11 ottobre, Coming out day

di Rosa Olga Nardelli

“Come si fa a dirlo: non avrei conosciuto mio figlio”

“Occorre piangere e studiare”

“Ha permesso a me, genitore, di conoscere una parte del mondo di cui non conoscevo proprio l’esistenza”

In occasione dell’11 ottobre – Coming Out Day prendiamo in prestito le parole dei genitori che fanno parte dell’Associazione AGEDO (Associazione GEnitori Di Omosessuali – www.agedo.roma.it) per ricordare l’importanza del coming out: un atto di amore nei confronti di sé stessi e delle persone che ci amano.

Ma perché proprio l’11 ottobre?

Il primo Coming Out Day si è tenuto per la prima volta nel 1988 negli USA, su suggerimento di uno psicologo e di un attivista LGBT, con l’obiettivo di aumentare e rafforzare la coscienza e la consapevolezza all’interno della comunità LGBT. La data scelta, l’11 ottobre, ricorda la marcia per i diritti di gay e lesbiche, svoltasi a Washington l’anno precedente.

Coming out o outing?

di Rosa Olga Nardelli

Nei giornali, nei social, in tv sentiamo sempre più spesso parlare di omosessualità e bisessualità: si discute di diritti civili (vedere le recenti discussioni in Parlamento sulla legge Zan contro l’omofobia) e di matrimonio egualitario, in un clima più o meno civile e da parte di persone più o meno esperte; ci sono libri, film e serie tv che affrontano l’argomento (solo per fare degli esempi: il libro appena uscito “Caccia all’omo” di Simone Alliva, il film premio Oscar “Chiamami col tuo nome” (tratto dall’omonimo libro di André Aciman), la seguitissima webserie “Skam”); ci sono i progetti nelle scuola che parlano di prevenzione al bullismo omofobico; tanti personaggi pubblici hanno dichiarato la propria omosessualità e bisessualità (vedi ad esempio l‘articolo da noi pubblicato).

Se ne parla molto di più che in passato, fortunatamente, ma non sempre si conosce veramente l’argomento, tanto che spesso se ne parla in maniera poco appropriata, mescolando i termini e i significati.

In particolare, ci soffermiamo oggi su due parole che vengono spesso confuse e il cui uso non è sempre corretto, poiché fanno riferimento a due costrutti molto diversi: coming out e outing.

Il termine coming out è la contrazione di coming out of the closet, letteralmente uscire dal ripostiglio, dall’armadio, ovvero uscire allo scoperto: nel mondo LGBT l’espressione coming out significa dichiarare volontariamente al mondo il proprio orientamento, vuol dire prendersi la responsabilità di dire agli altri di essere omosessuale, bisessuale o – udite, udite – eterosessuale. Ebbene sì: anche dichiarare il proprio orientamento eterosessuale è fare coming out, ma nel nostro articolo ci concentreremo sul coming out di una persona omosessuale o bisessuale.

L’omosessualità – e la bisessualità – viene definita dagli studiosi come uno stigma nascondibile, nel senso che è la persona stessa a decidere se rivelare o meno il proprio orientamento, a differenza, ad esempio, del colore della pelle: questo, se da un lato consente un atteggiamento protettivo nei propri confronti (es. se sento di essere in pericolo, posso decidere di non rivelare il mio orientamento), dall’altro crea una situazione di continua negoziazione sociale e la persona vive continuamente la questione della visibilità. “Lo dico? Non lo dico? A chi lo dico? Come lo dico? A chi posso dirlo? Come la prenderà? Mi rifiuteranno?”, in un vortice di domande automatiche e di velocissime considerazioni, ci si trova a cercare di anticipare le conseguenze di ciò che si sta per dire, a cercare di frugare nelle reazioni altrui, probabilmente con un velo di preoccupazione addosso. In sostanza, il coming out è un processo continuo, che non ha mai fine, lo si fa coi genitori e alle riunioni di famiglia, con gli amici e coi compagni di classe, sul luogo di lavoro, in albergo e quando si prenotano i posti per congiunti ad un concerto, con l’agente immobiliare, quando si racconta delle proprie vacanze o di un incidente in casa: la risposta ad una domanda all’apparenza banale (“dove sei stato questo weekend?”) può diventare un momento critico, in cui è necessario decidere cosa raccontare di sé e della propria vita. Per questo motivo, il continuo affollarsi di queste domande in testa viene definito rumore bianco, ovvero uno stress sempre presente, un’ansia anticipatoria collegata a minority stress (vedi l’articolo sull’omofobia interiorizzata).

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Se guardiamo l’altro lato della medaglia, però, possiamo definire il coming out come un atto di amore nei confronti di sé stessi, perché in questo modo non lasciamo che il giudizio degli altri condizioni il nostro giudizio su di noi, perché l’omofobia interiorizzata non ci renda prigionieri di noi stessi, perché possiamo avere sempre meno paura di dire: io sono lesbica, sono gay, sono bisessuale.

Tutt’altro discorso va fatto per l’outing.

L’outing è la rivelazione pubblica dell’omosessualità/bisessualità da parte di terzi senza il consenso della persona interessata; il termine proviene da out, traduzione dell’avverbio fuori, nel senso di buttar fuori dall’armadio e venne coniato dal Time a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90. In Italiano spesso il termine outing viene impropriamente confuso con coming out, ma si tratta di una confusione piuttosto grave, dal momento che possiamo definire l’outing come una vera e propria forma di bullismo omofobico.

L’outing dell’omosessualità (o bisessualità) di una persona viene fatto, solitamente, senza che lei ne sia consenziente o contro la sua volontà, diventando, di fatto, una violenza: tale esposizione può rivelarsi potenzialmente pericolosa, poiché quella persona non vuole o non è in grado di affrontare le conseguenze, oltre a rappresentare una violazione delle sue decisioni.

Coming out e outing sono due atti molto potenti ma, dal momento che l’orientamento sessuale è una dimensione nucleare dell’individuo, hanno strettamente a che fare con la dimensione di consapevolezza.

Facciamo un esempio, inerente il contesto scolastico: un ragazzo può decidere di fare coming out, di dichiararsi omosessuale, per varie ragioni (es. affermare la propria identità, come atto di coraggio, per condividere le proprie esperienze coi pari, etc.) e in tal caso si assume, consapevolmente, la responsabilità delle sue azioni e del suo gesto, che a volte può essere anche liberatorio. Diverso è se subisce outing da parte dei compagni: in questo caso, quel ragazzo può, ad esempio, non essere pronto a dirlo agli altri, può aver paura di essere preso in giro o che la notizia arrivi agli insegnanti e alla propria famiglia, può essere in difficoltà con il proprio orientamento e, di conseguenza, sentirsi confuso, può sentire gli occhi puntati addosso come un “sei sbagliato”, e così via. 

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Se diciamo che sono le parole a dare forma al pensiero, non possiamo ignorare la differenza sostanziale che esiste tra coming out e outing. Questo è il motivo per cui utilizzare un linguaggio corretto e adeguato, con consapevolezza dei significati che le parole hanno e delle implicazioni che portano con sé, è sempre un’ottima idea. Per lo stesso motivo, inoltre, è importante incoraggiare il coming out dei ragazzi ed evitare accuratamente l’outing, poiché anche quello fatto più “in buona fede” e con le migliori intenzioni, può diventare un boomerang e rivelarsi una pessima idea.

Diamo spazio ai ragazzi, rispettiamo i loro tempi e le loro modalità, diamogli il rispetto che meritano in quanto artefici della loro vita e delle loro scelte: solo in questo modo favoriremo l’autenticità della comunicazione e la condivisione vera degli affetti, diventando alleati e non nemici.

E se siamo delle persone LGBT che vogliono fare coming out? Ecco cosa possiamo fare:

  • prendiamoci tempo e spazio per conoscerci, per informarci, per capirci e ascoltarci meglio;
  • prepariamoci a varie reazioni, non tutto va come nei film, nel bene e nel male: i nostri amici o famigliari possono sorprenderci accogliendoci e ascoltandoci, oppure possono avere reazioni aggressive. Consideriamo sempre che, magari, anche loro hanno paura di ciò che sta accadendo o che non hanno gli strumenti per far fronte a questa rivelazione;
  • cerchiamo, eventualmente, sostegno: che sia di un amico o di un esperto o di una associazione, che sia un supporto o un semplice consiglio, parlarne con qualcuno è sempre un’utile soluzione.

Tiziano, Michael, Ellen: l’importanza di essere visibili

di Rosa Olga Nardelli

Tiziano è un ragazzo di Latina, vive la sua adolescenza a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Ha una vita normale: famiglia semplice – mamma casalinga, papà geometra, un fratello più piccolo – e una tastiera Bontempi regalatagli per Natale. Deve fare i conti con la bulimia, tanto da arrivare a pesare 111 kg, e con i compagni che lo prendono in giro per questo. Ne esce grazie alla musica e imparando a suonare pianoforte, chitarra classica, batteria, intanto studia canto e canta in un coro gospel.

Michael nasce nel 1983 a Beirut, in Libano, e ad un anno di vita si trasferisce a Parigi a causa della guerra civile per approdare, infine, a Londra più o meno quando ha 9 anni. Col tempo impara a parlare inglese, francese, italiano, poi cinese, spagnolo e arabo, È figlio di una famiglia agiata, frequenta i migliori college, si destreggia tra la musica – compone canzoni sin da piccolo, spaziando dall’opera alla musica leggera – e la dislessia, che lo fa penare a scuola. 

Storie banali, sembrerebbe, con in comune la passione per la musica che li solleva da ciò che li rende “diversi” agli occhi degli altri, ovvero la bulimia e la dislessia. 

Eppure hanno ancora qualcosa che li lega: oggi sono due superstar internazionali della musica pop, Tiziano Ferro e Michael Holbrook Penniman Jr., in arte Mika

Poi c’è Ellen, canadese, figlia di un graphic designer e di una insegnante. Deve frequentare tre scuole diverse prima di diplomarsi nel 2005. È vegana, atea e si definisce una femminista. Comincia a recitare in piccoli ruoli a 11 anni, si fa prendere tantissimo da questa passione, fino a farne un lavoro vero e proprio. Diventa una star internazionale con X-Men e con Juno, per poi impegnarsi anche come attivista: parliamo dell’attrice Ellen Page.

In comune con Tiziano e Michael ha l’orientamento sessuale: sono tutti e tre omosessuali. E sono famosissimi tra gli adolescenti di tutto il mondo.

Che importanza ha, per un ragazzino o una ragazzina della periferia d’Italia, sapere che queste superstar, lontane anni luce da lui/lei, sono omosessuali? La risposta è fin troppo semplice, quasi banale: sono personaggi famosi e visibili e fanno sentire quel ragazzino e quella ragazzina meno soli.

Il vissuto di un adolescente che sta scoprendo la propria omosessualità, spesso, è quello di sentirsi l’unico al mondo: “in una fase in cui gli adolescenti imparano a socializzare, gli adolescenti omosessuali e bisessuali imparano a nascondersi” (Herek, 2016).

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Questa solitudine l’abbiamo letta nella testimonianza di Diego: “Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me”. Lo abbiamo sentito da Giacomo: “al mondo, ne ero certo, omosessuali eravamo solo io e Renato Zero! Immaginatevi lo stupore quando quest’ultimo negò di esserlo: rimanevo solo io…”. E proprio alle parole di Giacomo ci affidiamo per comprendere lo stato d’animo che un adolescente si porta dietro: non importa se si è adolescenti nel 2020 o nel 1980, non importa se si vive a Londra, a Latina o a Spilimbergo: se “uno famoso” nega la propria omosessualità la solitudine che quella ragazzina o quel ragazzino provano è dirompente e disarmante. Giacomo lo definisce “il terrore”.

Conosciamo ormai le conseguenze a cui questa solitudine può portare, ma forse è il caso di soffermarsi sui benefici della visibilità di persone famose come Mika, Tiziano Ferro ed Ellen Page, ma anche di persone comuni come Diego e Giacomo.

Il coming out di un personaggio famoso contribuisce a normalizzare il costrutto di omosessualità nella rappresentazione della società. Non bastano le storie di fantasia lette nei romanzi o viste nei film; gli adolescenti hanno bisogno di persone vere, vogliono specchiarsi nei loro volti e riconoscersi nelle loro storie, hanno bisogno di raccontarsi che le persone con orientamento omosessuale esistono e vivono nel loro stesso mondo. Tanto meglio se poi, a raccontare la propria storia di coming out, ci sono anche le persone che li circondano: Giacomo che fa il grafico, Diego che lavora come operaio, l’insegnante di inglese, l’allenatore di rugby, la propria pediatra, l’elettricista che ha aggiustato il frigo, l’imprenditrice per la quale lavora il papà, la parrucchiera dietro casa, il libraio, il programmatore che ha sistemato il pc, la direttrice della banda della scuola, Il campione dell’Eredità, il commesso del negozio di scarpe, l’avvocata che sta parlando in TV, e via dicendo.

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Il concetto di visibilità, dunque, diventa un concetto molto importante, poiché è il risultato del processo di accettazione di sé (coming out) che permette ad una persona omosessuale (o bisessuale) di vivere la propria identità alla luce del sole. Ha a che fare con il sentirsi liberi di dire cose che, in altro modo, sarebbero difficili da dire, per esempio di essere andati al cinema con il proprio fidanzato, o raccontare di aver fatto delle splendide vacanze a Parigi con la propria compagna. E ha anche a che fare con la possibilità di denunciare episodi spiacevoli: ad esempio di venire costantemente prese in giro a scuola per essersi prese per mano in classe, o di essere stati aggrediti per aver partecipato ad un Pride ed avere un arcobaleno disegnato sulla maglietta.

Quindi, cosa possiamo fare? Possiamo raccontare le storie di coming out ai ragazzi. Facciamogli conoscere i tanti Ellen, Diego e Michael in tutti i campi, non solo in quello della musica o dello spettacolo. Tante persone, donne e uomini, che vivono una vita “banale” (con le dovute virgolette, nell’accezione di “quotidiana, comune”) e che sono più vicine di ciò che si pensa.

Raccontiamo agli adolescenti di storie belle e brutte, di coming out lisci come l’olio e di rivelazioni che hanno sfasciato intere famiglie; di vite vissute alla luce del sole e di altre che hanno dovuto affrontare continui pregiudizi e discriminazioni sul lavoro e nel privato, di storie a lieto fine e di altre conclusesi tristemente. Raccontiamogli del suicidio del “ragazzo coi pantaloni rosa”, che è arrivato a tanto perché non ne poteva più di essere offeso e deriso a scuola; diciamo loro che ci sono educatori che, poiché dichiaratamente omosessuali, hanno dovuto abbandonare il loro lavoro pur avendo studiato anni per svolgerlo perché alcuni genitori non li volevano accanto ai propri figli; ma raccontiamo loro anche di coloro che si sono presi carico della storia propria ed altrui e sono diventati attivisti, impegnandosi ogni giorno nelle battaglie per i diritti, e poi parliamo loro di quel dirigente scolastico che non ha cancellato la scritta “preside gay” sui muri della scuola dove lavora, perché per lui essere gay non è un’offesa e perché voleva lasciare un insegnamento ai suoi studenti.

Passiamo loro il messaggio che l’orientamento sessuale è una caratteristica dell’individuo, come il colore marrone degli occhi, il saper risolvere i problemi matematici, il fatto di odiare i peperoni, la passione per la Nutella invece che per la marmellata, o la predilezione per stendere i calzini accoppiati per colore invece che sparpagliati sullo stendino.

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