davvero. E la domanda si ripresenta: cosa significa conoscere una persona? I vari sistemi psicologici hanno dato, nel tempo, vari tipi di risposte a questa domanda, ma nessuna è davvero esauriente. Mi sembra che conoscere una persona non equivalga a conoscerne la storia, misurarne i processi cognitivi, valutarne emozioni e motivazioni, né che sia sufficiente mappare il sistema di relazioni in cui è immersa.

Nel costruttivismo diciamo che per conoscere una persona dobbiamo comprendere che cosa è fondamentalmente impegnata a fare. Credo sia una buona idea ed un ottimo punto di partenza. Se comprendo, infatti, che la mia amica è fondamentalmente impegnata a non essere di peso sulle altre persone, non mi stupirò quando non mi dirà che sta male o se non mi chiederà aiuto quando ne potrebbe avere bisogno. E dovrò stare attenta alle proposte che le farò: c’è il rischio che mi compiaccia per non darmi un dispiacere… Sapere che cosa è fondamentalmente impegnata a fare mi permette di anticipare a grandi linee, ed a volte in modo più raffinato, cosa farà e come si sentirà in una certa situazione. Per farlo dovrò guardare alle varie situazioni dal suo punto di vista, attraverso i suoi occhi: dovrò essere in grado di capire cosa esse significhino per lei. ma per guardare il mondo dal suo punto di vista un po’ la devo già conoscere…

Ecco allora che conoscere una persona mi sembra il frutto di un processo ricorsivo: provo a guardare il mondo dai tuoi occchi, anticipo cosa potresti fare in quella situazione, vedo se lo fai… e se lo fai posso dire di conoscerti, almeno relativamente a quell’aspetto, altrimenti c’è qualcosa che non torna… devo mettere in discussione un pezzo della mia comprensione di te e riprovare.

Il che potrebbe anche funzionare, se l’altro si limitasse ad “essere se stesso” e a “fare se stesso” in maniera coerente e stabile nel tempo. Cosa che precisamente le persone non fanno, per fortuna. Le persone cambiano. A volte i cambiamenti sono minuscoli, altre un po’ più importanti, altre ancora considerevoli. Ed allora scopriamo che non riusciamo più a capire così bene, ad anticipare così efficacemente. Ci sentiamo sorpresi, spiazzati, a volte molto spaventati. Quante volte abbiamo sentito dire, o abbiamo detto: “Ma, non è da lei/lui, non ha mai fatto così, non me lo aspettavo proprio!”

Talvolta siamo così confusi da non riuscire a prendere atto del fatto che, evidentemente, qualcosa non è più come prima e cerchiamo di fare tornare l’altro nell’alveo della nostra passata conoscenza di lui. Per cui, se il nostro adolescente improvvisamente non ci racconta più nulla, niente, non ce la facciamo ad accettarlo… e insistiamo, proviamo in un altro modo, lo facciamo sentire in colpa, lo minacciamo… Siamo così affezionati alla nostra passata comprensione di lui – comprensione che ci dava anche un preciso posto nella sua vita – che non riusciamo a mollarla, perchè mollarla implicherebbe anche lasciare andare una parte di noi, la parte di noi che aveva un certo ruolo con quella persona che era così come era, nella relazione con noi.

Immagine di Alessia Tornusciolo

Quindi, riassumendo, possiamo dire di conoscere un po’ l’altro quando riusciamo a guardare il mondo dal suo punto di vista e ad anticipare come lui si sentirà ed agirà in una certa situazione, ma, siccome l’altro non è fermo ma in continuo cambiamento, possiamo prevedere che spesso la nostra conoscenza si dimostrerà incompleta o sbagliata. Sembra che siamo arrivati ad una specie di paradosso: conoscere l’altro significa sapere di non conoscerlo davvero.

Ora che lo guardo bene, questo paradosso mi piace tantissimo, perché la consapevolezza che la mia conoscenza dell’altro (o dell’altra) è sempre in procinto di mostrare i suoi limiti non può che tenere sempre aperti la mia curiosità ed il mio interesse nei suoi confronti, mi impegna a mettermi in gioco con lui (o con lei) senza mai dare nulla per scontato, e mi porta ad una continua rimodulazione della nostra relazione: infatti se l’altro cambia, cambia anche la sua relazione con me.

Faticoso? A volte può esserlo molto (cfr. l’adolescente di cui sopra), ma sicuramente entusiasmante. Disorientante, più spesso del gradito, ma vitale e vivo, anche un po’ misterioso, se volete, che, a mio avviso, non guasta.

La guerra dentro

di Sara Feltrin

Zona rossa, zona gialla o zona arancione. Bar e ristoranti tornano a chiudere le serrande, i negozi hanno le ore contate e le scuole perennemente in ballo tra lezioni in presenza e lezioni online. Non si parla d’altro ormai, il Covid-19 è tornato al centro di ogni comunicazione, protagonista indiscusso delle nostre giornate. Ci troviamo di nuovo costretti a seguire delle direttive che limitano inevitabilmente il ciclo delle nostre giornate, cambiano le abitudini e non siamo più liberi. Oltre agli effetti più strettamente pratici e concreti, la pandemia sta portando ad una serie di conseguenze psichiche importanti e i più recenti studi lo dimostrano: ansia, panico, fobie, depressione e angoscia risalgono come un deja-vu, ma non è un deja-vu. E’ la seconda ondata della pandemia e coinvolge tutto il mondo, grandi e piccini. Ma gli adolescenti? Quella miriade di ragazzi e ragazze che in questo delicatissimo momento storico, stanno costruendo le fondamenta per il loro futuro e le basi della loro personalità. Quella fetta di popolazione che vive nel limbo tra la fanciullezza e l’età adulta, tra l’abbandono di un mondo, quello infantile, non più adatto alle loro esigenze e il lancio verso un mondo ignoto, quello dell’età adulta, in cui vengono proiettati bisogni, aspettative, sogni e desideri. Loro dunque, dove li abbiamo lasciati? Un pò come con i banchi con le rotelle, ci si è concentrati così tanto sulla didattica scolastica, sulle lezioni in presenza oppure online, su una parte del tutto, che si è perso il focus della una visione più generale e delle vere priorità che caratterizzano il mondo adolescenziale, che non è solo la scuola. DAD (Didattica A Distanza) o DDI (Didattica Digitale Integrata), qualsiasi acronimo il Ministero voglia utilizzare, il principio però, non è la didattica fine a se stessa, perchè la scuola non è solo didattica, ma anche rapporti sociali, relazioni, confronti, fuori e dentro la scuola, l’esporsi al mondo con tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti, stili personali, modi di vestire, truccarsi e comunicare, che solo l’esperienza sul campo può offrire. Uscire di casa, andare a scuola, andare a basket o a musica, significa proprio questo: vivere quella linfa vitale e quegli istinti che devono essere vissuti, toccati, conosciuti, per poter costruire la propria identità, creare la propria strada, con la tenacia e l’autoefficacia formatesi durante queste fondamentali esperienze di vita che danno forma e senso alla loro esistenza. 

Tutto questo è stato spostato sulla rete ormai da un pò, soprattutto con l’incremento dei social network e di tutte quelle piattaforme che portano alla creazione di un’identità digitale e, con essa, una fitta rete di relazioni digitali che favoriscono costanti confronti e ricerca di conferme. Come si fa quindi, a fare esperienza online, dove ogni situazione e ogni relazione viene creata e gestita ad hoc, su misura di un proprio avatar che difficilmente rispecchia l’identità della vita reale, ma un’identità ideale e immaginaria spesso irrealizzabile nella realtà. Come si fa a fare esperienza dietro uno schermo, dove emozioni e sentimenti vengono digitalizzati o scansionati in jpg o, meglio ancora, in pdf così tutti possono leggerli e nessuno può modificarli. Tanti sono i sentimenti che non riescono ad esprimersi, perchè per poterlo fare hanno bisogno di essere compresi e contenuti con empatia, condivisione, contatto e presenza

E ora, con la pandemia, dove qualsiasi forma di contatto o presenza è vietata, tutto questo si è amplificato a dismisura, ingigantendo il bisogno di uscire, di vedere gli amici, di mostrarsi al mondo e di essere liberi. Più di tutti quindi, in questa pandemia, ci stanno rimettendo loro, i bambini di ieri e gli adulti di domani, che si trovano bloccati e rassegnati a schiacciare impulsi e desideri sotto un cuscino.  

Rassegnazione, frustrazione, delusione e tristezza: queste sono le emozioni che prevalgono; di rabbia ce n’è poca, perchè la rabbia nasce quando c’è un fuoco dentro che brucia, un’energia vitale che arde per un desiderio o un obiettivo che in qualche modo ci viene ostacolato, e ci si arrabbia, sii reagisce, si lotta. Ma oggi, per la gran parte dei nostri adolescenti quel fuoco dentro si è trasformato in una piccola fiaccola alimentata da una lieve speranza che “le cose passino in fretta e che si sistemi tutto al meglio”. E più le delusioni procedono, più quel fuoco rischia di spegnersi, come si spengono impulsi e istinti, essenza vitale del corpo umano (e non solo adolescenziale). E’ facile capire, quindi, come la curiosità, l’intraprendenza e la motivazione inizino a mancare e come dall’essere attivi si passi all’essere passivi verso il mondo, il mondo esterno, ma soprattutto il mondo interno.  

D’altronde come fa un ragazzo, oggi come oggi, ad immaginarsi un futuro? o semplicemente a proiettarsi, tra qualche anno, in vesti di chi vorrebbe essere? Il futuro, lo indica il nome stesso, non è mai stato certo per nessuno, però, costruirlo in un presente più o meno chiaro e ricco di opportunità di crescita è ben diverso dal costruirlo in un presente di totale confusione e incertezza: in questo momento è difficilissimo per i nostri giovani definirsi, percepire i loro bisogni e desideri. Se somministrassimo loro un tema di italiano con la classica consegna “descriviti e racconta di te” penso che non potremo proporgli un lavoro più arduo e angosciante. 

Occorre quindi aiutarli a trovare la motivazione e la voglia di investire su se stessi, oggi più che mai; aiutarli ad avere massimo contatto con la loro sofferenza, la loro delusione e la rabbia nascosta dietro un profondo senso di frustrazione e rassegnazione. Dobbiamo aiutarli ad esprimersi, ad urlare, a pretendere e lottare per il loro futuro, per un ritorno alla vita reale molto diversa e, per certi aspetti anche spaventosa, della realtà digitale. Compiere questo passaggio, abbandonare il Sè virtuale/ideale e rientrare nelle vesti del complesso Sè reale, non sarà affatto semplice. Come non sarà semplice riprendere contatto con quelle relazioni difficili che il digitale ci consentiva di dimenticare. 

Cari adulti, cari mamma e papà: il Covid e le restrizioni che esso porta con sé  non devono diventare dei muri insormontabili, ma opportunità di relazione, di stare assieme, con noi stessi e in famiglia. Coltivare tempo e spazio di vita reale anziché connessi ai social o alla rete. Il mondo dei vostri figli è prevalentemente tecnologico oramai e non possiamo eliminare questa componente importante dalla loro vita, essendo quello l’unico contatto col mondo esterno, potete però insegnargli e guidarli ad un utilizzo consapevole e limitato di dispositivi elettronici, smartphone e tablet. Comunicate con la loro lingua tecnologica, partecipate alla loro vita digitale ma insegnategli a utilizzare lo smartphone per chiamare o scrivere agli amici, usare il pc per le videolezioni e lo studio; aiutateli ad allontanarsi dalla costante ossessione dei social network, dalle lunghe attese dei like, dei feedback rinforzanti che non fanno altro che alimentare il loro precario fatto spesso di incertezze e timori. Ascoltate i loro bisogni, le loro necessità, aiutateli a riprendere in mano le loro passioni e i loro interessi perchè le risposte non si trovano dietro uno schermo ma dentro di loro, dentro di voi insieme a loro, nelle scelte che fanno, nella vita che conducono e negli spazi che vivono. 

Infine, cari ragazzi, care ragazze: avete tutta la ragione per essere delusi e frustrati dalla realtà che vi si pone davanti, però il futuro siete voi e il futuro, per cambiare, ha bisogno di un fuoco che arde e che lotta per perseguire obiettivi e desideri. E noi, come adulti, vi aiuteremo ad accendere quel fuoco e quell’energia vitale per pianificare gli anni che verranno, senza gli sbagli delle generazioni passate e con la resilienza di chi ha saputo reggere una guerra dentro e la tenacia di chi ha saputo pazientare e vincere. 

Il voto

di Francesca Del Rizzo

A costo di ripetere concetti triti e ritriti, vorrei affrontare con voi la questione “voto”. La ragione per cui credo sia importante ribadire alcuni punti è che continuo ad incontrare ragazzi e ragazze ossessionati dai voti, dalle medie e da tutto quello che ruota attorno all’idea di prestazione nel mondo della scuola.

I ragazzi e le ragazze che vedo non sono studenti che arrivano a stento alla sufficienza, sono invece persone che si impegnano molto ed ottengono buoni, o ottimi, risultati di cui, però, non riescono a godere per due motivi: il primo è che, dal loro punto di vista, per quanto un voto sia bello non lo è mai abbastanza; il secondo è che sono comunque talmente terrorizzati dall’idea di prendere un brutto voto, alla prossima interrogazione o verifica, che la soddisfazione e la gratificazione del buon risultato di ora durano, se durano, lo spazio di qualche secondo… e forse è più sollievo – per il brutto voto sventato – che reale appagamento…

Vorrei sottolineare che non si tratta di “capricci” o di isterismi da prime donne, la loro sofferenza è reale ed intensa. E lo è perchè sui voti questi ragazzi e queste ragazze misurano la loro intelligenza ed il loro valore personale. E’ per loro abbastanza scontato pensare che chi prende brutti voti (dal loro punto di vista lo è tutto ciò che è sotto l’8) è uno stupido e che, quindi, se vogliono capire se sono o meno intelligenti, è ai loro voti che devono chiedere il verdetto. Ed è altrettanto scontato per loro pensare che solo chi è intelligente vale, chi non lo è non vale nulla. Credo peraltro che queste credenze siano condivise in gran parte anche dal mondo degli adulti, altrimenti non se ne spiegherebbe la pervasività nei ragazzi.

Mi piacerebbe pensare che sia un’operazione superflua tentare di confutare queste idee, ma l’evidenza indica che non è proprio così, che forse è necessario ribadire e ripetere, affinchè le consapevolezze si possano consolidare.

Cominciamo dalla convinzione che il brutto voto sia frutto di stupidità. Immagino che chi legge abbia chiaro in mente che un brutto voto possa essere il frutto di scarso impegno, comprensione insufficiente, giornata storta (mal di testa, pancia, febbre…), preoccupazione ed ansia. Sì, perchè quando siamo molto preoccupati ed in ansia, la nostra mente è talmente sovraccarica di pensieri legati ai nostri timori, che non ha proprio lo spazio per elaborare efficacemente le consegne di un compito di matematica, o impostare la traduzione di una versione di greco, o costruire la scaletta di un testo di italiano. Ed allora accade che, nonostante un’ottima preparazione, il risultato della prova non sia eccellente. Cioè, può accadere che il timore di prendere un brutto voto generi una situazione di confusione mentale tale da generare proprio le condizioni per una prestazione scadente. Tra ciò che sappiamo e come lo dimostriamo, insomma, ci sono molte variabili, anche, ma non solo, di tipo emotivo.

Tuttavia, forse è venuto il momento di capire cosa sia questa stupidità. Mi si potrà rispondere che essere stupidi è l’opposto di essere intelligenti. Ma, anche accettando questa definizione per negazione, ci rimane da definire cosa sia l’intelligenza. Ed a questo punto avremmo bisogno di interi scaffali di biblioteche di psicologia, perchè è questo un tema su cui fin dagli albori della disciplina si è esercitata la riflessione degli studiosi. Io però non vorrei andare a ripescare la letteratura scientifica. Intanto vorrei cercare di capire cosa intendono i ragazzi, ed i loro genitori, con la parola intelligenza e poi mi riserverei di proporre un diverso punto di vista. Ho l’impressione che i ragazzi – in particolare quelli che temono i brutti voti – spesso pensino all’intelligenza come ad una sorta di app che possono avere o non avere nel loro sistema cognitivo e di cui emerge la presenza o l’assenza nei momenti delle verifiche e delle interrogazioni. Una sorta di dotazione di base che, o ce l’hai o non ce l’hai. Credo anche che spesso ereditino questa concezione dal mondo degli adulti che li circonda, mondo che tende ad enfatizzare, nella prestazione di atleti di eccellenza, ma anche di musicisti, attori, artisti, scienziati… il ruolo del talento a scapito di quelli della passione, dell’impegno, del duro lavoro e della perseveranza di fronte agli insuccessi (che sono i veri determinanti della prestazione eccellente).

Ricapitolando, fino ad ora, fra le nostre cause possibili per un fantomatico brutto voto, non abbiamo ancora rinvenuto la “stupidità”. Forse anche perchè, se ci fermiamo a pensare un attimo, ci rendiamo conto che le verifiche riguardano i contenuti di un insegnamento non le abilità delle persone. Ma procediamo con la nostra riflessione. Ribadisco, fino a qui possiamo dire che fra le cause di un brutto voto non sembra esserci la stupidità.

Ora, se i ragazzi partono dal presupposto che l’intelligenza sia una dotazione innata, è chiaro che vivono le verifiche come il momento in cui verrà sancito se sono stupidi o meno. Questo presupposto, però, non è vero: l’intelligenza non è una caratteristica “genetica” che alla nascita o c’è o non c’è, come gli occhi azzurri.

Dal mio punto di vista l’intelligenza è un qualcosa che ha molto a che fare con la capacità di imparare. Ritengo che questo un punto di vista sia utile almeno per un paio di ragioni. Innanzitutto ci permette di focalizzarci su qualcosa, l’imparare, di cui possiamo fare esperienza diretta ed inoltre, poiché è evidente che tutte le persone possono in generale imparare, ci permette di concepire l’incapacità di imparare, la stupidità, come un’eccezione alla regola, eccezione che deve essere spiegata di volta in volta da ragioni specifiche.

Ad esempio, sappiamo che esistono dei disturbi dell’apprendimento che hanno a che fare con la difficoltà specifica ad apprendere a svolgere alcune attività, come leggere o scrivere, ma non altre. Una persona con dislessia è in grado di imparare tantissime cose, è molto intelligente, ma fa molta fatica ad apprendere i meccanismi della lettura. Oppure sappiamo che gravi condizioni di denutrizione pregiudicano la capacità di imparare, perchè, in questo caso, sono proprio i meccanismi neurobiologici di base ad essere messi in difficoltà dalla mancanza dei nutrienti necessari al corretto funzionamento dei circuiti neuronali. Sappiamo anche che la nostra capacità di apprendere dipende tantissimo dalla nostra attenzione e sappiamo anche che quest’ultima viene molto influenzata dalle nostre emozioni. Per cui, banalmente, di fronte ad un medico che ci comunica una diagnosi, agitati come siamo, non riusciamo ad essere attenti e non memorizziamo bene ciò che ci dice.

Insomma ci siamo capiti: tutti possiamo imparare e, se a volte non ci riesce, la cosa interessante ed utile da fare è capire perchè, non pensare che siamo stupidi (=incapaci di imparare), perchè è evidente che non lo siamo (magari siamo dei maghi di Fortnight, o siamo in grado di suonare la Patetica di Behethoven senza spartito, o ancora ricordiamo perfettamente i compleanni di tutti i nostri amici). Allora, come adulti potremmo provare a trasmettere ai ragazzi la curiosità per i loro processi mentali piuttosto che dei giudizi sulla loro persona, l’entusiasmo per l’apprendere piuttosto che la paura dello sbagliare, e la serenità della consapevolezza che sì, sono in grado di imparare e quindi sì, sono intelligenti.

Un’ultima breve riflessione sul collegamento fra valore personale ed intelligenza.

Potete in parte intuire la mia linea argomentativa, immagino. Se con intelligenza intendiamo la dotazione di base che o c’è o non c’è, legare il valore personale all’intelligenza significa affermare che esistono persone che valgono e persone che non valgono. Legare, dall’altro lato, il valore personale all’intelligenza come capacità di apprendere significa, di fatto, affermare che tutte le persone hanno valore, ma apre alla possibilità che questo valore possa essere situazionalmente diminuito (come negli esempi fatti sopra), temporaneamente diminuito (come nei casi legati a patologie neurologiche reversibili o stati di shock) o definitivamente azzerato (come nei casi di gravi traumi cranici e demenze). Credo che la soluzione possa essere, semplicemente, pensare ed insegnare ai nostri ragazzi che come esseri umani il loro valore è assoluto e non risiede nella loro biologia, nella loro genetica, nella loro fisiologia o nella loro prestazione, ma nel loro essere persone, ai loro stessi occhi ed agli occhi delle altre persone.

L’identità di genere: me, myself and I

di Rosa Olga Nardelli

Il termine identità di genere indica il genere in cui una persona si identifica, ovvero se si percepisce uomo, donna o se si inserisce in qualcosa di diverso da queste due polarità: questa consapevolezza interiore porta, dunque, la persona a dire “io sono un uomo”, oppure “io sono una donna”.

L’identità di genere, come abbiamo già visto le scorse settimane, è un costrutto che non riguarda direttamente l’orientamento sessuale e non deriva dal sesso biologico: sebbene, nella maggior parte delle persone, l’identità di genere coincide con l’identità biologica di nascita, ci sono dei casi in cui, invece, non c’è corrispondenza tra i due costrutti e la persona prova malessere, disagio nella propria identità biologica.

Proviamo a spiegare e a chiarire.

L’identità di genere è un tratto di personalità che possiamo definire:

  • precoce, poiché inizia a costruirsi durante la primissima infanzia, ovvero già verso i 3/4 anni di età e prosegue per tutta la vita, fino a stabilizzarsi nel periodo post adolescenziale;
  • profondo, perché ha a che fare con qualcosa di nucleare per la persona, ovvero con una percezione di sé molto intima, difficile da spiegare e da definire con le parole;
  • duraturo, dal momento che si stabilisce presto e permane per il resto della vita della persona.

Nel corso dell’adolescenza, la definizione e la costruzione della propria identità assume un carattere fondamentale, poiché si tratta di una fase di ridefinizione del Sé e dell’immagine di Sé che si mostra agli altri e che si percepisce: in questo periodo della vita, dunque, la persona realizza un’idea di sé che assume sempre maggiore consapevolezza. E tale consapevolezza si inserisce, a sua volta, nella cultura di appartenenza e nel periodo storico a cui facciamo riferimento, dal momento che l’identità di genere è un costrutto strettamente legato al contesto in cui la persona è inserita – pensiamo, ad esempio, ai “due spiriti” della cultura dei nativi americani, agli eunuchi o ai “fa’afafine” di alcune società polinesiane, oppure alle persone definite “hijra” in India e “khawajasiras” in Pakistan.

Essere/sentirsi maschi o femmine, oggi o ieri, in questa o in un’altra cultura cambia notevolmente il significato che l’identità di genere possiede, proprio alla luce delle altre componenti dell’identità sessuale (ruolo di genere e orientamento sessuale) ed in relazione ad esse, sebbene non vadano confusi. 

Anche il corpo diventa una parte fondamentale nel processo di costruzione dell’identità, sebbene non sia esso a predeterminare né a causare le forme e i contenuti psicologici personali, le attitudini, le capacità e le possibilità della persona. Essere in un corpo e non riconoscerlo come proprio è un’esperienza che è difficile comprendere: è come indossare una scarpa destra al piede sinistro. Di per sé non è “sbagliato” – sempre di piedi e scarpe si tratta – ma camminare in quella condizione è molto scomodo, e rischia di procurare molto dolore. Per molto tempo si è detto che le persone che si identificano in un genere diverso da quello che il loro corpo dimostra soffrissero di “disturbo dell’identità di genere” e che questo fosse un disturbo mentale. Solo nel 2013 il DSM – Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (che raccoglie tutti i disturbi mentali) ha smesso di parlare di “disturbo” ed ha usato il termine “disforia di genere”, un’espressione che si usa per indicare il disagio sperimentato da alcune persone che non si riconoscono nel sesso dei loro organi genitali: appunto, come un piede sinistro in una scarpa destra.

La disforia può avere diversi gradi e ci sono persone che non si identificano pienamente con il proprio sesso biologico (definite “transgender”), altre per le quali il disagio rispetto al proprio sesso biologico è talmente forte che sono disposte a sottoporsi a cure ormonali e operazioni chirurgiche con l’obiettivo di conformare il proprio corpo alla propria identità di genere (in questo caso si usa il termine “transessuale”).

La disforia di genere è un fenomeno complesso che, sebbene raro, ha a che fare con l’adolescenza e con la ricerca di sé tipica dell’adolescente. Da tempi immemori se ne discute, e, come abbiamo visto, è presente in molte culture, anche in quelle molto lontane dalla nostra. Per questo motivo, in un momento storico in cui si discute di leggi a tutela della persona, di prevenzione alla discriminazione e alla transfobia, ribadiamo che è importante conoscere i termini corretti e provare ad indagarne i significati, in maniera tale da capire di cosa si sta parlando e, soprattutto, da comprendere la necessità di difendere l’unicità di ogni persona.

Adolescenti, sport e genitori

di Francesca Del Rizzo

Affronto oggi in questo articolo un argomento a me molto caro: il rapporto fra adolescenti e sport. 

Le statistiche dicono che l’adolescenza è il momento in cui molti fra i ragazzi e le ragazze abbandonano la pratica sportiva. Le ragioni sono molte ma le prevalenti hanno a che fare con l’aumento degli impegni scolastici e con fattori legati alla relazione fra allenatori ed atleti. A mio avviso hanno una certa importanza anche variabili legate alla struttura dello sport giovanile: in adolescenza la pratica sportiva diventa agonistica e 1) non tutti hanno le doti per la pratica  agonistica e 2) non tutti i ragazzi e le ragazze hanno voglia di investire nello sport così tanto del loro tempo e delle loro energie: molti vorrebbero semplicemente continuare a fare un po’ di movimento in compagnia, ma non ci sono molte opportunità in questa direzione.

Quindi mollano. Ed è un peccato.

Abbiamo ospitato in queste pagine il contributo di Piero Della Putta che ci ha incantato con l’intensità delle parole con cui ha raccontato la sua esperienza sportiva in adolescenza. Per Piero sport ha significato, in adolescenza, amicizia, impegno, maturazione, conoscenza di sé e degli altri, costruzione di un futuro professionale, benessere e salute

Ed è proprio così un po’ per tutti gli sportivi, sebbene secondo declinazioni e con sfumature specifiche ed individuali.

Ma non è questo l’aspetto su cui mi voglio concentrare ora. Nel rapporto fra i ragazzi e le ragazze e lo sport hanno un ruolo non secondario anche i genitori e c’è un loro comportamento che io trovo estremamente discutibile e che mi fa molto innervosire. Occupandomi anche di sport ho spesso sentito i genitori dire qualcosa tipo: ha tanto da studiare, non ha tempo per allenarsi

Ecco… non ci siamo, non ci siamo proprio. Salvo eccezioni puntuali, legate a concomitanze occasionali di verifiche ed interrogazioni plurime, i ragazzi e le ragazze possono allenarsi e studiare. Per gli atleti il cui impegno sportivo è particolarmente intenso, poi, grazie ad un protocollo di intesa fra Coni e Miur, le scuole possono riconoscere alcune facilitazioni specifiche, che permettano la conciliazione degli impegni presenti in entrambi i fronti. 

Ragazze e ragazzi possono quindi, appunto, studiare ed allenarsi, anzi, mantenendo attivi entrambi gli impegni imparano ad organizzarsi, ad ottimizzare il loro tempo, ad evitare di disperderlo inutilmente. 

Inoltre i genitori possono essere rassicurati dalle ricerche che dimostrano ormai ampiamente come l’esercizio aerobico stimoli la comparsa di nuovi neuroni nel cervello, in particolare nelle aree deputate all’apprendimento. In generale l’attività fisica stimola la produzione del fattore neurotrofico cerebrale (Bdnf – brain-derived neurotrophic factor) che consente il rimodellamento e la crescita delle sinapsi dopo l’esposizione a stimoli nuovi. Il Bdnf in altre parole facilita l’apprendimento e permette al cervello di essere più resistente ai danni derivanti da traumi ed infezioni. Ed ancora, l’esercizio fisico regolare aumenta il flusso di sangue nel cervello, alterandone in meglio la struttura e la funzionalità. Infatti l’esercizio stimola la sintesi, a livello muscolare, di una molecola chiamata fattore di crescita dell’endotelio vascolare (Vegf – vascular endothelial growth factor) responsabile della crescita della rete dei minuscoli vasi sanguigni che portano l’ossigeno e le sostanze nutritive alle cellule. Dai muscoli, infatti il Vegf si diffonde in tutto il corpo, anche nel cervello, dove, appunto, contribuisce alla migliore nutrizione dei neuroni.

Altre ricerche si sono invece concentrate sul cambiamento delle caratteristiche di personalità in funzione dell’esercizio e ciò che evidenziano è che la mancanza di esercizio è correlata ad una diminuzione dell’apertura mentale, dell’estroversione e dell’amicalità.

Infine l’attività fisica ha un ruolo importante nel migliorare l’umore, tanto che vi è una linea di ricerca impegnata a cercare di capire se camminare, ad esempio, possa essere considerato un fattore terapeutico nella cura della depressione.

Insomma ce n’è abbastanza per riflettere: praticare uno sport fa bene al corpo ma anche alla mente, se poi si tratta di un gioco sportivo (pallavolo, rugby, pallacanestro, calcio, tennis etc.) ai benefici dell’attività aerobica si aggiungono i benefici legati al giocare. Di nuovo: le ricerche dimostrano come giocare favorisca la produzione del Bdnf nelle aree cerebrali frontali e prefrontali, quelle legate allo sviluppo delle capacità di riflessione, autocontrollo, empatia, ragionamento prosociale, autoregolazione emotiva, pianificazione ed immaginazione, creatività

Credo che come genitori dovremmo quindi considerare la pratica sportiva un elemento necessario al benessere generale dei nostri ragazzi.

Rassicurante, deludente quotidianità

di Sara Feltrin

Quanta intrepida attesa per il rientro a questa “normalità”, a quella quotidianità che ha sempre saputo scandire, con ordinaria costanza, le nostre giornate, i nostri impegni, i nostri appuntamenti di vita. Per quanto l’abbiamo aspettata, questa rassicurante quotidianità, dopo mesi e mesi di un lockdown che ha messo un freno ai quotidiani programmi in agenda, ai progetti futuri e a quelle banali ma fondamentali abitudini che sanno di conforto e ci danno la sensazione di avere il controllo delle cose, avere in mano la nostra vita! 

Quella rassicurante quotidianità che per bambini e ragazzi significa alzarsi ogni mattina per andare a scuola, fare una colazione da campioni per tenere a bada stomaco ed energie fino all’ora della ricreazione, prendere il bus e tenere il posto all’amico o percorrere la strada in auto in compagnia delle solite raccomandazioni di mamma o papà; significa anche l’entusiasmo e la voglia di ritrovarsi fuori della scuola con amici e compagni e, perché no, anche meno amici e concorrenti, perché anche loro, in qualche modo, rientrano in quella significativa famiglia, la seconda famiglia, che dà senso di appartenenza ad un gruppo, comprensione e vicinanza; significa anche didattica: interrogazioni e verifiche che hanno sempre portato quel pizzico di sale e angoscia per delle prestazioni che poi finiscono sempre con un voto, un giudizio, un numero, capace di portare l’umore alle stelle o affondare nello sconforto. Rassicurante quotidianità per i nostri giovani significa anche responsabilità scandita a piccole dosi, e l’ottica di un futuro prossimo nel prepararsi vestiti e zaino per la curiosa aspettativa del giorno dopo. 

Per i più grandi invece, la rassicurante quotidianità può significare un rientro al lavoro più pacifico e distante dal pensiero dei figli bloccati a casa; può significare più tempo libero per sé: dallo sport allo svago dello shopping, le uscite in famiglia e gli appuntamenti con gli amici; rassicurante quotidianità vuol dire anche riprendere il proprio ruolo professionale, tornare alle proprie competenze lavorative, con stress più o meno annesso, e a quella sensazione di padronanza che fa sentire vivi, attivi e intraprendenti; significa anche stipendio, possibilità economica e progetti, magari lasciati in sospeso.

Dopo lunghi mesi vissuti in balìa di un Virus, direttive e regolamenti ministeriali, ognuno si riprende i propri desideri, obiettivi, oneri e doveri. Ognuno si riappropria, pian piano, della propria libertà e della propria autonomia tornando ad essere protagonista attivo e proattivo verso il futuro. Quel futuro che era stato lasciato momentaneamente da parte perchè “con sto Virus non si può sapere”; quel futuro che era stato frenato improvvisamente perchè l’incertezza era all’ordine del giorno. 

E’ da poco iniziata la scuola, siamo a due settimane dalla ripresa e ancora ci sono ragazzi che quest’anno la scuola non l’hanno ancora mai vista e che, dopo un lungo, lunghissimo periodo in cui anche le vacanze estive si sono mescolate alla penombra del lockdown, si sono trovati nuovamente di fronte allo schermo di un pc in attesa della videolezione o della chiamata del compagno di classe che riferisse i compiti assegnati. 

Un flashback.

Un déjà-vu.

Ecco che allora espressioni come “Sono stufo. Non ho voglia di alzarmi. Voglio tornare a scuola e basta. Svegliarmi, prendere il bus e rompermi le scatole perchè non ci sono posti” diventano lecite di fronte all’aspettativa dell’entusiasmante rientro a quella rassicurante quotidianità a cui tutti siamo ancorati. Perché sì, nel marasma dell’incertezza, anche quelle piccole, seppur scomode, incertezze diventano abitudini significative e pilastri resistenti a cui appendersi in caso di oblio. Parlo di oblio perché è difficile pensare ad un panorama fiorito, per loro, in questo momento. E’ difficile immaginarlo per noi adulti, figuriamoci per chi, come loro, non riesce nemmeno ad immaginarsi in che direzione sia il futuro, né, tanto meno, che strada intraprendere. Così sogni e desideri, già annebbiati e insicuri in partenza, faticano sempre più a trovare conferma e un collocamento stabile in quel futuro che, chissà. E’ vero che sogni e desideri sono sempre stati, per definizione, concetti astratti in cui credere e sperare. Questa volta però, in questi anni a venire, manca l’ingrediente fondamentale: la motivazione. Si è motivati nel momento in cui si crede profondamente che la scelta fatta sia valida e piacevole e che l’obiettivo porti serenità e soddisfazione, nonostante ostacoli e difficoltà. Si è motivati nel momento i cui si crede nei propri sogni. E quando si crede fermamente nei propri sogni, si possono superare tutte le difficoltà.

Banalmente, è un pò come alzarsi dal letto la mattina per andare a scuola: non importa quali siano le difficoltà, trovare posto o meno nel bus, la voglia di andare a scuola, intraprendere e seguire un obiettivo, rimane ferma.  

Non è facile crescere su queste basi poco sicure, crescere e maturare la propria individualità, soprattutto se il massimo dell’espressione, ora, è nascosto dietro mascherine, gel igienizzanti e distanziamento sociale. E’ una battaglia, non tanto contro la società o le Istituzioni, quanto piuttosto contro quel Sé ideale, quel vorrei essere che, già difficile da scovare e scoprire, non è facile inseguire poiché spesso si trova sconfinato in un profilo social, non riuscendo, nella vita reale, a trovare una sana e coesa manifestazione. 

Ecco che allora quella rassicurante quotidianità ha profondamente deluso ogni aspettativa: oltre a non aver portato alcuna rassicurazione, ha aggiunto sconforto e disillusione per quel futuro già precario di per sé. Forse, essere troppo ancorati alle abitudini del passato con una legittima, ma disfunzionale, pretesa che l’adesso sia come il prima, ha deviato troppo il panorama che ci avrebbe aspettato.

Forse quindi, non ci sarà una rassicurante ripresa, ma sicuramente ci aspetta una nuova partenza che molto probabilmente non ha nulla a che vedere con le riprese degli anni passati, ma avrà un altro sapore mai provato prima, altre opportunità e altre rassicurazioni su cui potremo ri-adattare i nostri progetti futuri. 

Quanto ai nostri ragazzi, in una società che ha perso molte certezze, hanno bisogno di un’àncora che li rassicuri e li aiuti ad intravedere la luce anche nel più tenebroso dei panorami; un’àncora che li protegga dai venti avversi per evitare che perdano di vista la strada, il loro obiettivo, le speranze dei loro sogni. Che ricordi loro chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Così, nel peggiore dei panorami, se anche molte cose intorno si sgretolano e crollano, loro, grazie a noi, figure di riferimento essenziali, sapranno imparare a stare a galla. 

Coming out o outing?

di Rosa Olga Nardelli

Nei giornali, nei social, in tv sentiamo sempre più spesso parlare di omosessualità e bisessualità: si discute di diritti civili (vedere le recenti discussioni in Parlamento sulla legge Zan contro l’omofobia) e di matrimonio egualitario, in un clima più o meno civile e da parte di persone più o meno esperte; ci sono libri, film e serie tv che affrontano l’argomento (solo per fare degli esempi: il libro appena uscito “Caccia all’omo” di Simone Alliva, il film premio Oscar “Chiamami col tuo nome” (tratto dall’omonimo libro di André Aciman), la seguitissima webserie “Skam”); ci sono i progetti nelle scuola che parlano di prevenzione al bullismo omofobico; tanti personaggi pubblici hanno dichiarato la propria omosessualità e bisessualità (vedi ad esempio l‘articolo da noi pubblicato).

Se ne parla molto di più che in passato, fortunatamente, ma non sempre si conosce veramente l’argomento, tanto che spesso se ne parla in maniera poco appropriata, mescolando i termini e i significati.

In particolare, ci soffermiamo oggi su due parole che vengono spesso confuse e il cui uso non è sempre corretto, poiché fanno riferimento a due costrutti molto diversi: coming out e outing.

Il termine coming out è la contrazione di coming out of the closet, letteralmente uscire dal ripostiglio, dall’armadio, ovvero uscire allo scoperto: nel mondo LGBT l’espressione coming out significa dichiarare volontariamente al mondo il proprio orientamento, vuol dire prendersi la responsabilità di dire agli altri di essere omosessuale, bisessuale o – udite, udite – eterosessuale. Ebbene sì: anche dichiarare il proprio orientamento eterosessuale è fare coming out, ma nel nostro articolo ci concentreremo sul coming out di una persona omosessuale o bisessuale.

L’omosessualità – e la bisessualità – viene definita dagli studiosi come uno stigma nascondibile, nel senso che è la persona stessa a decidere se rivelare o meno il proprio orientamento, a differenza, ad esempio, del colore della pelle: questo, se da un lato consente un atteggiamento protettivo nei propri confronti (es. se sento di essere in pericolo, posso decidere di non rivelare il mio orientamento), dall’altro crea una situazione di continua negoziazione sociale e la persona vive continuamente la questione della visibilità. “Lo dico? Non lo dico? A chi lo dico? Come lo dico? A chi posso dirlo? Come la prenderà? Mi rifiuteranno?”, in un vortice di domande automatiche e di velocissime considerazioni, ci si trova a cercare di anticipare le conseguenze di ciò che si sta per dire, a cercare di frugare nelle reazioni altrui, probabilmente con un velo di preoccupazione addosso. In sostanza, il coming out è un processo continuo, che non ha mai fine, lo si fa coi genitori e alle riunioni di famiglia, con gli amici e coi compagni di classe, sul luogo di lavoro, in albergo e quando si prenotano i posti per congiunti ad un concerto, con l’agente immobiliare, quando si racconta delle proprie vacanze o di un incidente in casa: la risposta ad una domanda all’apparenza banale (“dove sei stato questo weekend?”) può diventare un momento critico, in cui è necessario decidere cosa raccontare di sé e della propria vita. Per questo motivo, il continuo affollarsi di queste domande in testa viene definito rumore bianco, ovvero uno stress sempre presente, un’ansia anticipatoria collegata a minority stress (vedi l’articolo sull’omofobia interiorizzata).

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Se guardiamo l’altro lato della medaglia, però, possiamo definire il coming out come un atto di amore nei confronti di sé stessi, perché in questo modo non lasciamo che il giudizio degli altri condizioni il nostro giudizio su di noi, perché l’omofobia interiorizzata non ci renda prigionieri di noi stessi, perché possiamo avere sempre meno paura di dire: io sono lesbica, sono gay, sono bisessuale.

Tutt’altro discorso va fatto per l’outing.

L’outing è la rivelazione pubblica dell’omosessualità/bisessualità da parte di terzi senza il consenso della persona interessata; il termine proviene da out, traduzione dell’avverbio fuori, nel senso di buttar fuori dall’armadio e venne coniato dal Time a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90. In Italiano spesso il termine outing viene impropriamente confuso con coming out, ma si tratta di una confusione piuttosto grave, dal momento che possiamo definire l’outing come una vera e propria forma di bullismo omofobico.

L’outing dell’omosessualità (o bisessualità) di una persona viene fatto, solitamente, senza che lei ne sia consenziente o contro la sua volontà, diventando, di fatto, una violenza: tale esposizione può rivelarsi potenzialmente pericolosa, poiché quella persona non vuole o non è in grado di affrontare le conseguenze, oltre a rappresentare una violazione delle sue decisioni.

Coming out e outing sono due atti molto potenti ma, dal momento che l’orientamento sessuale è una dimensione nucleare dell’individuo, hanno strettamente a che fare con la dimensione di consapevolezza.

Facciamo un esempio, inerente il contesto scolastico: un ragazzo può decidere di fare coming out, di dichiararsi omosessuale, per varie ragioni (es. affermare la propria identità, come atto di coraggio, per condividere le proprie esperienze coi pari, etc.) e in tal caso si assume, consapevolmente, la responsabilità delle sue azioni e del suo gesto, che a volte può essere anche liberatorio. Diverso è se subisce outing da parte dei compagni: in questo caso, quel ragazzo può, ad esempio, non essere pronto a dirlo agli altri, può aver paura di essere preso in giro o che la notizia arrivi agli insegnanti e alla propria famiglia, può essere in difficoltà con il proprio orientamento e, di conseguenza, sentirsi confuso, può sentire gli occhi puntati addosso come un “sei sbagliato”, e così via. 

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Se diciamo che sono le parole a dare forma al pensiero, non possiamo ignorare la differenza sostanziale che esiste tra coming out e outing. Questo è il motivo per cui utilizzare un linguaggio corretto e adeguato, con consapevolezza dei significati che le parole hanno e delle implicazioni che portano con sé, è sempre un’ottima idea. Per lo stesso motivo, inoltre, è importante incoraggiare il coming out dei ragazzi ed evitare accuratamente l’outing, poiché anche quello fatto più “in buona fede” e con le migliori intenzioni, può diventare un boomerang e rivelarsi una pessima idea.

Diamo spazio ai ragazzi, rispettiamo i loro tempi e le loro modalità, diamogli il rispetto che meritano in quanto artefici della loro vita e delle loro scelte: solo in questo modo favoriremo l’autenticità della comunicazione e la condivisione vera degli affetti, diventando alleati e non nemici.

E se siamo delle persone LGBT che vogliono fare coming out? Ecco cosa possiamo fare:

  • prendiamoci tempo e spazio per conoscerci, per informarci, per capirci e ascoltarci meglio;
  • prepariamoci a varie reazioni, non tutto va come nei film, nel bene e nel male: i nostri amici o famigliari possono sorprenderci accogliendoci e ascoltandoci, oppure possono avere reazioni aggressive. Consideriamo sempre che, magari, anche loro hanno paura di ciò che sta accadendo o che non hanno gli strumenti per far fronte a questa rivelazione;
  • cerchiamo, eventualmente, sostegno: che sia di un amico o di un esperto o di una associazione, che sia un supporto o un semplice consiglio, parlarne con qualcuno è sempre un’utile soluzione.

Il futuro è settembre. Forse

di Sara Feltrin

Finalmente le tanto attese e meritate vacanze! La tipica esclamazione che caratterizza l’avvicinarsi del periodo estivo. Quest’anno però non è proprio così, almeno per una gran parte di noi. 

Vacanza vuol dire mollare tutto, abbandonare sedia e scrivania, accantonare carte e scartoffie e nascondere, più o meno forzatamente, l’agenda nel cassetto, per timore che la sua presenza in qualche modo rovini le ferie

Vacanza vuol dire raggiungere un posto meraviglioso dal mare cristallino e assaporare l’aria marittima, la sfida di una scalata in montagna, il campeggio con i bambini o qualche tour in città. Per altri invece, vacanza vuol dire puro relax e la casa, o la baita in montagna, sono sempre i migliori congedi in cui riposare.

Ma, al di là di queste faccende pratiche, che cosa significa davvero andare in vacanza? Significa libertà, togliersi di dosso i pesi e le responsabilità che appesantiscono tutto l’anno e ripristinare il contatto con il proprio , le proprie passioni, con ciò di cui abbiamo bisogno, unico indispensabile e fondamentale ingrediente per poter stare bene

Ma quest’anno, o meglio, questi mesi di un 2020 così tartassato e insicuro, le vacanze estive invece di risollevare gli animi rappresentano quasi una minaccia alla salute pubblica e un dilemma angosciante al dove vado che c’è il Covid dietro l’angolo?

Oggi, estate 2020, di cosa abbiamo veramente bisogno? E’ proprio quel mare cristallino o quella vetta di montagna che sopperirebbero al nostro bisogno di….. di?

Le vacanze quest’anno hanno un altro sapore, il sapore del timore di una pandemia mondiale, il sapore dell’insicurezza politica ed economica, dell’incertezza di poter tornare al proprio posto di lavoro e tra i cari vecchi banchi di scuola. 

Che vacanze sono queste, in cui tanti lavoratori vivono con il dubbio sul futuro della propria azienda, che “Non so se quando rientrerò il Covid farà chiudere l’intera azienda” e dove i contratti a tempo determinato sono destinati a non essere rinnovati?

Ma soprattutto, che vacanze possono essere quelle dei nostri ragazzi che, concluso un anno scolastico confuso e caotico, non sanno nemmeno se tra i banchi di scuola ci torneranno? E, se ci torneranno, la scuola di sicuro non sarà più la stessa, forse nemmeno i banchi di scuola che hanno accompagnato generazioni e generazioni di studenti, che verranno sostituiti da rigide sedie in plastica scura con tavolozza annessa che non ammette spazio a nient’altro che un libro.

Appare nostalgica, e ora utopica, la concezione di vacanza che fino allo corso anno caratterizzava tutte le estati di ogni studente quando la sveglia termina di esistere, i compiti e lo studio vengono rimandati ad agosto (e forse anche un pò più in là) ma la cosa più importante e fondamentale è quell’attesissima e beata spensieratezza  accompagnata dalle uscite e le scampagnate con gli amici. 

Mah, non hanno tanto senso queste vacanze perchè non mi è sembrato neanche di andare a scuola quest’anno”. Certo, perchè quest’anno la scuola è rimasta per troppo tempo in stand-by, c’era, ma non c’era. Le lezioni quest’anno non avevano sapore, come non hanno sapore queste vacanze in cui l’ingrediente fondamentale, le relazioni con amici e coetanei, vengono controllate e limitate a prova di mascherina. Vacanze scandite quotidianamente dagli interventi del TG o del ministro dell’istruzione che ogni mattina contribuiscono all’incertezza e alla confusione verso l’imminente futuro, il 14 settembre per l’appunto. Sentimenti di delusione e angoscia che minacciano di polverizzare i piccoli grandi progetti che ogni ragazzo persegue da tempo: iscriversi alla facoltà di Lettere o Medicina, studiare all’estero, il test d’ingresso, l’esame per la patente, l’acquisto dello scooter, la vacanza dai parenti lontani, ecc ecc. Progetti che, per quanto poco, danno senso e forma al futuro dei nostri piccoli grandi ragazzi che si stanno affacciando proprio ora alla vita del futuro e che ora rischiano di vedersi costretti a cambiare rotta e seguire la scia del vento. 

Quindi, i nostri  giovani come possono godersi queste vacanze quando anche un innocuo raffreddore si trasforma in una minaccia alla salute pubblica e un lieve mal di gola il preludio ad un’angosciante quarantena? 

E’ vietato ammalarsi anche perchè, se per sbaglio scappa uno starnuto al supermercato, scatta la gara a chi sta più lontano dal malato con sguardi infami e terrorizzati che chi se li toglie più, poi.

Sono vietati gli assembramenti. Ma cosa significa assembramento, nel mondo dei giovani e degli adolescenti? Quali sono i limiti di vicinanza fisica spiegata a quei quindicenni che costruiscono la loro quotidianità, il loro essere e la loro vita proprio grazie al contatto fisico (che per loro non è solo fisico ma anche mentale, affettivo ed emotivo)? Come si spiega ai nostri ragazzi che la mascherina è obbligatoria quando spesso noi adulti, sbadatamente o meno, siamo i primi ad entrare nei locali senza la mascherina?

Sarebbe una punizione troppo crudele quella del “non uscire alle feste con i tuoi amici perchè sennò si creano assembramenti” Che cos’è esattamente un assembramento? Un gruppo di 5 persone può definirsi tale? Si può uscire sì, ma non troppo vicini? Quali alternative ci sono che possono, realmente e concretamente, rispettare le indicazioni dell’OMS? E’ difficile capirlo per noi adulti (oppure forse non vogliamo capire?) figuriamoci insegnarlo a loro, in un mondo di confusione e incertezza fuori (il nostro), un mondo di caos e insicurezze dentro (il loro) e scariche di ormoni impazziti. 

Ma molto spesso ad attenersi diligentemente alle indicazioni sono proprio i nostri adolescenti, che sembrano schierati tra chi, la questione del Covid-19, la prende sul serio e chi invece ritiene il virus un’entità poco probabile e lontana dal rischio. Comportamenti leciti da un certo punto di vista, d’altronde non desideriamo altro che questa pandemia se ne vada al più presto, mascherine e igienizzanti compresi. Indossare la mascherina non è più la novità del momento, l’estrosità di casalinghe impegnate a cucire pezzi di stoffa unici e colorati; indossare la mascherina ora significa ricordare a noi stessi che il virus esiste ancora, che non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia e che il pericolo è sempre dietro l’angolo. Spesso forse, dimenticarla o non indossarla non è solo pura dimenticanza. 

Quello che si prospetta sarà per tutti l’inizio di un nuovo corso, scandito da numeri e regole, tra l’ansia di un nuovo lockdown e la speranza di una nuova ripresa. Saremo diversi, come saranno diverse le nostre, nuove, abitudini, diverse prospettive e le garanzie del futuro, la consapevolezza di noi stessi e di quel che abbiamo vissuto fin’ora, chi più e chi meno. 

Ma i veri protagonisti ora sono loro, quei giovani che fino a qualche mese fa sognavano di iscriversi a Lettere e diventare insegnanti e ora deviano i binari verso la facoltà di Medicina o Infermieristica oppure un corso OSS per aiutare la fascia più debole. Sono loro al primo posto dell’incertezza di settembre, a cavalcioni su un equilibrio precario tra il devo e il vorrei, che si trovano a fare i conti con un futuro incerto e poco promettente già in partenza. Penso che gran parte del supporto e del sostegno vada proprio a loro, alla loro speranza del costruirsi e del costruire un futuro che possano meritarsi. 

In attesa di fare… la bibliotecaria

di Lea Del Negro*

Ci penso ogni tanto alla mia adolescenza, ma non la rimpiango. Se esistesse la macchina del tempo non tornei negli anni Ottanta a Pordenone, per vedermi con il fiocco di pizzo bianco in testa ad imitare Madonna e le scarpe finte Timberland. Non sono mai stata un’adolescente tormentata, ma ripensando a me stessa mi sento cogliere da una certa tenerezza mista ad imbarazzo. A quella ragazza sono di certo mancati dei modelli importanti, una figura di riferimento carismatica: mi piacevano tutte le cose che ora mi fanno storcere il naso, come la musica di Eros Ramazzotti tanto per dare un’idea.

Lo ricordo come un periodo di transizione, sereno, ma di preparazione ad altro. Sarà che ho frequentato la Ragioneria, che mi faceva abbastanza schifo, solo per corrispondere alle aspettative dei miei genitori. Ecco, io l’adolescenza, il periodo delle scuole superiori, l’ho trascorso in attesa di fare altro, di avere un po’ di indipendenza, soprattutto di pensiero. Poi finalmente finite le superiori sono potuta andare all’Università (Lettere) ed è cambiato tutto. Dopo anni in trincea senza grandi aspettative ero al posto giusto nel momento giusto. Gli anni opachi delle superiori si sono allontanati: è stato come mettere gli occhiali dopo un periodo di miopia e vedere tutto brillante.  Agli incontri di presentazione i docenti come prima cosa ci avevano avvertito che stavamo scegliendo una facoltà anacronistica, con pochi sbocchi lavorativi, fatta eccezione per l’insegnamento. Questo mi aveva motivata ancor di più: che sfida riuscire a vivere di letteratura.

Ma come ero giunta a quella scelta? I libri erano importanti per me?  Sono cresciuta con loro, desiderandoli, ma senza mai averne un accesso diretto. Da piccola in casa ne avevo alcuni che leggevo ossessivamente (Heidi, Senza famiglia, Piccole donne, le fiabe di Andersen ecc.), ma erano altri tempi e le biblioteche non erano accessibili ai piccoli come lo sono ora. Non che fosse vietato andarci, ma  …. la mia biblioteca cittadina era immersa nel grigiore delle proprie scaffalature. Il mio primo ingresso si era risolto in una grande delusione, soprattutto perché nessuno al bancone del prestito aveva colto il mio spaesamento, aiutandomi a cercare qualcosa che potesse piacermi. Sono tornata in quel grigiore solo molti anni dopo, da universitaria, già in grado di muovermi autonomamente per le sale, ma della mia prima esperienza mi è rimasto un rimpianto, un qualcosa di irrisolto che ora invece ho risolto benissimo. Se parliamo invece di librerie non era abitudine dei miei genitori portarmici, tanto che molti dei libri che possedevo mi erano stati regalati.

I colori della Biblioteca di Lea

Mi piaceva follemente leggere, ma lo facevo in modo bulimico e senza selezionare, andava bene tutto quello che trovavo. Per me era lo stesso passare dagli Harmony di mia nonna, agli Agatha Christie delle mie cugine, leggendo, se non avevo altro, il giornale di mia madre e non stavo a sottilizzare se fosse Confidenze o Grand Hotel. Bramavo le storie, volevo leggere. A pensarci ha un senso, alla luce della professione che ho scelto. 

All’Università ho recuperato tutti gli arretrati e ho letto, letto e letto senza averne mai abbastanza, persino delle cose pesanti e noiose che ora non avrei più la forza di affrontare. Terminati gli studi, prestando volontariato presso una piccola biblioteca di quartiere ho incontrato quella che ora è una delle mie migliori amiche e che già all’epoca aveva le idee molto chiare sulla sua futura professione. Lei voleva fare la bibliotecaria. Che idea stupenda la sua! Non poteva adattarsi anche a me? Non me ne sono mai pentita.

Lea in biblioteca

Questo lavoro mi ha dato tantissimo e mi mantiene in contatto con le persone e con le storie. Posso dire di essermi anche riappropriata della mia adolescenza e la sento più vicina ora che allora; la vedo ogni giorno nei volti dei miei giovani utenti, quelli che chiedono un consiglio e quelli che non vogliono che io rompa loro le scatole. La mia biblioteca deve essere associata al colore e non al grigiore e soprattutto deve essere associata al calore, perché nessun giovane utente possa entrare e sentirsi respinto. Tra gli scaffali ci sono oltre 18.000 storie che aspettano di venir lette e sono tutte alla ricerca di un lettore. Io sono un po’ la prescelta a far nascere questi incontri. Il panorama editoriale per ragazzi al momento è ricco e composito e io mi ci perdo dentro: sono i libri che avrei voluto che qualcuno mi consigliasse all’epoca! Non importa, nonostante il ritardo, quelle storie sono anche per me, c’è sempre tempo per migliorarsi, apprendere e conoscere. C’è sempre tempo per leggere.

Negli ultimi tempi, con un’amica conosciuta in biblioteca, ho anche aperto un blog; scriviamo dei libri che ci sono piaciuti, quindi anche nel tempo libero cerco di fare quello che faccio al lavoro, promuovere la lettura. Ho questa assurda e incrollabile convinzione che il mondo potrebbe essere un posto migliore se si leggesse di più, perché entrare in diverse trame e storie stimola l’empatia. Leggendo riesci a comprendere anche le ragioni degli altri e quando questo accade l’altro non è più ALTRO. Immagino di essere ancora un’idealista. Se è un difetto spero di non perderlo mai.

Torno indietro con il pensiero alla me adolescente e mi sorrido da una distanza siderale. Mi piace quello che sono diventata e ho ancora margine per un miglioramento, un’ottima motivazione per affrontare ogni giornata.

Dimenticavo…ora ascolto gli AC/DC. 😊

* Impiegata dal 2000 in qualità di bibliotecaria presso un Ente locale. Organizzatrice per conto del proprio Comune  della rassegna “Prata d’autore” (che ha ospitato, tra gli altri, autori come Ilaria Tuti, Enrico Galiano, Andrea Maggi, Matteo Bussola, Francesco Vidotto e Sara Rattaro. Dal 2005 insieme a Stefania Baccichetto cura un blog che si occupa di libri per adulti e ragazzi (Duettriciquasiperfette).

Recensioni 1: L’età dei sogni

di Francesca Del Rizzo in collaborazione con “Due lettrici quasi perfette”

L’omicidio di George Floyd e il movimento Black Lives Matter ci stanno facendo riflettere – perché davvero non è mai abbastanza – sulla persistenza di pensieri, atteggiamenti, comportamenti, delitti razzisti anche in questo XXI secolo di ipermodernità.

In molte occasioni su questo sito abbiamo avuto modo di illustrare atteggiamenti discriminatori nei confronti, in particolare, delle persone con orientamento non-eterosessuale. Ora è venuto il momento di rivolgere il nostro sguardo al problema della discriminazione razziale, almeno cominciamo e almeno ci proviamo. E proviamo a farlo grazie alla collaborazione di Lea e Stefi, le nostre due amiche autrici del blog “Due lettrici quasi perfette”.

Instancabili lettrici e persone attente e competenti, raccolgono nel loro blog una quantità importante di recensioni fra cui abbiamo trovato particolarmente interessante in questo momento quella che riguarda il libro L’età dei sogni di Annelise Heurtier, un libro adatto anche per adolescenti che anche di adolescenti racconta.

Esso si ispira infatti a ciò che è accaduto nel 1957 ai “nove di Little Rock”, i nove ragazzi neri che per primi furono ammessi al liceo pubblico – bianco – di Little Rock in virtù dei loro meriti scolastici. Per far rispettare il loro diritto ad entrare a scuola il presidente Eisenhower dovette inviare l’esercito, ma, nonostante questa protezione, i ragazzi e le loro famiglie continuarono ad essere oggetto di aggressioni e discriminazioni. Trovate qui un articolo che racconta questa storia e che può essere fonte di ulteriori informazioni, oltre che di documentazione fotografica.

Questa è la trama del libro: Settembre 1957, Grace e Molly hanno 15 anni e sono alla vigilia di un anno scolastico importante. La prima è la reginetta della scuola, con una famiglia benestante alle spalle e gli amici che l’adorano; la seconda è tra i nove studenti neri ammessi per la prima volta nella storia degli Stati Uniti a frequentare un liceo di bianchi. Entrambe hanno qualcosa da imparare l’una dall’altra: Grace dovrà superare le barriere del conformismo e cominciare a pensare con la propria testa, Molly dovrà accettare la mano tesa da parte di chi pensava provasse solo odio nei suoi confronti. 

La figura di Molly è proprio ispirata a quella di Melba Pattillo, una delle ragazze nere dei nove di Little Rock. Lea ci racconta che Molly “si trova ad  accettare quell’anno in un liceo di bianchi senza stare troppo a rifletterci, ma  quella decisione stravolgerà per sempre la sua vita.  Pagherà il prezzo che viene richiesto a tutti quelli che hanno il coraggio di aprire la pista e spianare la strada agli altri. E’ un cammino di solitudine, senza vera  riconoscenza da parte di nessuno. Alla fine è così che funziona: c’è chi sacrifica e quello che ne riceve in cambio, nel caso più fortunato, è l’ indifferenza.” 

i nove di Little Rock

La figura di Grace rappresenta invece l’opposto di Molly: è la classica “reginetta della scuola. A lei interessano i vestiti e i ragazzi (uno in particolare) e per nulla le questioni inerenti la razza”. Succede però che “Assistere a tutte le umiliazioni a cui è soggetta giornalmente Mary, porta Grace a farsi delle domande, a chiedersi perché le cose debbano andare in  quel modo. All’inizio è solo un interrogarsi, un fastidio indistinto che a poco a poco la porta ad una presa di posizione. Le conseguenze non tarderanno ad arrivare. Il libro non ci risparmia la sofferenza che nasce dall’assistere a queste gravi ingiustizie e infligge al lettore una grande, grandissima amarezza, appena mitigata dalla speranza. L’autrice è riuscita a scrivere un romanzo potente, senza sbavature, mai moralista o didascalico.” 

Immergersi nella Storia, anche recente, attraverso le storie delle persone che l’hanno fatta o attraversata – anche quando sono figure solo ispirate ai protagonisti reali – ci permette di partecipare a ciò che è stato, di sentirne il peso, perché ci identifichiamo con quelle persone, arriviamo a viverne le emozioni, le fatiche, le paure e le speranze. Facciamo esperienza con loro, ed i grandi Eventi non sono più solo una pagina di Wikipedia o “qualcosa di cui ho sentito parlare”, ma possono diventare parte di noi, parte del nostro patrimonio di vita.

Possiamo così conoscere e sentire vicino e prossimo, ciò che sembra lontano e distante. La discriminazione, in tutte le sue forme, è frutto di mancanza di conoscenza che genera paura che genera distanza che genera mancanza di conoscenza in un circolo vizioso e perverso.

Noi di Teen&20 ringraziamo Lea per questa recensione che ci introduce ad uno strumento utile a ricucire la distanza ed invitiamo tutti coloro che ci leggono a fare propria anche la storia di Molly e Grace. A conoscere, non temere, avvicinare.

La mia stanza

di Giorgio Zanier*

Era un martedì del lontano Febbraio del 1978, tutto il pomeriggio l’avevo trascorso a bussare le porte delle case per recitare la filastrocca in cambio di  qualche uovo e poche monete. Un’usanza che a Carnevale io e i miei compagni di scuola ripetevamo religiosamente ogni anno nel pomeriggio del martedì grasso. Anche quel giorno andò tutto come previsto. Un travestimento per il pomeriggio e uno per il ballo in maschera che si sarebbe tenuto alla sera nella sala parrocchiale del paese . 

Del resto in quell’epoca la Tv era a un canale solo e gli eroi da imitare erano davvero pochi: Tarzan, Zorro, Topolino e pochi altri. Così con un abito da Zorro (tassativamente fatto in casa) nel pomeriggio e un abito da vecchia adattato alla maschera acquistata per la sera, anche quell’anno avremmo rinnovato la sfida tra amici: presentarci con due travestimenti diversi per poi decretare il vincitore in colui che veniva riconosciuto per ultimo. 

Cosi anche quella sera di mi presentai al ballo in maschera con l’intento di non farmi riconoscere, fino a quando improvvisamente notai la presenza di un gruppo musicale. Essendo una serata danzante mascherata ci stava. Del resto anche d’estate durante la sagra del paese vi erano sempre gruppi musicali a animare le serate. Quel martedì grasso invece vi era qualcosa di completamente differente che attirò la mia attenzione. Si perché questa volta a differenza di tutte le altre alla batteria sedeva un bambino della mia età. 

Quando realizzai il tutto rimasi completamente pietrificato. Fino a quel momento avevo pensato che i batteristi fossero sempre stati adulti per cui anche se volevo suonare la batteria nel corso dei miei 11 anni sapevo che avrei avuto comunque tempo per farlo e anche l’organista della chiesa, il mio primo mentore, mi ripeteva spesso che una volta più grandicello (ritornello che non sopportavo dato che l’avevo sentito pronunciare centinaia di volte anche in famiglia) avrei potuto imparare a suonare la batteria. 

Fu proprio lui, mentre accompagnavo le sue esercitazioni con il mio tamburellare sulle sedie, a farmi esordire in pubblico alcuni anni prima durante una celebrazione liturgica grazie a una batteria presa in prestito dall’oratorio del paese vicino. Fu sempre lui a dirmi di suonare con le mani quando preso dall’emozione della mia prima esibizione in pubblico , fui incapace di tenere le bacchette in mano perché tremavo come una foglia per la paura di sbagliare. E fu sempre lui a esortare i miei genitori a inscrivermi al lontano conservatorio di Udine così da cominciare a sviluppare il mio talento che emergeva da tutte le parti ma che purtroppo non sembrava interessare molto, probabilmente perché collocato in una realtà piccola come un paesino di provincia in cui gli aspetti principali riguardavano l’emigrazione e la coltivazione della terra. 

Del resto anche io ero figlio di emigranti ed erano i tempi in cui vi erano pochissime possibilità… di scuole di musica nemmeno l’ombra, solo calcio giovanile e qualche sporadico gruppo scout ancora in fase embrionale…  D’informazione online, oggi diventata fonte di apprendimento per tutte le categorie, nemmeno parlarne. Così, quando quella sera vidi quel bambino, tutte le mie certezze e le mie credenze andarono in frantumi. Corsi di corsa a casa a dire a mio padre di venire a vedere quel bambino che era come me e che quindi avrei potuto anche io iniziare in qualche modo. 

Ma vuoi per le difficoltà di quel momento, la stanchezza del lavoro e altri due figli a cui pensare, ben presto la mia richiesta, come era già successo alla precedente proposta del conservatorio, cadde immediatamente nel dimenticatoio. Cos,ì tolti i vestiti (il carnevale in quel momento era come se non esistesse più) e rimessi gli abiti normali, mi precipitai di corsa a vedere quel bambino. Fortunatamente casa mia era poco distante dalla sala parocchiale per cui fui molto rapido nel prendere una delle poche sedie rimaste e sedermi in un angolo in cui riuscivo a vedere il palco. Non mi mossi più da lì per almeno 3 ore, rapito dal mio sogno che vedevo realizzarsi in qualcun ‘altro.

Già da due anni l’organista se ne era andato, trasferito per lavoro da un’altra parte, e io vivevo la mia passione per la musica immerso in un mio mondo che, nell’ambiente, soprattutto scolastico (tranne qualche apparizione nelle recite alle elementari con un fustino del Dash), non era per nulla recepito. Tuttavia fu proprio quella sera che iniziò tutto per me perché, il giorno dopo, i genitori di quel bambino, vedendomi cosi attento e appassionato, vennero a casa mia e parlando con i miei genitori dissero loro che dovevano assolutamente spingermi allo studio dello strumento. Ricordo bene quel periodo, soldi a casa non ne giravano molti per cui tutti temevano che la mia fosse solo una passione adolescenziale passeggera utile solo a indebolire il bilancio familiare, visti il costo degli strumenti musicali e la difficoltà di reperire un maestro che mi desse i primi rudimenti.

Visto con il senno di poi, quello in realtà fu il primo passo di un percorso lungo 40 anni, fatto sì di sacrifici, ma anche di grandi soddisfazioni e di dischi registrati, Tour e collaborazioni importanti con musicisti di una certa caratura, conoscenze e momenti rilevanti come qualsiasi professione svolta ad ottimi livelli comporta.

Dall’adolescenza fino al professionismo, la musica è stata soprattutto “la mia stanza.” Quel luogo in cui rifugiarmi quando mi sentivo incompreso o invaso da un qualsiasi tipo di ordine autoritario (nel periodo scolastico erano frequenti)  che alle volte  in quella fase di vita tendevo a contrastare perché lo vivevo come un obbligo limitante. Una stanza tutta per me in cui non permettevo a nessuno di entrare.

Scoperta la mia passione rinforzata dall’interesse del  mio primo mentore che poi mi abbandonò per cause di forza maggiore, non mi sono mai arreso pur di  arrivare ad ottenere ciò che desideravo. Ho superato tantissime difficoltà: per studiare lo strumento ho trascorso molte ore in treno per raggiungere gli insegnanti delle grandi città in Italia e all’estero, ma tutto poi è stato ripagato con grandi risultati, anche inaspettati, e soddisfazioni immense. Ricordo ad esempio quando da bambino vedevo il Festival di Sanremo ed ero pronto con il mio fustino ad accompagnare le canzoni ogni sera per tutta la durata del Festival. La sera poi a letto addormentandomi mi dicevo: “Un giorno salirò anche io in quel palco!”  

Così quando nel 1997 partecipai alla 47° edizione del Festival di Sanremo, come una “rullata” mi fecero eco i miei ricordi di bambino e iniziai ad unire i puntini. Quella che era stata la mia stanza per molto tempo, crescendo l’ho ampliata: ho aperto le finestre e ci ho iniziato a far entrare qualcuno, perché senza gli altri non si va da nessuna parte. Se da soli possiamo muoverci, insieme si può andare più lontano, per cui dopo aver ben sviluppato il muscolo della solitudine ho iniziato ad aprirmi al mondo: avevo capito chi ero e cosa volevo fare nella mia vita. 

Giorgio Zanier

E’ vero che prima ho dovuto imparare a mie spese che risalire la corrente è dura, soprattutto quando non sai di essere un salmone e l’ambiente esterno (probabilmente anche in buona fede) ti fa credere di essere un pesce rosso. Ma è anche grazie a questo che oggi, in qualità d’insegnante e formatore, sono in grado di trasmettere ai miei studenti e alle persone con cui vengo a contatto il desiderio di superare i limiti apparenti. 

Ritengo siano di fondamentale importanza, sia per riuscire a crearsi una professione sia per alimentare la propria Felicità, imparare ad ascoltare se stessi e gli altri e dedicare tempo a scoprire chi siamo e che talenti abbiamo. Per usare una metafora, si può paragonare il coltivare il proprio talento  al tentativo di accendere un fuoco. All’inizio per farlo ardere occorre alimentarlo con la legna circostante (famiglia-scuola-ambiente di vita) e poi, una volta acceso, si potrà andare a prenderne in un ambiente esterno. Io penso che, anche se all’inizio non ne siamo consapevoli, ciascuno di noi nasca con un Talento, un’abilità recondita, grazie alla quale c’è un ambito in cui ciò che fa riesce naturale . 

Quando arrivò la mia prima batteria a casa mi ci sedetti dietro e iniziai a suonare come se l’avessi sempre fatto. Anche nelle mie prime serate, fatte all’età di 13-14 anni, ripetevo naturalmente i ritmi imparati nei dischi o che mi ero immaginato in testa. Fin da bambino, io battevo su una superficie con tutto ciò che mi capitava sottomano e farlo mi faceva entrare nella “mia stanza.”

Se in questo momento, rivedendo tutti i miei trascorsi, mi chiedessi come viva oggi la professione del musicista, direi che sono cambiate moltissime cose sia nella mia vita professionale che personale e non ho mai vissuto la mia professione come un lavoro ma piuttosto come una gioia, un privilegio. 

Attualmente il mio principale interesse ruota attorno al tipo di vita che voglio vivere: preferisco mettere a disposizione quanto ho appreso per fare in modo che i miei studenti valorizzino le loro capacità, evitando così di entrare nel paradigma da me sperimentato in gioventù e che è ben rappresentato nel libro “L’aquila che si credeva un pollo.” 

Scoprire fin da subito la propria passione e le proprie capacità offre la possibilità d’imparare a conoscere noi e il mondo circostante soprattutto in età adolescenziale, perché permette di forgiare il proprio carattere, sperimentare il potere della disciplina personale e conoscere le proprie possibilità. Vivere il proprio Talento è un opportunità che la vita ci offre  per comprendere il nostro scopo ed iniziare a viverlo per sé e gli altri, anche per questo lo dobbiamo imparare a coltivare. Come insegna Confucio, scegliere il lavoro che amiamo significherà non lavorare nemmeno un giorno per tutta la vita.

*Collaboro professionalmente nel campo della didattica musicale con il CDM Centro Didattico MusicaTeatroDanza di Rovereto (Tn) suono in diversi progetti musicali e mi occupo di formazione attraverso corsi e seminari. Sono autore della collana didattica per batteristi Custom Learning e del Libro “Crea la colonna sonora della tua vita” dedicato a tutti coloro che desiderano migliorare la propria vita attraverso lo sviluppo del proprio talento.

Ma chi me lo fa fare?

di Diego Fratus*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo con questo articolo e quello di martedì 16 giugno ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Ripercorrere dopo così tanti anni i corridoi delle mie scuole medie mi ha fatto uno strano effetto: mi è sembrato tutto così piccolo, dai corridoi alle classi, persino l’aula magna stessa; probabilmente perché sono passati più di dieci anni e, forse, anche perché sono molto diverso dal ragazzino che li frequentava a quel tempo.

Sono ormai più di cinque anni che frequento nuovamente le aule con il progetto “A Scuola Per Conoscerci” come volontario, portando la mia storia e la mia esperienza di omosessuale dichiarato a ragazzi che di “mondo gay” hanno in mente solo i personaggi della TV; e in mezzo a un sacco di domande, sia semplici che complicate, ce n’è una che quasi sempre mi viene fatta: “Perché sei qua?” oppure “Perché fai il volontario?”, e se vogliamo “Perché scrivo questo articolo?”. Una domanda semplice che richiede una risposta lunga perché essa racchiude sia il passato che, volendo, il futuro.

Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri (Internet non era diffuso come ora) e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me.

In un certo senso l’essere un ragazzo sempre attaccato al computer e, quando divenne possibile, sempre connesso online, mi aiutò, perché mi permise, grazie alla protezione di uno schermo, di aprirmi sentendomi al sicuro con un gruppo di persone che consideravo quasi una famiglia alternativa e mi fece conoscere il primo ragazzo apertamente gay che capì come mi sentissi e, a modo suo, mi guidò verso l’accettarmi.

Questa esperienza mi diede coraggio e decisi di fare coming out con alcuni compagni di classe, cosa che andò bene e in seguito, mi dichiarai anche coi miei genitori. Anche con mia madre andò bene e anzi, il nostro rapporto migliorò ulteriormente, mentre con mio padre, col quale avevo già un rapporto instabile, ci fu un momento di scontro per poi semplicemente non parlarne più.

Qua c’è un primo indizio sul perché sono attivista: nessuno dovrebbe sentirsi solo, abbandonato, isolato dal mondo, per l’essere semplicemente se stesso, per una parte importante di se stessi, che ricordiamo è scientificamente provato sia naturale.

Lo sono diventato con l’obiettivo di poter aiutare qualcuno, anche un solo ragazzo a sentirsi “normale”, accettato da chi lo circonda, conscio ci sia qualcuno che lo capisca e sia pronto a supportarlo nel suo percorso; ma ancor di più per sensibilizzare chi sta attorno a quel ragazzo a stargli vicino, perché le più grandi soddisfazioni me le hanno date le persone che più avevo paura potessero rifiutarmi, quando mi hanno accettato dandomi una pacca sulla spalla dicendomi “E quindi? Qual è il problema?”

Quando iniziai ad uscire dalla mia bolla online mi resi conto che i luoghi (sicuri) per conoscere qualcuno erano pochi, difficilmente raggiungibili e/o non adatti al chiacchierare, e poi, timido com’ero, era impossibile spingermi a muovermi da solo. Così mi addentrai nel magico mondo delle app per incontri, tristemente il mezzo principale per noi per conoscere altre persone. Qui conobbi altri ragazzi omosessuali, mi feci delle nuove amicizie, e incontrai il mio primo moroso che non stesse a chilometri di distanza.

Questo racchiude un altro indizio. Siamo portati a pensare la vita affettiva sia una parte piccola della nostra persona ma, in realtà, è enorme: conoscere altri ragazzi gay è parecchio complicato, principalmente perché siamo in pochi a essere a nostro agio a vivere la nostra sessualità alla luce del sole; i locali sono pochi e non è raro ci siano casi di bullismo e/o aggressioni, oltre ovviamente all’esposizione pubblica.

A quel punto un ragazzo giovane cosa fa? Si rivolge ai siti e alle app, con i loro ovvi difetti e limiti, dati dal filtro di uno schermo o dall’assenza di empatia.

Nel 2016 andai al mio primo Pride a Treviso e, nonostante avessi un’idea di cosa fosse e una conoscenza teorica di cosa significasse, soprattutto storicamente, in realtà solo una volta in mezzo ne ho capito il reale contenuto. In un periodo in cui ancora non ero del tutto sicuro di me stesso, in cui non mi sentivo sicuro della mia sessualità camminando per strada da solo, mi sono sentito al sicuro.

Ero in mezzo a persone che mi capivano, in mezzo a persone che condividevano un percorso simile al mio, e soprattutto, a persone che mi, che ci, supportavano: omo ed etero, uomini e donne, giovani e anziani, single e famiglie, tutti per ricordare al mondo che siamo tutte persone uguali e meritevoli dello stesso rispetto e degli stessi diritti. Che ognuno dovrebbe poter camminare per le strade di qualsiasi città tenendo per mano chiunque si voglia. Quella sensazione di sicurezza che dovrebbe essere presente sempre.

Arriviamo così al mio reale inizio come attivista, ossia quando mi fu proposto di partecipare come volontario al progetto scuole. Mentalmente ripercorsi la storia che vi ho brevemente raccontato e accettai, senza davvero sapere a cosa andavo incontro, pensando non sarei durato perché, beh, non sempre sono bravo a parlare di me.

E invece è stata, ed è tutt’ora, una delle migliori esperienze io abbia mai fatto. Ero convinto che il mio contributo non sarebbe servito, che mi sarei trovato davanti a classi disinteressate, un po’ come quelle assemblee che facevo io in aula magna dove l’unico pensiero era “Quando suona la campanella?”.

Invece ho, quasi sempre, trovato ragazzi che mi hanno ripetutamente stupito per la loro curiosità e profondità, che non mi sarei aspettato da ragazzi così giovani. Soprattutto mi sono stupito di me stesso, di come io mi sia trovato a rianalizzare pezzi della mia vita che credevo ormai chiari, per poterli raccontare. Il trovarmi davanti a ragazzi onestamente curiosi di capire le mie ragioni, il perché fossi lì, mi ha messo davanti a domande che non mi ero fatto o alle quali non avevo ancora dato una risposta.

In definitiva, “Chi me lo fa fare?”

Me lo fa fare il ragazzino che alle elementari si sentiva solo al mondo.
Me lo fa fare l’adolescente, quello che fingeva gli piacessero le ragazze, e che nascondeva al mondo un’intera fetta del proprio essere, anche alle persone a lui vicine.

Me lo fa fare l’adulto che vede attorno a se una situazione che, nonostante sia migliorata molto, può ancora migliorare.

E scrivere questo articolo mi ha portato a pormi una domanda: “Chi è per me un attivista?”.
La prima immagine che potrebbe venire in mente è probabilmente la piazza piena di manifestanti, magari a chi conosce un po’ la storia viene in mente la nascita del movimento di attivismo LGBT a Stonewall, eppure io credo che ora abbia assunto un “sapore” diverso la parola.

Le piazze sono ancora necessarie ma serve altrettanto che le piccole cose non siano più fatte nell’ombra. “Che lo facciano a casa loro!”: questa frase rappresenta quello che deve essere apertamente combattuto. Siamo attivisti quando abbracciamo un amico senza quella paura del “magari ci vedono e pensano male”, quando teniamo per mano un amico o il partner per le strade di un paesino, quando su una panchina appoggiamo la nostra testa sulla sua spalla o quando condividiamo un panino per poi darci un bacio fugace, col sorriso sulle labbra.

Possiamo essere tutti attivisti, gay o etero, rendendo “normale” l’amare chiunque si voglia amare. Rendiamo il mondo un po’ più colorato, e che “l’arcobaleno sia sempre con voi”!

*Mi chiamo Diego, prendo tutto così seriamente da non far altro che scherzarci sopra. Metallaro, food lover, nerd quanto basta, un pizzico di ipocondria e una vagonata di ansia. A modo mio provo a capire il mondo e cerco sempre una strada per, magari, renderlo un po’ più bello. Ma in fondo c’è già la pizza, può esserlo di più?

Notte prima degli esami

di Sara Feltrin

Antonello Venditti

Scriveva così Antonello Venditti nel 1984 quando ancora la notte prima degli esami era fatta di serate con amici, una pizza con i compagni di classe tra grandi risate e qualche beffa ai professori, ma anche lunghi pianti, prime follie d’amore e, per alcuni, l’ultima sfida scolastica.

Notti insonni in preda all’ansia e all’immaginazione che non smetteva di pensare all’ultimo giorno di scuola, ai banchi occupati da quei compagni di scuola che forse mai, come in quel momento, rappresentavano solidi pilastri di un’identità collettiva e unita, elementi di conforto di un vissuto che, in quei giorni prima degli esami, solo loro avrebbero potuto capire: la maturità. O meglio, l’attesa per la maturità. Sì, perché la maturità mica arriva con la prova di italiano o di matematica, né tantomeno all’esame orale; anche perché insomma, agli esami ci si abitua prima o poi. E’ ciò che la maturità nasconde implicitamente che angoscia più di tutto: la maturità quella vera, quella che arriva quando non sai che arriva. Ma la senti perchè è lì, lì dietro l’angolo ad aspettarti. E sai che, da quel momento, tutto cambia. Tutto cambia: la scuola lascia spazio all’università o per altri al lavoro, i compagni di classe chissà, ognuno prende la propria strada, amori che vanno e amori che vengono, mamma e papà pronti a consegnare “le chiavi” per l’autonomia, responsabilità che aumentano, insomma: si diventa grandi. Volenti o nolenti, è ora di crescere. Tutto cambia e l’angoscia del futuro sale alle stelle. 

Ecco che, nella notte prima degli esami, il pensiero di rivedere per l’ultima volta i propri compagni di banco all’interno di quella classe che, come un’amica fedele, ha saputo contenere per anni gioie e dolori, la mamma e il suo abbraccio di conforto, il papà e la mano sulla spalla, diventano cure di sollievo, fondamenti sui quali costruire la propria identità, il proprio futuro, la propria vita.  

Ma non siamo nel 1984, siamo nel 2020 e l’immagine che salta in mente se pensiamo a esami di stato 2020 è, più o meno, questa:  

con un grande punto di domanda.  Seguito dall’ordinanza del Miur (O.M. del 16 maggio 2020) che cita: 

Esami del primo ciclo: L’esame di Stato delle studentesse e degli studenti coincide, quest’anno, con la valutazione finale da parte del Consiglio di Classe e terrà conto anche di un elaborato prodotto dall’alunno, su un argomento concordato con gli insegnanti.

Esami del secondo ciclo: Gli Esami del secondo ciclo avranno inizio il 17 giugno alle ore 8.30. Previsto, per quest’anno, il solo colloquio orale. I crediti e il voto finale si baseranno sul percorso realmente fatto dagli studenti.

Il Covid-19 ha destabilizzato tutto, ha anticipato senza alcun preavviso quel tutto cambia angosciante già di per sé. Nessuno era pronto e nessuno si sarebbe aspettato un colpo di scena così drastico. 

I nostri ragazzi e i nostri nuovi maturandi si prestano a lanciarsi in una nuova missione verso un territorio da mesi abbandonato e rivisitato in vesti diverse: non più l’ennesimo ritrovo tra compagni e professori, la lotta del prendersi i posti migliori tra i banchi e la forte sensazione di condividere insieme un’esperienza collettiva unica, ma un ritrovarsi con i professori allineati dietro dei banchi resi insipidi dal disinfettante e una mascherina che non lascia trasparire nemmeno l’accenno ad un sorriso amichevole di un rassicurante tranquillo, andrà tutto bene. E’ una maturità insolita che non ha dato la possibilità o meglio, l’opportunità, di vivere quell’esperienza unica, tra ansia e adrenalina, che ha contagiato i maturandi degli anni passati. Il lockdown ha impedito i momenti, forse più significativi, che colorano l’immaginario degli adolescenti in questo momento di crescita difficile e delicato: l’ultima gita scolastica, l’ultima settimana di scuola appesantita dalle interrogazioni di recupero ma alleggerita dal calore del sole di giugno che apre le porte all’estate, agli ultimi giorni di autogestione, al suono dell’ultima campanella, agli ultimi scambi di sguardi celati e agli ultimi baci segreti durante la ricreazione, fanno il saldo di tutte quelle esperienze d’oro che per mesi hanno fantasticato e sognato all’interno delle loro stanze, tra videochiamate e social network. Hanno fatto i conti con loro stessi, con ciò che vorrebbero e non vorrebbero, con ciò che avrebbero fatto appena usciti dal lockdown, una considerazione su qualche amicizia persa e per alcuni un maggiore apprezzamento all’ambiente di casa.

La scuola non rappresenta più solo il luogo in cui imparare e sperimentare il successo scolastico e prestazionale, ma è diventata il luogo in cui più di ogni altro, si lotta alla valorizzazione e al successo personale e affettivo. E’ diventata una seconda casa in cui ognuno investe in tante relazioni affettive e, come succede a casa, se queste relazioni sono sane e positive allora favoriranno maggiormente partecipazione e apprendimento; al contrario, se queste relazioni dovessero rivelarsi mendaci e deludenti, allora tutto il palco crolla: ascolto, partecipazione, apprendimento, relazioni e, di conseguenza, valorizzazione personale. 

Un momento in cui, per gli adolescenti del giorno d’oggi la ricerca al rispecchiamento (condivisione di sentimenti ed emozioni), all’essere cioè riconosciuti, ammirati e valorizzati si rivolge prevalentemente nella cerchia dei coetanei che molto spesso vengono percepiti, a scapito degli adulti, più competenti nel riconoscere e valorizzare le loro modalità espressive e creative (Matteo Lancini, Adolescenti navigati).

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha letteralmente sradicato i nostri ragazzi fuori del loro habitat naturale (la scuola, le piazze, il cinema o qualche centro commerciale) impedendogli vicinanze, fisiche ed emotive, fondamentali per la crescita, la costruzione della loro identità, per quel famoso diventare grandi che la prova di maturità, questa maturità ancor di più, sembra imporre.

Penso principalmente ai maturandi o coloro che dovranno salutare la loro scuola per affrontare, a settembre, il critico passaggio alle scuole medie o ancor più determinante, all’università o al lavoro. In questo momento in cui l’incertezza regna sovrana, trovare un luogo di attracco quanto più sicuro e fermo non è per niente semplice. “Sto cambiando io, stanno cambiando le mie idee, sta cambiando il mondo là fuori e non c‘è niente di fermo.” 

Con i test di ammissione e gli open day delle università rimandati, è diventato ancora più difficile prendere decisioni; e l’insicurezza del futuro, di questo futuro post Covid-19, porterebbe anche lo studente più deciso e convinto a mettere in discussione le proprie priorità e le proprie scelte. D’altronde come può un adolescente che sta crescendo e cambiando, vedersi proiettato verso una realtà che sta cambiando a sua volta? Come è possibile pensare ai prossimi mesi, o per i più caparbi al prossimo anno, quando oggi non sappiamo nemmeno se programmare le ferie delle prossime settimane? Beh, una cosa è certa: potranno raccontare ai loro nipoti di essere stati dei veri e propri sopravvissuti ad una delle più grandi epidemie mondiali degli ultimi secoli, ma soprattutto, potranno vantare l’onore di aver affrontato una delle più grandi sfide personali.

Quando i sogni dell’adolescenza diventano progetti di vita e di carriera

di Giuseppe Miceli*

Durante il tempo trascorso in quarantena, le cose più interessanti che ho potuto fare – al di là di prendere atto di avere una preadolescente filmaker in casa prestata al mondo di “tik tok”, ed una bambina che assomiglia a Jane Fonda in versione cheerleader – sono state leggere e riflettere. Letture e riflessioni che mi hanno portato inevitabilmente indietro nel tempo, a quando l’adolescente ero io stesso.

L’opportunità di scrivere di quella fase della mia vita, offertami da Teen&20, capita insomma al momento giusto.

Non sono stato il classico ragazzo adolescente problematico, che dava grossi grattacapi ai propri genitori. A parte qualche insuccesso scolastico, non avevo né richieste esose né particolari esigenze di libertà, come tanti altri coetanei di allora. Il motorino lo comprai con i miei primi risparmi, sudati durante un’estate passata a fare l’operaio, e cominciai a frequentare le discoteche non prima della maggiore età. Ero consapevole di vivere in una famiglia dove si facevano sacrifici e lo accettavo con responsabilità. Ma questo non mi ha permesso di uscire comunque indenne da quegli anni.

Non avevo ancora quindici anni (era il 1985) quando il mio migliore amico, compagno di scuola e squadra, morì in un tragico incidente stradale. Non feci in tempo di uscire da quel trauma che se ne ripresentò un altro, toccandomi ancor più da vicino. Venni coinvolto, un anno dopo, in un altro brutto incidente, insieme a mio fratello e due suoi compagni di scuola, uno dei quali perse la vita. Fu un’esperienza straziante per tutti noi ed i nostri genitori. Dover sbattere, in così poco tempo, ripetutamente contro una realtà come la morte a quell’età, rappresentò una prova difficile da superare. Seguì un periodo in cui i miei sentimenti sembrarono appiattirsi e nel tempo mi resi conto dei danni psicologici subiti.
I risultati scolastici non mi aiutarono, nel frattempo mio padre decise con perentorietà che dovevo lasciare il calcio e con esso tutta la rete di relazioni che ero riuscito a crearmi, con non poche difficoltà. Alle soglie dei diciasette anni, insomma, le cose per me non si stavano mettendo per niente bene.

Erano gli anni di Videomusic e più tardi anche di Mtv, la radio inoltre era ancora un mezzo di svago e di informazione importante, attraverso cui cercare qualcosa di nuovo ed inesplorato. Pordenone, la città dove studiavo, vantava un sottobosco culturale ricchissimo che non tardò ad influenzare, sul finire del 1986, le mie scelte in campo musicale ed estetico. I miei genitori, purtroppo, non mi avevano trasmesso nulla da questo punto di vista, non avevamo ricche librerie a casa (a parte un paio di enormi enciclopedie) o collezioni di dischi dalle quali attingere e trarne ispirazione, quindi qualsiasi sforzo facessi, sapevo che era frutto della mia intraprendenza e curiosità. Sentivo che qualcosa stava cambiando in me, ero alla ricerca di una identità. Nulla di nuovo in un adolescente, se non fosse che per me identità voleva dire innanzitutto distinguermi dagli altri, non omologarmi. 
I media erano diversi e meno invasivi, non eravamo sottoposti alle pressioni di oggi naturalmente, molti giovani si ispiravano alle cosiddette “controculture”, attraverso le quali potevano esprimersi ed affrancarsi dalla società generalista e da famiglie iperprotettive come la mia. E così, grazie anche ad alcune nuove amicizie, riuscii a ritagliarmi piano piano il mio piccolo angolo di “paradiso”, nel quale misi tutto quello che mi faceva stare bene, innanzitutto la musica. Musica che avvertivo come qualcosa di fortemente identitario, che mi ha portato a scoprire l’emozione di andare ad un concerto, il mondo della radio, dell’editoria indipendente, ed in seguito universi paralleli come il cinema, la letteratura, l’arte e la fotografia.

Ero felice e spensierato, forse ancora un po’ introverso ma non più l’adolescente insicuro e inadeguato di prima, anzi tutt’altro. Mi trovavo nel migliore dei mondi cui potessi aspirare in quel momento. Il processo attraverso il quale elaborai le mie dolorose esperienze, fu del tutto naturale e partì da me stesso. L’aver scoperto quel vaso di Pandora ebbe su di me un effetto salvifico. 

I fatti che seguirono tracciarono il mio percorso futuro. Contribuii alla realizzazione di una “fanzine”, ovvero una rivista artigianale fatta di pagine fotocopiate (in uso negli anni 70/80), in cui scrivevo articoli musicali, recensivo dischi e concerti. Successivamente, a vent’anni circa, collaborai per un breve periodo con la redazione della rivista musicale “Rockerilla”, fino alla conduzione di programmi in radio e all’organizzazione di concerti in Italia, che è diventata nel tempo la mia professione.

Foto di Marco Luchetta

C’è da dire che negli anni del raggiungimento della maturità, la vita non mi trattò sempre bene, avvenimenti negativi e delusioni erano sempre dietro l’angolo. Devo ammettere comunque che ogniqualvolta mi sono trovato ad affrontare delle difficoltà, la musica era sempre presente, e la sua forza propulsiva mi ha aiutato spesso a superarle. 

Vorrei tanto che il mio racconto arrivasse a quei ragazzi che hanno pensato ad un certo punto di non farcela, e li stimolasse nella ricerca di qualcosa di sano e solido – che per me è stato il mondo della musica ma per qualcun altro potrebbe essere il teatro, l’arte, il fumetto, lo sport… – a cui aggrapparsi per esprimere se stessi e ritornare a credere nel proprio futuro. 

* Lavoro professionalmente nel campo dell’organizzazione di concerti ed eventi musicali, in tutto il territorio nazionale, per la mia agenzia Solid Bond Agency dal 2001 , anche se iniziai in maniera semi-professionale già dal 1991. Organizzo concerti di artisti internazionali per club, festival ed eventi. Negli ultimi anni ho fatto parte della direzione artistica di Fiera della Musica di Azzano Decimo e collaborato con Fabrica di Treviso.

Percorsi tortuosi: adolescenti e scuola

di Francesca Del Rizzo

Questa settimana si è celebrato l’anniversario della nascita di Don Milani (27 maggio) e questa ricorrenza mi ha fatto riflettere: mi sono chiesta cosa avrebbe pensato lui della didattica a distanza di questi giorni, lui che faceva lezione all’aria aperta, lui che aveva con i suoi alunni un rapporto di prossimità, ancor più che di vicinanza. Sono certa che si sarebbe inventato qualcosa di bellissimo ed entusiasmante, per poter conservare la vicinanza nella sicurezza. Certo, non so se glielo avrebbero lasciato fare… ma sicuramente lui ci avrebbe provato ed avrebbe perseverato.

Perché amava educare ed amava i suoi ragazzi, tutti.

Don Milani fa scuola a Barbiana

Io ho invece l’impressione che, nella scuola di oggi, come in quella di ieri del resto, forse, non tutti gli insegnanti amino sempre tutti i loro studenti. Alcuni tendono a valorizzare e gratificare quelli che seguono percorsi lineari, che lavorano, si impegnano ed ottengono bei risultati, mentre tendono a svalutare, svilire, a volte umiliare chi invece sembra fare più fatica, magari si impegna poco ed ottiene risultati insufficienti o al limite. Credo che sia naturale, da un certo punto di vista. Insegnare non è per nulla una professione facile ed un insegnante può vivere il disimpegno di uno studente, il suo palese disinteresse per la materia e per i compiti, il suo scarso apprendimento come una sorta di insulto personale, mentre i risultati e l’abnegazione dell’allievo studioso lo gratificano e ripagano di tanta fatica.

Naturalmente non intendo assolutamente suggerire che agli studenti “bravi” non debba essere riconosciuto il lavoro che fanno, anzi probabilmente dovremmo riflettere – e non escludo che ci proverò – su come farlo in maniera davvero costruttiva, forse, però, un pensiero diverso su quelli che “non hanno voglia” potremmo articolarlo proprio ora, anche in memoria dei percorsi tortuosi dei ragazzi di don Milani.

Ho letto recentemente un libro che una persona che stimo mi ha prestato e che consiglio a tutti, senza distinzioni di età o di preferenze letterarie: è un libro che val la pena leggere. Si tratta di Bianco come Dio di Nicolò Govoni.

L’obiettivo di Nicolò nel libro non è raccontare il suo percorso scolastico, tuttavia a tratti egli ci parla di un’adolescenza difficile, caratterizzata da colpi di testa e da un difficile rapporto con il padre e con la scuola ed i suoi insegnanti. Alla fine delle superiori Nicolò, a diciotto anni, si sente vuoto: “Mi era stato detto che non valevo nulla così tante volte che avevo finito per crederci”.

Ed è proprio così che capita anche a molti ragazzi che io conosco in studio: è stato detto loro che non sono capaci, che non sono in grado di fare niente di buono, che non hanno combinato nulla nella vita (appunto, a 15, 16, 17, 18 anni…) così tante volte che queste sentenze sono diventate la definizione che loro stessi danno di sé.

Queste parole sono state dette da “adulti” (non solo insegnanti, certo, anche genitori, allenatori… ) che non hanno saputo fare qualcosa di diverso dal giudicare la persona sulla base di un comportamento, o una serie di comportamenti, senza mai chiedersi davvero: perché? Senza mai provare a guardare il mondo con gli occhi di quei ragazzi o di quelle ragazze (perché, intendiamoci, spiegare il comportamento di un ragazzo che non studia dicendo che non ha voglia di studiare mi sembra vagamente tautologico). Forse varrebbe la pena di chiedersi: e perché non ha voglia di studiare? Magari perché, con il passare degli anni, e delle parole degli adulti, si è convinto che non ha senso provarci, visto che tanto non può riuscirci… oppure perché è talmente impegnato a combattere i demoni dentro di sé che non ha energie o risorse da investire negli apprendimenti… o ancora perché ormai l’unico ruolo in cui si sente riconosciuto è quello del deviante. Le ragioni possono essere tante quante sono i ragazzi, ma, appunto, sono ragioni: c’è sempre un perché e concedersi di comprendere quel perché apre a mondi personali in cui anche le scelte apparentemente più sbagliate appaiono ragionevoli…

Le sentenze che gli adulti emettono con tanta, troppa leggerezza segnano i ragazzi e le ragazze, li inchiodano ad una versione temporanea e affaticata di loro stessi, e troppo spesso finiscono per stabilire e tracciare il loro futuro.

Nicolò si è ribellato a queste definizioni, ha scelto di abbandonare l’Italia e di andare a fare un periodo di volontariato in un orfanotrofio in India. Lì, fra molte altre cose, si è dedicato all’appoggio ai ragazzi dell’orfanotrofio nello svolgimento dei loro compiti scolastici. In un passaggio scrive:

“Dopo tre anni, i ragazzi parlano un inglese eccellente. Sono i primi della loro classe. […] Sono così orgoglioso dei loro progressi da stentare a credere di esserne stato in qualche parte il fautore. Stando con loro ho imparato qualcosa di fondamentale: un bambino crescendo si rivela sempre all’altezza delle tue aspettative. Se lo consideri un buono a nulla, ti crederà sulla parola e non andrà da nessuna parte. Se invece hai fiducia in lui, non c’è nulla che non possa ottenere. Non ho mai creduto nei miracoli, ma se assistere allo spettacolo di un bambino che impara qualcosa di nuovo non lo è, non so cos’altro possa esserlo.”

Ora Nicolò Govoni, ragazzo del 1993 cui gli insegnati avevano predetto che non avrebbe mai combinato nulla nella vita, è un giovane uomo la cui ultima, ma non unica, impresa è stata costruire, nell’isola di Samos, sostanzialmente dal nulla e con donazioni solo di privati, una scuola per bambini rifugiati sfuggiti alla guerra:

Nicolò Govoni a Mazì

“Oggi, oltre 150 bambini e adolescenti imparano e vivono nello spazio più sicuro, adatto e, lasciatemelo dire, bello dell’isola. Oggi cento minori altamente vulnerabili hanno la scuola che meritano, la scuola che era stata loro negata, la scuola per cui sono sopravvissuti a una guerra e attraversato mari e monti, la scuola che offre loro un’alternativa alla prigione in cui vivono. Questa è Mazì—Insieme.”

Mazì è un progetto che mi sembra molto simile alla scuola di Barbiana di Don Milani: un luogo dove gli adulti educano i piccoli e li accompagnano con amore e comprensione nei percorsi tortuosi cui la vita li costringe affinché possano liberarsi dalle sentenze definitive emesse da mondi violenti ed ingiusti e, come dice Nicolò, possano costruire, per sé e per gli altri, “la migliore versione di se stessi”.

Di adolescenza, sport ed amicizia

di Piero della Putta*

Parlare dell’adolescenza è quanto di più difficile si possa chiedere ad una persona.

Delle età evolutive è quella più ardua da affrontare: apparentemente sempre in salita, è ricca di contrasti, di mutamenti, di tempeste ormonali che collegano il periodo della fanciullezza a quello dell’età adulta.

Parlare della mia, di adolescenza, mi riesce ancora più difficile: farlo in chiave sportiva aiuta, e non poco. E’ difficile farlo perché di essa ricordo tante aspettative, proiettatemi addosso non da due genitori straordinari, nella loro semplicità e bontà, ma da un contesto sociale, da una bolla nella quale ognuno di noi vive e deve affermarsi. Deve, poi. Non ho capito perché, ma nemmeno io sfuggivo a questa regola, quella di volere e dovere piacere, dovere e volere ritagliarsi un ruolo, di dovere e volere non deludere chi ci stava accanto.

Non ero quello che avrei voluto essere, come tutti gli adolescenti. E mi vedevo, in questo mio non esserlo, molto peggio di quanto fossi. Ecco perché, in un periodi di grandi riflessioni, di amare constatazioni, fare leva sullo sport è stato fondamentale. Non che fossi un campione, sia chiaro: come amo dire spesso, a quattordici anni ho compreso che non avrei giocato nell’NBA, a sedici ho intuito che non avrei vestito la maglia della nazionale, a diciassette ho rinunciato alla serie A, e lentamente a tutte le categorie sino all’attuale C2, nella quale ho giocato a sprazzi. Poco conta il livello, per me contava la passione che mi ha fatto consumare il gesso giocando nel cortile dell’oratorio cittadino di San Giorgio.

Pallacanestro, dicevamo, sport che ho scelto dopo aver lentamente abbandonato il tennistavolo, dove peraltro avevo raccolto risultati interessanti. Ma i risultati non possono e non devono esser tutto, sono solo il logico raccolto di un percorso faticoso, e spesso non direttamente proporzionale a un fattore sopravvalutato ma essenziale quale l’impegno. Già, perché – e questa convinzione la debbo ai miei tormenti e alle mie riflessioni adolescenziali – impegno e divertimento non possono essere il fine di un atleta. Non lo possono essere non perché non siano importanti, ma perché dovrebbero essere scontati.

Ed è proprio in virtù di ciò che posso dire di aver vissuto, da sportivo, una adolescenza felice. Perché in un gruppo – e qui ritorniamo al riconoscimento, al ruolo, all’affermazione che sono riuscito ad ottenere – spesso il talento non conta se non è affiancato da questi due fattori. Come il bambino passa la palla solo al più bravo ed al suo migliore amico, il gruppo riconosce le capacità, ma anche quelle cose che gli stolti non vedono. La parola giusta per il compagno in difficoltà, l’esserci, lo sbucciarsi le ginocchia per recuperare un pallone fanno la differenza. E qui – vado avanti e indietro, mescolo le cose – torniamo all’esempio dei miei genitori. Non diventare il migliore, ma impégnati per fare le cose al tuo meglio: non so se me lo abbiano detto o fatto comprendere con l’esempio di persone semplici, che non finirò mai di ringraziare.

Come non finirò di ringraziare lo sport, che mi ha regalato quanto di più prezioso ho, i miei migliori amici. Grazie a loro sono passato attraverso mille delusioni, cadendo ma sapendomi rialzare: delusioni sportive, relazionali, sentimentali, lavorative, amicali. Grazie a loro ho imparato a passar sopra – senza dimenticare, io purtroppo non ne sono capace – ad allenatori e dirigenti non sempre capaci di parlare il mio linguaggio, quello di un adolescente con i suoi sogni. Se non fossi stato sportivo, un adolescente sportivo, il “chi sono Moro e Brusamarello?” (i più forti tra i nostri coetanei, ndr), che ci chiese dopo pochi minuti di allenamento con la selezione provinciale il responsabile delle nazionali giovanili, mi avrebbe abbattuto come un tornado.

Perché per dirti che non conti nulla, e che eran li solo per vedere due atleti, ci sono un sacco di modi. E chi non rispetta le persone, i ragazzi e gli adolescenti sa trovare sempre il peggiore.

Ecco, se son fiero di poter dire di non essermi mai comportato così, o di avere fatto il possibile per utilizzare i linguaggi più adatti ai ragazzi che alleno, lo devo proprio a questo. Lo devo ad un’adolescenza difficile come quella di tutti noi, ma ad una adolescenza che grazie anche allo sport mi ha insegnato il rispetto ed i valori che cerco di trasmettere in ogni cosa che faccio.

*Superata da un po’ – dice inconsapevolmente, mentendo spudoratamente a sé stesso – la soglia dei cinquant’anni, piero della putta è rimasto ciò che era: istruttore nazionale e delegato provinciale minibasket, allenatore, operatore nella vita vera delle politiche giovanili presso l’Informagiovani di Pordenone. Lavora – divertendosi – con i bambini ed i ragazzi da sempre, dopo una breve parentesi nella gestione di team senior non altrettanto appagante. Europeista, viaggiatore, crede fermamente che una società che non investe nei più giovani sia una società fallita o destinata al fallimento, unica parentesi negativa in una visione del mondo piuttosto rosea.

Adolescenti post-Covid: cosa è cambiato?

di Sara Feltrin

Come è cambiata la vita dei nostri ragazzi e dei nostri adolescenti durante il Coronavirus? E soprattutto, cosa è cambiato da quando l’unico via libera, l’unico vis a vis extra-familiare veniva dalla nuova serie TV di Netflix, che, mai forse come in questo momento, ha dato sollievo ai pomeriggi di devastazione e solitudine dei nostri ragazzi?

Cosa è cambiato da parte nostra ma soprattutto da parte loro?

Venice Beach (Los Angeles), murales realizzato da Pony Wave

Dobbiamo innanzitutto partire dalla definizione, per quanto in continua evoluzione, di adolescenza. Con questo termine si indica la fascia d’età compresa tra i 12 e i 19 anni, caratterizzata da notevoli cambiamenti sia sul piano fisico che su quello psichico. In questa fase gli adolescenti si trovano a scegliere tra i modelli vecchi e quelli nuovi, tra imposizioni e ribellioni, tra essere come si vuole o come si è, oppure come si dovrebbe essere. Sono anni in cui la famiglia non è più il primo punto di riferimento: in particolare le relazioni con il gruppo dei pari diventano il laboratorio in cui i ragazzi costruiscono piano piano la loro identità. Possiamo quindi capire quanto siano di fondamentale importanza le relazioni affettive extra-familiari (compagni di scuola, amici, partner ma anche insegnanti ed educatori) per il mantenimento del proprio Sè. 

Abbiamo visto ragazzi che di fronte al lockdown hanno reagito con tristezza e rassegnazione, altri con rassicurazione e conforto perchè, finalmente, la loro scarsa vita sociale trovava un’ottima giustificazione nel non dover uscire. Abbiamo visto ragazzi sereni perchè “vabbè dai, per fortuna a casa sto bene e i miei amici li sento lo stesso con le videochat”. Abbiamo visto ragazzi demotivati e delusi da una società (e forse anche un mondo) improvvisamente bloccati e incerti, in cui loro stessi hanno da sempre proiettato un loro senso d’identità, il loro futuro, la loro storia. 

Abbiamo visto ragazzi che però, nonostante rassegnazione e delusione, nonostante disagi e difficoltà riscontrati in diversi fronti (isolamento, scuola, convivenza forzata, eccetera), nonostante tutto, hanno saputo adattarsi e trovare la loro soluzione personale per fare fronte. E in questi mesi in cui la vita era diventata una scommessa al continuo adattamento, loro, i nostri giovani, hanno vinto la scommessa.

Ebbene sì, forse questa volta dobbiamo imparare da loro, imparare dalla loro creatività e dalla loro adattabilità: i nostri ragazzi hanno saputo escogitare e trovare una libertà alternativa con una tenacia inaspettata. Come in un videogioco, questo è stato un salto evolutivo in cui non vince solo chi è più bravo a smanettare su social e videochat di gruppo, ma chi, nonostante tutto, ha mantenuto con sé speranza in un tempo che ha saputo dare voce all’esperienza e all’agilità tecnologica che solo loro hanno saputo mostrare e dimostrare.

Sì perchè, prima, eravamo noi adulti a dettare regole e limitazioni temporali per non stare troppo davanti a quello schermo. Ora, gli adulti sono loro. Sono loro, ragazzi cresciuti, che ora ci mostrano come entrare sulle piattaforme online, linkare un contenuto e sistemare audio e video senza sembrare totalmente imbranati di fronte a capi o colleghi. Sono loro, adolescenti senza posto, che ora insegnano a noi come creare relazioni online e come linkarci col mondo.

D’altronde, improvvisamente e tutto d’un tratto, si sono trovati senza un banco di scuola, un parco in cui trovarsi, una fermata del bus e per di più, senza amici. Sicuramente la tecnologia corre in soccorso, però che ne è delle relazioni vis a vis? Che ne è degli abbracci confortanti del “ti capisco, anche a casa mia è uguale”? Che ne è dei pianti e delle urla di sfogo che solo gli amici sanno placare? Che ne è degli sguardi e del contatto fisico, tasselli fondamentali di sviluppo e di pubertà?

Sono cresciuti, come quando succede che, improvvisamente, ci troviamo a metterci in discussione e ridare un senso a tutto. Così hanno fatto loro: faccia a faccia con le loro risorse e le loro fragilità ad affrontare un periodo storico che non è, forse, il più difficile a livello mondiale, ma il più difficile della loro vita. 

Hanno dimostrato forse molta più maturità e più responsabilità di quella che ci aspettavamo. E nell’affermazione di una ragazza “Sì ma io mi autoregolo, seguo le lezioni e faccio tutto, con i miei tempi però perchè sennò mi fanno male gli occhi” c’è tutta la sperimentazione e l’esplorazione del proprio funzionamento individuale che questo Covid ha distrutto e, allo stesso tempo, maturato. Non sono bambini che hanno bisogno di mamma e papà , delle loro regole e delle loro ramanzine. Sono adolescenti che stanno cercando il loro posto e la loro identità. Perchè ricordiamo che dietro ogni schermo non c’è solo un alunno poco attento ma un ragazzo che si impegna (studiando ma anche non studiando) e intanto esplora e cresce

Proviamo quindi ad approfondire il motivo di quell’avatar tanto strano con i capelli blu perchè dentro quella pedina di gioco vive un vero e proprio alter-ego: la proiezione di loro stessi in un altro tipo di realtà, ma pur sempre loro stessi

Quindi, quando per l’ennesima volta non portano a termine qualche quotidiana faccenda domestica o quando sembra che non ci ascoltino, aspettiamo prima di rimproverarli e condannarli: perchè probabilmente proprio in quel non fare e in quell’ascolto semi-passivo, si manifesta la loro posizione, la loro libertà di scelta e di espressione che in questo difficile lockdown è stata zittita e messa a dura prova. Questo non significa permettere e giustificare la trasgressione di qualsiasi richiamo educativo, ma aiutarli a comprendere innanzitutto il motivo di tali comportamenti, ascoltandoli con rispetto e attenzione. In questo modo non offriamo loro solo ascolto e comprensione, ma li aiutiamo anche a mentalizzare le loro scelte, diventando maggiormente consapevoli di loro stessi.

Perchè le regole dell’ordine e della buona educazione loro le sanno benissimo, gliele abbiamo ripetute sicuramente un sacco di volte, fino forse, allo sfinimento. Il loro non seguirle molto spesso non è solo una semplice trasgressione normativa, ma una scelta, che, sebbene possa essere più o meno consapevole, è tuttavia necessaria e fondamentale, per dare sfogo a emozioni incomprese, dare un volto alla loro espressione e un senso a loro stessi.

Il ruolo di noi adulti è quindi quello di saperli accogliere, in tutte le loro forme, e aiutarli a gestire al meglio la loro emotività, accompagnandoli a raggiungere il meglio di loro stessi. 

Si fa presto a dire ansia…

di Francesca Del Rizzo

Molti ragazzi arrivano da me e sanno già dare un nome alla loro sofferenza: si chiama ansia e prende la forma di attacchi di panico, momenti di terrore, paura estrema di alcune situazioni, irrequietezza, incapacità di fermarsi o rallentare o al contrario, paralisi.

La sentono nel corpo, prima ancora che a livello emotivo: nel respiro che si fa affannoso e nel cuore che sembra scoppiare, o nella testa che fa male, tanto male, oppure nella tensione dei muscoli, nella pancia che duole e nello stomaco che si chiude. Per alcuni di loro la sofferenza fisica è così importante da arrivare a limitare di molto la loro quotidianità, da diventare una presenza quasi costante.

Prima andava tutto bene, poi, ad un certo punto della loro vita, è arrivata questa cosa. Inizialmente hanno cercato di farvi fronte con gli strumenti che avevano a disposizione e con l’aiuto dei familiari. Hanno provato a risolvere le loro difficoltà con strategie pratiche ed i familiari hanno spesso oscillato tra l’accudimento condiscendente e la sfida a farcela, “che tu sei più forte della tua paura”.

Quando un figlio o una figlia mostrano segni di così forte sofferenza non è facile per i genitori, ci si sente in colpa e responsabili, un po’ a prescindere. Certo, cerchiamo di capire, ma siamo così coinvolti che non possiamo essere molto lucidi nell’analisi e nella comprensione di ciò che sta accadendo.

E poi ci sentiamo impotenti.

Parlarne con un esperto ci può fare paura: da un lato significa accettare e dirci davvero che c’è qualcosa che non va, dall’altro temiamo che ci verranno dette parole che non vogliamo sentirci tanto dire, e cioè che c’è qualcosa, nel nostro stile educativo, che sbagliamo, che non facciamo bene.

E allora ci concentriamo sulla gestione dei sintomi. Essi diventano un po’ il focus dell’attenzione di tutti: della ragazza o del ragazzo, perché li fanno stare male, e della famiglia, perché a loro appaiono come il vero problema.

Ma non è così. Per illustrare il mio modo di concepire il ruolo dei sintomi d’ansia vorrei proporre una metafora che calza solo in parte, ma che trovo talvolta utile: immaginare il sintomo come una spia di allarme sul cruscotto dell’auto: quando la spia si accende il problema non è il malfunzionamento della lucina rossa né del cruscotto, il problema è da qualche parte nell’auto. Semmai, la spia è il primo tentativo, da parte del sistema auto, di trovare una soluzione al problema sottostante.

Ecco, spesso l’ansia è proprio questo: il primo maldestro tentativo, da parte della persona, di risolvere un problema, un tentativo che poi crea ulteriori problemi, ma su di un altro piano.

Pensiamo ad esempio a cosa può accadere quando un ragazzo ha un attacco di panico. Solitamente i genitori si allarmano: la prima impressione è che ci sia qualcosa che non va a livello fisico. Si parte quindi con una sequenza di accertamenti più o meno immediati che hanno l’effetto di concentrare sul ragazzo tutta una serie di azioni di cura e di accudimento piuttosto prevedibili. I genitori vengono così temporaneamente distolti dalle loro attività quotidiane, dalle usuali preoccupazioni, dal flusso della loro vita, e calamitati sul sintomo e sulle modalità per eliminarlo. Abbastanza velocemente scoprono che per fortuna non c’è nulla che non vada a livello cardiaco e, se da un lato ciò è indubbiamente tranquillizzante, è anche spiazzante: se c’è qualcosa di fisico se ne occupano i medici, che sanno cosa fare, ma così no, se ne devono occupare loro. E quindi, il più delle volte, cominciano a ristrutturare la loro vita in modo da rispondere ai nuovi bisogni (di sicurezza, vicinanza, presenza) che il figlio sembra reclamare. E la loro routine cambia: fra le loro occupazioni si colloca prepotentemente il prendersi cura in modo diverso di questo figlio grande che, per certi versi, si comporta però come se fosse piccolo e che in questo modo condiziona scelte, tempistiche e logistiche. Vorrebbe infatti smettere di fare le cose che fanno i ragazzi della sua età: prendere l’autobus, uscire con gli amici, andare in palestra o a scuola, giocare le partite di basket, perché lì si sente male, gli viene l’ansia, l’attacco di panico.

Risultato netto: grazie al sintomo il ragazzo ha riavvicinato a sé i suoi genitori, ha fatto in modo che si occupassero di lui, che si sostituissero a lui in alcune faccende, che smettessero, magari, di fare alcune delle loro cose e, contemporaneamente ha rivoluzionato la sua vita, interrompendo alcune attività consuete, o facendole solo talvolta e magari con accompagnamento. È stata una manovra consapevole? No, certo che no, ma è ciò che è accaduto, e se, per un attimo, concepiamo tutto questo come il tentativo di risolvere un problema, da parte del ragazzo, ci possiamo chiedere: ma quale era il suo problema?

Era forse spaventato da qualche compito evolutivo (qualche importante passaggio a livello scolastico, relazionale, sociale, sportivo) che sentiva di non essere in grado di affrontare? Era preoccupato perché vedeva i suoi genitori molto impegnati nelle attività axtrafamiliari e si sentiva abbandonato?

Non si può certo rispondere a queste domande in astratto, per quanto il caso che vi ho raccontato sia un caso in astratto. Per rispondere a queste domande è necessario comprendere quale sia la percezione che la singola persona ha della situazione, di se stessa e delle sue figure di riferimento.

E questo è principalmente compito della psicoterapia.

Ciò che voglio però sottolineare è, appunto, che “si fa presto a dire ansia”, come se con un singolo sostantivo, con l’atto di dare un nome, di porre un’etichetta verbale, si concludesse il processo di comprensione di una sofferenza. In realtà, la comprensione vera è un processo che a quel punto, il punto dell’etichettamento, deve ancora cominciare, e sarà solo grazie a quel processo che sarà possibile individuare il cuore della sofferenza. A quel punto, poi, paziente e terapeuta potranno assieme aprire a nuove possibilità.