Annoiati davanti al nulla, impotenti davanti a tutto

di Sara Feltrin

Poche settimane fa su Teen&20 scrivevo un articolo, La guerra dentro, nel quale descrivevo il forte malessere e la profonda sofferenza che caratterizza la gran parte degli adolescenti di oggi, chiusi e bloccati dentro le mura domestiche, come pettirossi in gabba, rossi dalla rabbia.

La guerra, ora, è scoppiata davvero. 

Le manifestazioni con cui i giovani hanno provato a farsi sentire e urlare a gran voce nelle piazze o fuori della scuola, vestiti a strati con berretto, guanti e una coperta stesa a terra come clochard lungo la strada, sono state parecchie. Telegiornali e notiziari ne hanno parlato molto, li hanno intervistati, ma nulla è cambiato. I continui DPCM tentennano tra salvare il mondo da una pandemia mondiale e l’Italia da un collasso economico, lasciando aperti fino a sera i centri commerciali per i regali di Natale, ma le scuole perennemente chiuse. 

Risale a pochi giorni fa (5 dicembre 2020) la vicenda presso il Pincio di Roma in cui centinaia di giovani, gran parte minorenni, si sono raccolti, un sabato pomeriggio, per assistere ad una rissa tra due ragazze. Una di loro, però, non si è presentata ma ciò nonostante la rissa è esplosa lo stesso, tra gruppi di ragazzini guidati da rabbia e sete di vendetta. La diretta e inevitabile conseguenza è stato quindi un grande affollamento di centinaia di giovani arrabbiati che, senza l’utilizzo di mascherine, si è ribellato nel centro di Roma. Ma i pugni, incitamenti, aggressioni, e violenze scagliate uno contro l’altro, nonostante l’intervento delle Forze dell’Ordine in tenuta anti sommossa, non sono bastati a frenare la rivolta. 

E su Tik Tok, Telegram e WhatsApp, circola già il messaggio “Confermata al 100% la rissa il prossimo sabato” ma sta volta i pugni e calci non basteranno e le armi della “rivincita” saranno lame e coltelli. 

Ci impressioniamo di tanta violenza, maleducazione, vandalismo e intemperanza. Questo, alla fine, colpisce. L’attenzione è diretta alle conseguenze più che alle cause e si cerca un modo per frenarli e disarmarli con tute antisommossa quando invece dovremmo fermarci ad ascoltarli, con le parole. Perchè mettersi ancora contro di loro non fa altro che aumentare la distanza, e più saranno lontani e più loro urleranno.

I numeri parlano chiaro: dallo scorso anno il numero degli atti vandalici provocato da ragazzi nella fascia adolescenziale è aumentato dal 16% al 22%; le risse ora sono al 24%, l’utilizzo di armi o oggetti pericolosi all’8% e l’aggressività su persone al 35% (Osservatorio Nazionale Adolescenza).

I nostri non sono più ragazzi e adolescenti che si ribellano per trovare dei limiti o dei confini per la definizione di sè; sono ragazzi demotivati, arrabbiati; sono adolescenti stufi di ribellarsi e che quindi, lottano. Lottano (o meglio, lottavano) a scuola dove attenzione e concentrazione sembrano capacità irraggiungibili e una buona comunicazione con insegnanti e compagni una grande utopia. Lottano nelle strade contro una società che li giudica e li considera un peso anziché una ricchezza. Lottano infine nelle piazze, unico luogo in cui ritrovare la voce e le urla dei coetanei arrabbiati e sconfortati come loro per scagliarsi insieme contro un mondo che non dà opportunità e sa di amaro. Ma lottano soprattutto in casa e in camera in particolare, contro se stessi. Mancano obiettivi, tante volte mancano perfino i sogni, mancano figure solide, mancano punti di riferimento verso le quali dirigere la rotta, manca la rotta e manca la motivazione che lascia spazio alla noia. E la noia di un vuoto, soprattutto in un’età in cui istinti e ormoni prendono il sopravvento, porta a frustrazione e percezione di scarsa autoefficacia (non faccio quindi non imparo quindi evito di fare per non fallire). Mettiamoci un futuro senza certezze del domani, una pandemia in corso che limita gli spostamenti bloccando i contatti fondamentali e la ricetta è pronta. 

Così, abbandonati alla noia e all’angoscia, l’unica strada rimane quella dell’esplorare l’oltre, una pseudo realtà fatta di adrenalina e autoefficacia che restituisce sensazioni di libertà, coraggio, competenza e vita. Ed ecco che spesso si ricorre all’alcol, alla droga, alla violenza, ai killer selfie, ai knockout, alle challenges virali spesso mortali, sfide ricche di sensazioni fortissime, devianze nate non più per raggiungere dei limiti ma per scavalcarli.

E’ una guerra spietata quella che sentono dentro e ce lo stanno dimostrando in tutti i modi, arrivando a volte persino al suicidio.

Ora tocca a noi ascoltarli, senza giudicarli e senza pretendere da loro chi vorremmo che fossero, ma accettiamoli, comprendiamoli e aiutiamoli con tutti gli sforzi che stanno facendo per crescere in un mondo così astioso come l’attuale. Hanno bisogno di noi, figure di riferimento, autorità competenti e persone da stimare che possono insegnare loro come sconfiggere lo sconforto e la frustrazione, per recuperare i sogni perduti e per poter credere che dopo ci sarà qualcosa di buono per cui valga la pena lottare ma soprattutto, per cui valga la pena vivere

Ora tocca a noi.

Vento dell’est, 

la nebbia è là, 

qualcosa di strano tra poco accadrà. 

Troppo difficile capire cos’è, 

ma penso che un ospite arrivi per me. 

                                                                  Walt Disney,  Saving Mr Banks

Ti conosco?

di Francesca Del Rizzo

Cosa significa conoscere una persona?

Mi è capitato, recentemente, di sentire spesso questa domanda attraversarmi la mente. Pensandoci credo che incontrare costantemente persone nuove, approfondire la conoscenza di persone che conosco da tempo, ma soprattutto, vedere crescere figli adolescenti possano forse essere gli inneschi per questo tipo di interrogativo.

Professionalmente incontro le persone e sono profondamente impegnata nel tentativo di comprendere loro ed il mondo che le circonda. Nella mia vita privata frequento amici che posso dire di conoscere da tempo eppure ho sempre la sensazione che qualcosa mi sfugga. Di fronte a mio figlio in rapida e disarmante trasformazione, poi, mi sento talvolta priva di bussola e disorientata. Ed è mio figlio, me lo sono visto crescere giorno per giorno. Ho cercato di stare attenta e di non perdermi nulla della sua evoluzione, eppure…

Eppure mi trovo a dire che forse non lo conosco davvero. E la domanda si ripresenta: cosa significa conoscere una persona? I vari sistemi psicologici hanno dato, nel tempo, vari tipi di risposte a questa domanda, ma nessuna è davvero esauriente. Mi sembra che conoscere una persona non equivalga a conoscerne la storia, misurarne i processi cognitivi, valutarne emozioni e motivazioni, né che sia sufficiente mappare il sistema di relazioni in cui è immersa.

Nel costruttivismo diciamo che per conoscere una persona dobbiamo comprendere che cosa è fondamentalmente impegnata a fare. Credo sia una buona idea ed un ottimo punto di partenza. Se comprendo, infatti, che la mia amica è fondamentalmente impegnata a non essere di peso sulle altre persone, non mi stupirò quando non mi dirà che sta male o se non mi chiederà aiuto quando ne potrebbe avere bisogno. E dovrò stare attenta alle proposte che le farò: c’è il rischio che mi compiaccia per non darmi un dispiacere… Sapere che cosa è fondamentalmente impegnata a fare mi permette di anticipare a grandi linee, ed a volte in modo più raffinato, cosa farà e come si sentirà in una certa situazione. Per farlo dovrò guardare alle varie situazioni dal suo punto di vista, attraverso i suoi occhi: dovrò essere in grado di capire cosa esse significhino per lei. ma per guardare il mondo dal suo punto di vista un po’ la devo già conoscere…

Ecco allora che conoscere una persona mi sembra il frutto di un processo ricorsivo: provo a guardare il mondo dai tuoi occchi, anticipo cosa potresti fare in quella situazione, vedo se lo fai… e se lo fai posso dire di conoscerti, almeno relativamente a quell’aspetto, altrimenti c’è qualcosa che non torna… devo mettere in discussione un pezzo della mia comprensione di te e riprovare.

Il che potrebbe anche funzionare, se l’altro si limitasse ad “essere se stesso” e a “fare se stesso” in maniera coerente e stabile nel tempo. Cosa che precisamente le persone non fanno, per fortuna. Le persone cambiano. A volte i cambiamenti sono minuscoli, altre un po’ più importanti, altre ancora considerevoli. Ed allora scopriamo che non riusciamo più a capire così bene, ad anticipare così efficacemente. Ci sentiamo sorpresi, spiazzati, a volte molto spaventati. Quante volte abbiamo sentito dire, o abbiamo detto: “Ma, non è da lei/lui, non ha mai fatto così, non me lo aspettavo proprio!”

Talvolta siamo così confusi da non riuscire a prendere atto del fatto che, evidentemente, qualcosa non è più come prima e cerchiamo di fare tornare l’altro nell’alveo della nostra passata conoscenza di lui. Per cui, se il nostro adolescente improvvisamente non ci racconta più nulla, niente, non ce la facciamo ad accettarlo… e insistiamo, proviamo in un altro modo, lo facciamo sentire in colpa, lo minacciamo… Siamo così affezionati alla nostra passata comprensione di lui – comprensione che ci dava anche un preciso posto nella sua vita – che non riusciamo a mollarla, perchè mollarla implicherebbe anche lasciare andare una parte di noi, la parte di noi che aveva un certo ruolo con quella persona che era così come era, nella relazione con noi.

Immagine di Alessia Tornusciolo

Quindi, riassumendo, possiamo dire di conoscere un po’ l’altro quando riusciamo a guardare il mondo dal suo punto di vista e ad anticipare come lui si sentirà ed agirà in una certa situazione, ma, siccome l’altro non è fermo ma in continuo cambiamento, possiamo prevedere che spesso la nostra conoscenza si dimostrerà incompleta o sbagliata. Sembra che siamo arrivati ad una specie di paradosso: conoscere l’altro significa sapere di non conoscerlo davvero.

Ora che lo guardo bene, questo paradosso mi piace tantissimo, perché la consapevolezza che la mia conoscenza dell’altro (o dell’altra) è sempre in procinto di mostrare i suoi limiti non può che tenere sempre aperti la mia curiosità ed il mio interesse nei suoi confronti, mi impegna a mettermi in gioco con lui (o con lei) senza mai dare nulla per scontato, e mi porta ad una continua rimodulazione della nostra relazione: infatti se l’altro cambia, cambia anche la sua relazione con me.

Faticoso? A volte può esserlo molto (cfr. l’adolescente di cui sopra), ma sicuramente entusiasmante. Disorientante, più spesso del gradito, ma vitale e vivo, anche un po’ misterioso, se volete, che, a mio avviso, non guasta.

Rassicurante, deludente quotidianità

di Sara Feltrin

Quanta intrepida attesa per il rientro a questa “normalità”, a quella quotidianità che ha sempre saputo scandire, con ordinaria costanza, le nostre giornate, i nostri impegni, i nostri appuntamenti di vita. Per quanto l’abbiamo aspettata, questa rassicurante quotidianità, dopo mesi e mesi di un lockdown che ha messo un freno ai quotidiani programmi in agenda, ai progetti futuri e a quelle banali ma fondamentali abitudini che sanno di conforto e ci danno la sensazione di avere il controllo delle cose, avere in mano la nostra vita! 

Quella rassicurante quotidianità che per bambini e ragazzi significa alzarsi ogni mattina per andare a scuola, fare una colazione da campioni per tenere a bada stomaco ed energie fino all’ora della ricreazione, prendere il bus e tenere il posto all’amico o percorrere la strada in auto in compagnia delle solite raccomandazioni di mamma o papà; significa anche l’entusiasmo e la voglia di ritrovarsi fuori della scuola con amici e compagni e, perché no, anche meno amici e concorrenti, perché anche loro, in qualche modo, rientrano in quella significativa famiglia, la seconda famiglia, che dà senso di appartenenza ad un gruppo, comprensione e vicinanza; significa anche didattica: interrogazioni e verifiche che hanno sempre portato quel pizzico di sale e angoscia per delle prestazioni che poi finiscono sempre con un voto, un giudizio, un numero, capace di portare l’umore alle stelle o affondare nello sconforto. Rassicurante quotidianità per i nostri giovani significa anche responsabilità scandita a piccole dosi, e l’ottica di un futuro prossimo nel prepararsi vestiti e zaino per la curiosa aspettativa del giorno dopo. 

Per i più grandi invece, la rassicurante quotidianità può significare un rientro al lavoro più pacifico e distante dal pensiero dei figli bloccati a casa; può significare più tempo libero per sé: dallo sport allo svago dello shopping, le uscite in famiglia e gli appuntamenti con gli amici; rassicurante quotidianità vuol dire anche riprendere il proprio ruolo professionale, tornare alle proprie competenze lavorative, con stress più o meno annesso, e a quella sensazione di padronanza che fa sentire vivi, attivi e intraprendenti; significa anche stipendio, possibilità economica e progetti, magari lasciati in sospeso.

Dopo lunghi mesi vissuti in balìa di un Virus, direttive e regolamenti ministeriali, ognuno si riprende i propri desideri, obiettivi, oneri e doveri. Ognuno si riappropria, pian piano, della propria libertà e della propria autonomia tornando ad essere protagonista attivo e proattivo verso il futuro. Quel futuro che era stato lasciato momentaneamente da parte perchè “con sto Virus non si può sapere”; quel futuro che era stato frenato improvvisamente perchè l’incertezza era all’ordine del giorno. 

E’ da poco iniziata la scuola, siamo a due settimane dalla ripresa e ancora ci sono ragazzi che quest’anno la scuola non l’hanno ancora mai vista e che, dopo un lungo, lunghissimo periodo in cui anche le vacanze estive si sono mescolate alla penombra del lockdown, si sono trovati nuovamente di fronte allo schermo di un pc in attesa della videolezione o della chiamata del compagno di classe che riferisse i compiti assegnati. 

Un flashback.

Un déjà-vu.

Ecco che allora espressioni come “Sono stufo. Non ho voglia di alzarmi. Voglio tornare a scuola e basta. Svegliarmi, prendere il bus e rompermi le scatole perchè non ci sono posti” diventano lecite di fronte all’aspettativa dell’entusiasmante rientro a quella rassicurante quotidianità a cui tutti siamo ancorati. Perché sì, nel marasma dell’incertezza, anche quelle piccole, seppur scomode, incertezze diventano abitudini significative e pilastri resistenti a cui appendersi in caso di oblio. Parlo di oblio perché è difficile pensare ad un panorama fiorito, per loro, in questo momento. E’ difficile immaginarlo per noi adulti, figuriamoci per chi, come loro, non riesce nemmeno ad immaginarsi in che direzione sia il futuro, né, tanto meno, che strada intraprendere. Così sogni e desideri, già annebbiati e insicuri in partenza, faticano sempre più a trovare conferma e un collocamento stabile in quel futuro che, chissà. E’ vero che sogni e desideri sono sempre stati, per definizione, concetti astratti in cui credere e sperare. Questa volta però, in questi anni a venire, manca l’ingrediente fondamentale: la motivazione. Si è motivati nel momento in cui si crede profondamente che la scelta fatta sia valida e piacevole e che l’obiettivo porti serenità e soddisfazione, nonostante ostacoli e difficoltà. Si è motivati nel momento i cui si crede nei propri sogni. E quando si crede fermamente nei propri sogni, si possono superare tutte le difficoltà.

Banalmente, è un pò come alzarsi dal letto la mattina per andare a scuola: non importa quali siano le difficoltà, trovare posto o meno nel bus, la voglia di andare a scuola, intraprendere e seguire un obiettivo, rimane ferma.  

Non è facile crescere su queste basi poco sicure, crescere e maturare la propria individualità, soprattutto se il massimo dell’espressione, ora, è nascosto dietro mascherine, gel igienizzanti e distanziamento sociale. E’ una battaglia, non tanto contro la società o le Istituzioni, quanto piuttosto contro quel Sé ideale, quel vorrei essere che, già difficile da scovare e scoprire, non è facile inseguire poiché spesso si trova sconfinato in un profilo social, non riuscendo, nella vita reale, a trovare una sana e coesa manifestazione. 

Ecco che allora quella rassicurante quotidianità ha profondamente deluso ogni aspettativa: oltre a non aver portato alcuna rassicurazione, ha aggiunto sconforto e disillusione per quel futuro già precario di per sé. Forse, essere troppo ancorati alle abitudini del passato con una legittima, ma disfunzionale, pretesa che l’adesso sia come il prima, ha deviato troppo il panorama che ci avrebbe aspettato.

Forse quindi, non ci sarà una rassicurante ripresa, ma sicuramente ci aspetta una nuova partenza che molto probabilmente non ha nulla a che vedere con le riprese degli anni passati, ma avrà un altro sapore mai provato prima, altre opportunità e altre rassicurazioni su cui potremo ri-adattare i nostri progetti futuri. 

Quanto ai nostri ragazzi, in una società che ha perso molte certezze, hanno bisogno di un’àncora che li rassicuri e li aiuti ad intravedere la luce anche nel più tenebroso dei panorami; un’àncora che li protegga dai venti avversi per evitare che perdano di vista la strada, il loro obiettivo, le speranze dei loro sogni. Che ricordi loro chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Così, nel peggiore dei panorami, se anche molte cose intorno si sgretolano e crollano, loro, grazie a noi, figure di riferimento essenziali, sapranno imparare a stare a galla. 

E’ davvero questione di “carattere”?

di Francesca Del Rizzo

“Ogni bambino [e ogni bambina] modifica istintivamente le proprie necessità e le proprie risposte comportamentali in funzione delle richieste e delle preferenze dei genitori, imparando presto cosa ci si aspetta dalla relazione con lui [o con lei]” (Pat Ogden).

Partiamo oggi da questa citazione per riflettere su un tema che considero molto importante.

Sia nell’ambito della consulenza che in contesti più informali mi capita di sentire molti genitori iniziare o completare una frase che riguarda la loro relazione con i figli con l’espressione “eh, sì, perchè ha un carattere!!” naturalmente sottintendendo che il carattere è difficile, complicato, testardo… o qualche cosa di simile. Questa frase viene generalmente utilizzata come spiegazione: non riesco a fare con lei (o con lui) una certa cosa, ad ottenere un certo comportamento, perchè ha un carattere difficile. Scendendo nel concreto: “non riesco mica a convincere Luca a giocare con sua sorella, sai, ha un carattere!!…”

In questo ragionamento ci sono vari aspetti che potremmo sottolineare, ne sceglierò solo un paio. Innanzitutto vi è l’idea che la responsabilità del mancato risultato atteso – o della ennesima ripetizione di un risultato indesiderato – sia del figlio, e per la precisione del suo carattere. In questo modo il genitore nega che la responsabilità possa essere sua e sembra non prendere nemmeno in considerazione l’eventualità che essa possa essere condivisa. Inoltre egli appare non contemplare la possibilità che le ragioni di quel comportamento possano collocarsi in qualcosa di diverso dal “carattere”.

Per esempio, nel nostro caso, se chiedessimo a Luca perchè non vuole giocare con la sorellina, potrebbe risponderci che per lui, che ha 13 anni, ed è un maschio, giocare con la sorella di 8 non esiste proprio, che poi magari i suoi amici vengono a saperlo. Questa risposta ci potrebbe suggerire l’ipotesi che per Luca sia “degradante” e vergognoso giocare con la sorella. Non intendo dire che, ammesso che questa ipotesi corrisponda davvero al motivo del comportamento di Luca, il rifiuto al gioco e la ragione che lo sostiene debbano essere accettati e basta, ma che sia molto importante cercare di comprendere davvero le ragioni per cui egli fa quello che fa. In questo caso, alla base della scelta di non giocare con la sorella ci sarebbe una convinzione basata su un paio di stereotipi molto diffusi (non solo fra i ragazzini): che giocare con le femmine possa essere disonorevole per un maschio e che giocare con i più piccoli renda ridicoli. Nulla a che fare con il “carattere”.

Stiamo solo sostituendo una spiegazione con un’altra? Cosa c’è di fondamentalmente diverso fra le due? Molte cose, ma fra tutte evidenzierei il fatto che, per come inteso comunemente, il “carattere” è concepito vagamente come una dotazione individuale immodificabile, mentre si pensa che le convinzioni e gli stereotipi, invece, possano cambiare, seppur talvolta a fatica.

Infatti, se chiediamo a bruciapelo alle persone cosa sia il carattere otteniamo risposte come “il carattere è come uno è, ad esempio se uno è scontroso, quello è il suo carattere”. La definizione è quindi vaga (il carattere è come uno è) ma al contempo monolitica, perché contiene implicitamente la convinzione che le persone siano fatte in un certo modo (quante volte abbiamo sentito dire che il carattere non si cambia?). Così come una persona può essere alta due metri, cosa che non si cambia, può essere solare, e nemmeno questo si cambia, perché uno è come è.

Torniamo ora alla citazione di Pat Ogden. Ripetiamola, per avercela qui, di fronte agli occhi:

“Ogni bambino [e ogni bambina] modifica istintivamente le proprie necessità e le proprie risposte comportamentali in funzione delle richieste e delle preferenze dei genitori, imparando presto cosa ci si aspetta dalla relazione con lui [o con lei].”

Cosa ha a che fare questa citazione con il ragionamento basato sul carattere? Ad occhio mi verrebbe da dire che si colloca un po’ all’opposto, anzi, no, “di lato”. Ogden sembra dirci che i bambini non hanno un certo carattere, non sono in un certo modo, ma fanno una serie di cose, cioè costruiscono abitudini ed atteggiamenti nell’ottica di confrontarsi con le richieste e con le preferenze dei genitori.

Perchè affermo che non sia l’opposto della teoria del carattere? Perchè Ogden non dice che ciò che i bambini fanno dipende dai genitori (quindi non passa dall’attribuire la responsabilità al figlio all’attribuirla al genitore), ci dice piuttosto che il bambino attivamente cerca di agire in un certo modo – modo che gli viene suggerito dal suo pensiero, dalle sue esperienze, dalla sua immaginazione – sulla base della sua idea di quali sono le richieste e i desideri dei genitori.

Se tornassimo a Luca e al suo rifiuto di giocare con la sorella, potremmo chiederci se ad esempio lui condivida il suo maschilismo con il padre, o con un’altra importante figura di riferimento, oppure se, più ottimisticamente, stia “disobbedendo” alla madre perché ha capito che non è necessario obbedirle per avere il suo affetto…

Le parole di Ogden ci aprono ad una visione in cui ciò che accade nella relazione è frutto del contributo di ciascuno dei partecipanti alla relazione stessa: i genitori ci mettono le loro aspettative, le loro preferenze, le loro richieste, i figli ci mettono la loro comprensione di queste ultime e la scelta di alcune azioni piuttosto che di altre. Non sempre nell’ottica di soddisfare le richieste dei genitori, ma sempre nell’ottica di rispondervi, talvolta oppondendovisi.

Inoltre, quello che Ogden ci suggerisce sembra essere un’immagine della relazione come una danza di assestamenti reciproci continui, non come la recita di un copione basato sul carattere, su modi di essere immutabili nel tempo. Questa prospettiva ci permette di guardare alle relazioni, ed ai comportamenti delle persone in relazione, come a dei processi in continua evoluzione lungo linee che vengono tracciate in tempo reale nell’ambito delle reciproche interazioni. Essa ci invita inoltre ad essere sempre curiosi rispetto a ciò che accade, a ciò che apportiamo sia noi che l’altro, a non dare insomma per scontato di sapere sempre perché le cose vanno come vanno.

Teen, Internet e Social Network

di Sara Feltrin

Esilaranti quanto insoliti video alla Tik Tok style, stories geolocalizzate dell’ultimo secondo postate su Instagram, post curiosi e sfoghi anonimi su Facebook e stati che, come su Whatsapp, per essere degni di nota devono rispondere al colpo di scena. Su YouTube la gara di visualizzazioni e seguaci per i corsi di fitness, yoga e pilates e, a seguire, i tutorial dell’handmade che invogliano e incentivano anche i più pigri demotivati.

Il XXI secolo si preannuncia così: all’insegna di cellulari e tablet diventati ormai vere e proprie estensioni di anima e corpo (chi esce più di casa senza cellulare, ormai?). E, come se non bastasse, è arrivata anche una pandemia mondiale ad accentuare ancor di più quella che si sta delineando come l’inizio di una realtà virtuale, aumentata.

Così, milioni e milioni di persone hanno dato il via, chi prima chi dopo, alle videochiamate, alla spesa online, alla ginnastica su YouTube e agli happy hour digitali. Tanto che persino il più cinico delle nuove tecnologie si è dovuto adattare all’utilizzo di questi marchingegni tanto spaventosi quanto efficienti. 

Volenti o nolenti, Internet e i nuovi dispositivi elettronici ci stanno inevitabilmente portando verso una nuova forma di realtà.

Come ci comportiamo noi adulti rispetto a questo? E, soprattutto, come si comportano i giovani e nostri adolescenti di fronte a questo tipo di realtà? Cosa pensiamo di conoscere riguardo a loro? Siamo sicuri che il nostro punto di vista sia condiviso con il loro?

Stiamo parlando di una realtà cresciuta pian piano assieme alle nuove generazioni, le quali hanno potuto masticare e conoscere con maggiore caparbietà il meccanismo elettronico e digitale. Ce l’hanno, come dire, nel sangue. Rispetto ad un adulto degli anni ’60 che si sente in qualche modo costretto a mettere da parte scaffali di quaderni ed enciclopedie, per i nostri teen ager la tecnologia digitale è pane quotidiano e l’era virtuale la realtà più spontanea e affabile, più facile, immediata e accomodante per i loro bisogni e per le loro necessità. Parliamo di necessità, non di passatempo. Ma quali sono queste necessità che vengono quasi magicamente esaudite e soddisfatte in rete?

Se fino a 20 anni fa la cerchia di amici (rigorosamente di paese, ovviamente) la si trovava in piazza, ora si affaccia allo schermo di un cellulare dall’altra parte della città; se i giri in bicicletta o sullo skate aiutavano a raggiungere case di amici e luoghi di ritrovo, qualche piroetta freestyle per lanciare la sfida dell’ultimo minuto, ora è sufficiente starsene sdraiati sul letto della propria camera per raggiungere qualunque parte del mondo; le sfide sono diventate challenges fatali in cui, per fermarsi (e affermarsi), un ginocchio sbucciato non basta più. Allora nascono quegli strani video di Tik Tok, ripetuti e ripresi fino allo sfinimento, o quella sfilza di stories pubblicate su Instagram nate per essere visti, spiati, guardati o semplicemente, per essere nel social. Che spesso però, nulla ha a che vedere con l’essere social, ovvero quell’essere sociale con cui Aristotele definiva l’uomo. Tuttavia, sia nel ‘300 a.C. che nel 2000 d.C., l’esigenza è la stessa: essere inclusi in una comunità e considerati una comunità. Ecco che ore e ore a lavorare online per la creazione del proprio avatar o per la pubblicazione del proprio profilo social nella piattaforma più popolare danno spazio a piccole evoluzioni diventate fondamentali  quanto necessarie per il raggiungimento di quell’obiettivo tanto difficile da raggiungere: la costruzione della propria identità. Così, l’avatar di gioco, armato e attrezzato con bombe e fucili per le battaglie online, ha sostituito lo scontro dei mitici soldatini verdi e delle battaglie con i Lego. Che siano “fisici” oppure online si tratta comunque di giochi di ruolo che permettono al giocatore ad interagire col mondo esterno attraverso la creazione di situazioni immaginarie, di scoprire e apprendere senza essere bloccati da paure, timori o preoccupazioni. Liberi di decidere e agire, acquisiscono competenze in una situazione, immaginaria appunto, che tutela e protegge.  

Oltre tutto gioco è espressione: di vissuti, stati d’animo ed emozioni spesso non facili da gestire come la rabbia, che nei luoghi “virtuali” è di certo più consentita e a volte, giustificata.

Gli anni sono passati, il sistema educativo è cambiato e i “giovani d’oggi” non sono più figli ribelli di un’infanzia costretta, ma adolescenti a volte fin troppo consapevoli di affettività, relazioni e di ciò che è stato fatto per loro; fin troppo in relazione con i genitori che, inevitabilmente, hanno sviluppato un sistema familiare relazionale più empatico ed affettivo. La realtà virtuale consente di socializzare ed esprimersi senza troppa paura dei pregiudizi, rendere alcuni vissuti più tollerabili perché condivisi o agiti insieme. La rete quindi non rappresenta sempre una perdita di tempo o una minaccia per cui preoccuparsi (troppo). La rete può diventare un antidolorifico ai vissuti di tristezza e solitudine, un’attenuante alla rabbia, all’ansia e alla paura del futuro, una stanza in cui tutto diventa possibile e i sogni, le fantasie e l’immaginazione prendono forma e si fanno spazio, libere di esistere.

In questo modo la rete può diventare un’amica confidante, una difesa protettiva ad una realtà fuori che spaventa e chiede sempre di più. Per questo è importante rispettare gli “spazi virtuali” dei nostri giovani esploratori: non demolirli ma piuttosto, visitarli e consultarli assieme per condividere e comprendere non solo le loro esigenze ma anche i loro stati d’animo. Cercare di capire a quale bisogno corrisponde l’uso o l’abuso di internet (soprattutto un utilizzo disfunzionale) quali le preoccupazioni o la rabbia che si celano dietro la creazione di un avatar che non rispecchia per niente l’aspetto dello stesso giocatore, quali insicurezze si nascondono in un profilo di Instagram un po’ troppo provocante. 

Cosa vogliono trovare nella rete e da cosa vogliono scappare? 

La crescita impone inevitabilmente dei salti evolutivi e dei cambiamenti sul piano corporeo, cognitivo ed emotivo che non sempre si riflettono in modo omogeneo e uniforme su tutti e tre i piani. A volte capita che non si sia psicologicamente pronti per un aumento di taglia al seno, per il cambio improvviso della voce o per i richiami ormonali dei primi amori, che rischiano di spezzare l’equilibrio tra il “chi sono” e il “chi voglio diventare” con un prematuro e angosciante “chi dovrò diventare”. E questo non è facile da capire (per i nostri ragazzi) e non è facile da captare (per i genitori).  

E’ qui che si innesca il lungo processo di conoscenza profonda dei nostri giovani esploratori e non possiamo pretendere, né tanto meno provare, ad arrestare il futuro. Ciò che è importante capire è che la rete non è essa stessa la causa della dipendenza da internet o del ritiro sociale, come tanti possono ritenere, ma un estremo tentativo di restare lì, in quella realtà, scappando da qualcosa che in questa realtà, angoscia, terrorizza o semplicemente, non piace. 

Tanto quanto qualunque altra situazione complessa, anche nella rete ci sono sicuramente dei grossi rischi che devono essere spiegati e compresi consapevolmente insieme. Se sapremo apprezzare e rispettare le loro esigenze, potremo aiutarli ad intraprendere al meglio il loro percorso di crescita. 

L’omofobia interiorizzata

di Rosa Olga Nardelli

C’è un fenomeno strano che riguarda le persone che sono abituate ad essere prese in giro, etichettate, discriminate: ad un certo punto iniziano a pensare che ciò che si dice di loro sia vero. Talmente vero che iniziano a crederci, a fare in modo che tutti ci credano, a fare in modo di cambiare per evitare di essere ancora sottoposti a quella tortura.

È un fenomeno molto comune tra le persone LGBT e in letteratura è stato utilizzato il termine di omofobia interiorizzata.

Definiamo: per omofobia interiorizzata si intende l’adesione più o meno consapevole da parte di persone omosessuali ai pregiudizi e agli atteggiamenti discriminatori di cui essi stessi sono vittime. In sostanza, deriva dall’accettazione passiva di tutti i sentimenti negativi, i comportamenti, le opinioni, i pregiudizi tipici della cultura omofoba. L’omofobia interiorizzata è in grado di condizionare notevolmente il funzionamento psicologico di persone gay e lesbiche, arrivando fino a voler negare e contrastare la propria omosessualità, o addirittura a nutrire sentimenti negativi nei confronti di altre persone omosessuali.

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Nei suoi studi, lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi (2014) individua le precise caratteristiche associate all’omofobia interiorizzata:

  • scarsa accettazione di sé, che può arrivare all’odio di sé,
  • sentimenti di incertezza, inferiorità e vergogna,
  • incapacità di comunicare agli altri la propria omosessualità,
  • convinzione di essere rifiutati a causa del proprio orientamento,
  • identificazione con gli stereotipi denigratori.

Anche il bullismo omofobico fa leva sull’omofobia interiorizzata della vittima. Un ragazzo omosessuale che prova vergogna, senso di colpa, forte ansia e fatica ad accettare serenamente il proprio orientamento sessuale, può essere una facile vittima di bullismo omofobico. Quel ragazzo, infatti, potrebbe non avere il coraggio di denunciare i propri aggressori, non solo per paura di ripercussioni, ma anche per evitare di mettere ancora di più al centro dell’attenzione pubblica la propria omosessualità, vera o presunta, la propria diversità.

Allargando il nostro campo, possiamo dire che l’omofobia interiorizzata non è un concetto a sé stante ma, assieme allo stigma percepito (la sensazione di essere percepiti come omosessuali, e quindi di essere socialmente rifiutati), fa parte del concetto più ampio di minority stress, ovvero l’insieme dei disagi che si provano per il fatto di appartenere ad una minoranza.

Il pregiudizio e la discriminazione sono una grossa fonte di stress per le persone LGBT, e i fatti di cronaca ci hanno abituati a confrontarci con episodi talvolta molto violenti e traumatici. In un certo senso, si può infatti affermare che l’omofobia gode di una maggiore accettazione sociale rispetto ad altre forme di discriminazione e razzismo. Le persone omosessuali, a differenza di altre minoranze (es. etniche, religiose, etc.), non sempre possono contare sul sostegno sociale e familiare: accade sempre più di frequente che gli episodi di omofobia avvengano in casa, oppure vengano appoggiate dai familiari stessi, che colludono con quella violenza e ne sono altrettanto responsabili.

Cosa può fare un adulto per contrastare il fenomeno dell’omofobia interiorizzata?

La prima cosa da fare, sicuramente, è ascoltare. Poi parlare, e infine ascoltare ancora.

Innanzitutto proviamo ad ascoltare di più riguardo a questi temi: informarsi e conoscere è il modo più immediato per uscire dal pregiudizio. Ascoltare opinioni autorevoli a riguardo, imparare concetti e termini nuovi, sapere cos’è l’identità sessuale e come si forma, ci aiuta a capire bene di cosa si sta parlando, fa ordine nella confusione nostra e dei nostri ragazzi. 

Poi parliamo di questi temi: a cena, nei viaggi in macchina, durante il pranzo di Pasqua o di Ferragosto, la sera sul divano. In questo modo prendiamo dimestichezza noi con l’argomento, ma anche i nostri figli si abituano ad un dialogo più aperto e comprensivo. Non sempre serve che loro siano presenti: parliamone anche semplicemente con i nostri compagni, mariti, mogli, genitori, amici, così da contagiare anche gli altri.

Infine, torniamo ad ascoltare i ragazzi, disponendoci diversamente ad un ascolto più attento e concentrato su di loro. Cosa ci portano? Quali sono le loro preoccupazioni? Di cosa vogliono parlare con noi? Di cosa non riescono a parlare con gli altri? C’è qualcosa per la quale provano vergogna?

Solo se noi, gli adulti di oggi, saremo aperti al dialogo e al confronto potremo “coltivare” degli adulti consapevoli e privi di pregiudizi. 

Percorsi tortuosi: adolescenti e scuola

di Francesca Del Rizzo

Questa settimana si è celebrato l’anniversario della nascita di Don Milani (27 maggio) e questa ricorrenza mi ha fatto riflettere: mi sono chiesta cosa avrebbe pensato lui della didattica a distanza di questi giorni, lui che faceva lezione all’aria aperta, lui che aveva con i suoi alunni un rapporto di prossimità, ancor più che di vicinanza. Sono certa che si sarebbe inventato qualcosa di bellissimo ed entusiasmante, per poter conservare la vicinanza nella sicurezza. Certo, non so se glielo avrebbero lasciato fare… ma sicuramente lui ci avrebbe provato ed avrebbe perseverato.

Perché amava educare ed amava i suoi ragazzi, tutti.

Don Milani fa scuola a Barbiana

Io ho invece l’impressione che, nella scuola di oggi, come in quella di ieri del resto, forse, non tutti gli insegnanti amino sempre tutti i loro studenti. Alcuni tendono a valorizzare e gratificare quelli che seguono percorsi lineari, che lavorano, si impegnano ed ottengono bei risultati, mentre tendono a svalutare, svilire, a volte umiliare chi invece sembra fare più fatica, magari si impegna poco ed ottiene risultati insufficienti o al limite. Credo che sia naturale, da un certo punto di vista. Insegnare non è per nulla una professione facile ed un insegnante può vivere il disimpegno di uno studente, il suo palese disinteresse per la materia e per i compiti, il suo scarso apprendimento come una sorta di insulto personale, mentre i risultati e l’abnegazione dell’allievo studioso lo gratificano e ripagano di tanta fatica.

Naturalmente non intendo assolutamente suggerire che agli studenti “bravi” non debba essere riconosciuto il lavoro che fanno, anzi probabilmente dovremmo riflettere – e non escludo che ci proverò – su come farlo in maniera davvero costruttiva, forse, però, un pensiero diverso su quelli che “non hanno voglia” potremmo articolarlo proprio ora, anche in memoria dei percorsi tortuosi dei ragazzi di don Milani.

Ho letto recentemente un libro che una persona che stimo mi ha prestato e che consiglio a tutti, senza distinzioni di età o di preferenze letterarie: è un libro che val la pena leggere. Si tratta di Bianco come Dio di Nicolò Govoni.

L’obiettivo di Nicolò nel libro non è raccontare il suo percorso scolastico, tuttavia a tratti egli ci parla di un’adolescenza difficile, caratterizzata da colpi di testa e da un difficile rapporto con il padre e con la scuola ed i suoi insegnanti. Alla fine delle superiori Nicolò, a diciotto anni, si sente vuoto: “Mi era stato detto che non valevo nulla così tante volte che avevo finito per crederci”.

Ed è proprio così che capita anche a molti ragazzi che io conosco in studio: è stato detto loro che non sono capaci, che non sono in grado di fare niente di buono, che non hanno combinato nulla nella vita (appunto, a 15, 16, 17, 18 anni…) così tante volte che queste sentenze sono diventate la definizione che loro stessi danno di sé.

Queste parole sono state dette da “adulti” (non solo insegnanti, certo, anche genitori, allenatori… ) che non hanno saputo fare qualcosa di diverso dal giudicare la persona sulla base di un comportamento, o una serie di comportamenti, senza mai chiedersi davvero: perché? Senza mai provare a guardare il mondo con gli occhi di quei ragazzi o di quelle ragazze (perché, intendiamoci, spiegare il comportamento di un ragazzo che non studia dicendo che non ha voglia di studiare mi sembra vagamente tautologico). Forse varrebbe la pena di chiedersi: e perché non ha voglia di studiare? Magari perché, con il passare degli anni, e delle parole degli adulti, si è convinto che non ha senso provarci, visto che tanto non può riuscirci… oppure perché è talmente impegnato a combattere i demoni dentro di sé che non ha energie o risorse da investire negli apprendimenti… o ancora perché ormai l’unico ruolo in cui si sente riconosciuto è quello del deviante. Le ragioni possono essere tante quante sono i ragazzi, ma, appunto, sono ragioni: c’è sempre un perché e concedersi di comprendere quel perché apre a mondi personali in cui anche le scelte apparentemente più sbagliate appaiono ragionevoli…

Le sentenze che gli adulti emettono con tanta, troppa leggerezza segnano i ragazzi e le ragazze, li inchiodano ad una versione temporanea e affaticata di loro stessi, e troppo spesso finiscono per stabilire e tracciare il loro futuro.

Nicolò si è ribellato a queste definizioni, ha scelto di abbandonare l’Italia e di andare a fare un periodo di volontariato in un orfanotrofio in India. Lì, fra molte altre cose, si è dedicato all’appoggio ai ragazzi dell’orfanotrofio nello svolgimento dei loro compiti scolastici. In un passaggio scrive:

“Dopo tre anni, i ragazzi parlano un inglese eccellente. Sono i primi della loro classe. […] Sono così orgoglioso dei loro progressi da stentare a credere di esserne stato in qualche parte il fautore. Stando con loro ho imparato qualcosa di fondamentale: un bambino crescendo si rivela sempre all’altezza delle tue aspettative. Se lo consideri un buono a nulla, ti crederà sulla parola e non andrà da nessuna parte. Se invece hai fiducia in lui, non c’è nulla che non possa ottenere. Non ho mai creduto nei miracoli, ma se assistere allo spettacolo di un bambino che impara qualcosa di nuovo non lo è, non so cos’altro possa esserlo.”

Ora Nicolò Govoni, ragazzo del 1993 cui gli insegnati avevano predetto che non avrebbe mai combinato nulla nella vita, è un giovane uomo la cui ultima, ma non unica, impresa è stata costruire, nell’isola di Samos, sostanzialmente dal nulla e con donazioni solo di privati, una scuola per bambini rifugiati sfuggiti alla guerra:

Nicolò Govoni a Mazì

“Oggi, oltre 150 bambini e adolescenti imparano e vivono nello spazio più sicuro, adatto e, lasciatemelo dire, bello dell’isola. Oggi cento minori altamente vulnerabili hanno la scuola che meritano, la scuola che era stata loro negata, la scuola per cui sono sopravvissuti a una guerra e attraversato mari e monti, la scuola che offre loro un’alternativa alla prigione in cui vivono. Questa è Mazì—Insieme.”

Mazì è un progetto che mi sembra molto simile alla scuola di Barbiana di Don Milani: un luogo dove gli adulti educano i piccoli e li accompagnano con amore e comprensione nei percorsi tortuosi cui la vita li costringe affinché possano liberarsi dalle sentenze definitive emesse da mondi violenti ed ingiusti e, come dice Nicolò, possano costruire, per sé e per gli altri, “la migliore versione di se stessi”.

Adolescenti post-Covid: cosa è cambiato?

di Sara Feltrin

Come è cambiata la vita dei nostri ragazzi e dei nostri adolescenti durante il Coronavirus? E soprattutto, cosa è cambiato da quando l’unico via libera, l’unico vis a vis extra-familiare veniva dalla nuova serie TV di Netflix, che, mai forse come in questo momento, ha dato sollievo ai pomeriggi di devastazione e solitudine dei nostri ragazzi?

Cosa è cambiato da parte nostra ma soprattutto da parte loro?

Venice Beach (Los Angeles), murales realizzato da Pony Wave

Dobbiamo innanzitutto partire dalla definizione, per quanto in continua evoluzione, di adolescenza. Con questo termine si indica la fascia d’età compresa tra i 12 e i 19 anni, caratterizzata da notevoli cambiamenti sia sul piano fisico che su quello psichico. In questa fase gli adolescenti si trovano a scegliere tra i modelli vecchi e quelli nuovi, tra imposizioni e ribellioni, tra essere come si vuole o come si è, oppure come si dovrebbe essere. Sono anni in cui la famiglia non è più il primo punto di riferimento: in particolare le relazioni con il gruppo dei pari diventano il laboratorio in cui i ragazzi costruiscono piano piano la loro identità. Possiamo quindi capire quanto siano di fondamentale importanza le relazioni affettive extra-familiari (compagni di scuola, amici, partner ma anche insegnanti ed educatori) per il mantenimento del proprio Sè. 

Abbiamo visto ragazzi che di fronte al lockdown hanno reagito con tristezza e rassegnazione, altri con rassicurazione e conforto perchè, finalmente, la loro scarsa vita sociale trovava un’ottima giustificazione nel non dover uscire. Abbiamo visto ragazzi sereni perchè “vabbè dai, per fortuna a casa sto bene e i miei amici li sento lo stesso con le videochat”. Abbiamo visto ragazzi demotivati e delusi da una società (e forse anche un mondo) improvvisamente bloccati e incerti, in cui loro stessi hanno da sempre proiettato un loro senso d’identità, il loro futuro, la loro storia. 

Abbiamo visto ragazzi che però, nonostante rassegnazione e delusione, nonostante disagi e difficoltà riscontrati in diversi fronti (isolamento, scuola, convivenza forzata, eccetera), nonostante tutto, hanno saputo adattarsi e trovare la loro soluzione personale per fare fronte. E in questi mesi in cui la vita era diventata una scommessa al continuo adattamento, loro, i nostri giovani, hanno vinto la scommessa.

Ebbene sì, forse questa volta dobbiamo imparare da loro, imparare dalla loro creatività e dalla loro adattabilità: i nostri ragazzi hanno saputo escogitare e trovare una libertà alternativa con una tenacia inaspettata. Come in un videogioco, questo è stato un salto evolutivo in cui non vince solo chi è più bravo a smanettare su social e videochat di gruppo, ma chi, nonostante tutto, ha mantenuto con sé speranza in un tempo che ha saputo dare voce all’esperienza e all’agilità tecnologica che solo loro hanno saputo mostrare e dimostrare.

Sì perchè, prima, eravamo noi adulti a dettare regole e limitazioni temporali per non stare troppo davanti a quello schermo. Ora, gli adulti sono loro. Sono loro, ragazzi cresciuti, che ora ci mostrano come entrare sulle piattaforme online, linkare un contenuto e sistemare audio e video senza sembrare totalmente imbranati di fronte a capi o colleghi. Sono loro, adolescenti senza posto, che ora insegnano a noi come creare relazioni online e come linkarci col mondo.

D’altronde, improvvisamente e tutto d’un tratto, si sono trovati senza un banco di scuola, un parco in cui trovarsi, una fermata del bus e per di più, senza amici. Sicuramente la tecnologia corre in soccorso, però che ne è delle relazioni vis a vis? Che ne è degli abbracci confortanti del “ti capisco, anche a casa mia è uguale”? Che ne è dei pianti e delle urla di sfogo che solo gli amici sanno placare? Che ne è degli sguardi e del contatto fisico, tasselli fondamentali di sviluppo e di pubertà?

Sono cresciuti, come quando succede che, improvvisamente, ci troviamo a metterci in discussione e ridare un senso a tutto. Così hanno fatto loro: faccia a faccia con le loro risorse e le loro fragilità ad affrontare un periodo storico che non è, forse, il più difficile a livello mondiale, ma il più difficile della loro vita. 

Hanno dimostrato forse molta più maturità e più responsabilità di quella che ci aspettavamo. E nell’affermazione di una ragazza “Sì ma io mi autoregolo, seguo le lezioni e faccio tutto, con i miei tempi però perchè sennò mi fanno male gli occhi” c’è tutta la sperimentazione e l’esplorazione del proprio funzionamento individuale che questo Covid ha distrutto e, allo stesso tempo, maturato. Non sono bambini che hanno bisogno di mamma e papà , delle loro regole e delle loro ramanzine. Sono adolescenti che stanno cercando il loro posto e la loro identità. Perchè ricordiamo che dietro ogni schermo non c’è solo un alunno poco attento ma un ragazzo che si impegna (studiando ma anche non studiando) e intanto esplora e cresce

Proviamo quindi ad approfondire il motivo di quell’avatar tanto strano con i capelli blu perchè dentro quella pedina di gioco vive un vero e proprio alter-ego: la proiezione di loro stessi in un altro tipo di realtà, ma pur sempre loro stessi

Quindi, quando per l’ennesima volta non portano a termine qualche quotidiana faccenda domestica o quando sembra che non ci ascoltino, aspettiamo prima di rimproverarli e condannarli: perchè probabilmente proprio in quel non fare e in quell’ascolto semi-passivo, si manifesta la loro posizione, la loro libertà di scelta e di espressione che in questo difficile lockdown è stata zittita e messa a dura prova. Questo non significa permettere e giustificare la trasgressione di qualsiasi richiamo educativo, ma aiutarli a comprendere innanzitutto il motivo di tali comportamenti, ascoltandoli con rispetto e attenzione. In questo modo non offriamo loro solo ascolto e comprensione, ma li aiutiamo anche a mentalizzare le loro scelte, diventando maggiormente consapevoli di loro stessi.

Perchè le regole dell’ordine e della buona educazione loro le sanno benissimo, gliele abbiamo ripetute sicuramente un sacco di volte, fino forse, allo sfinimento. Il loro non seguirle molto spesso non è solo una semplice trasgressione normativa, ma una scelta, che, sebbene possa essere più o meno consapevole, è tuttavia necessaria e fondamentale, per dare sfogo a emozioni incomprese, dare un volto alla loro espressione e un senso a loro stessi.

Il ruolo di noi adulti è quindi quello di saperli accogliere, in tutte le loro forme, e aiutarli a gestire al meglio la loro emotività, accompagnandoli a raggiungere il meglio di loro stessi. 

Si fa presto a dire ansia…

di Francesca Del Rizzo

Molti ragazzi arrivano da me e sanno già dare un nome alla loro sofferenza: si chiama ansia e prende la forma di attacchi di panico, momenti di terrore, paura estrema di alcune situazioni, irrequietezza, incapacità di fermarsi o rallentare o al contrario, paralisi.

La sentono nel corpo, prima ancora che a livello emotivo: nel respiro che si fa affannoso e nel cuore che sembra scoppiare, o nella testa che fa male, tanto male, oppure nella tensione dei muscoli, nella pancia che duole e nello stomaco che si chiude. Per alcuni di loro la sofferenza fisica è così importante da arrivare a limitare di molto la loro quotidianità, da diventare una presenza quasi costante.

Prima andava tutto bene, poi, ad un certo punto della loro vita, è arrivata questa cosa. Inizialmente hanno cercato di farvi fronte con gli strumenti che avevano a disposizione e con l’aiuto dei familiari. Hanno provato a risolvere le loro difficoltà con strategie pratiche ed i familiari hanno spesso oscillato tra l’accudimento condiscendente e la sfida a farcela, “che tu sei più forte della tua paura”.

Quando un figlio o una figlia mostrano segni di così forte sofferenza non è facile per i genitori, ci si sente in colpa e responsabili, un po’ a prescindere. Certo, cerchiamo di capire, ma siamo così coinvolti che non possiamo essere molto lucidi nell’analisi e nella comprensione di ciò che sta accadendo.

E poi ci sentiamo impotenti.

Parlarne con un esperto ci può fare paura: da un lato significa accettare e dirci davvero che c’è qualcosa che non va, dall’altro temiamo che ci verranno dette parole che non vogliamo sentirci tanto dire, e cioè che c’è qualcosa, nel nostro stile educativo, che sbagliamo, che non facciamo bene.

E allora ci concentriamo sulla gestione dei sintomi. Essi diventano un po’ il focus dell’attenzione di tutti: della ragazza o del ragazzo, perché li fanno stare male, e della famiglia, perché a loro appaiono come il vero problema.

Ma non è così. Per illustrare il mio modo di concepire il ruolo dei sintomi d’ansia vorrei proporre una metafora che calza solo in parte, ma che trovo talvolta utile: immaginare il sintomo come una spia di allarme sul cruscotto dell’auto: quando la spia si accende il problema non è il malfunzionamento della lucina rossa né del cruscotto, il problema è da qualche parte nell’auto. Semmai, la spia è il primo tentativo, da parte del sistema auto, di trovare una soluzione al problema sottostante.

Ecco, spesso l’ansia è proprio questo: il primo maldestro tentativo, da parte della persona, di risolvere un problema, un tentativo che poi crea ulteriori problemi, ma su di un altro piano.

Pensiamo ad esempio a cosa può accadere quando un ragazzo ha un attacco di panico. Solitamente i genitori si allarmano: la prima impressione è che ci sia qualcosa che non va a livello fisico. Si parte quindi con una sequenza di accertamenti più o meno immediati che hanno l’effetto di concentrare sul ragazzo tutta una serie di azioni di cura e di accudimento piuttosto prevedibili. I genitori vengono così temporaneamente distolti dalle loro attività quotidiane, dalle usuali preoccupazioni, dal flusso della loro vita, e calamitati sul sintomo e sulle modalità per eliminarlo. Abbastanza velocemente scoprono che per fortuna non c’è nulla che non vada a livello cardiaco e, se da un lato ciò è indubbiamente tranquillizzante, è anche spiazzante: se c’è qualcosa di fisico se ne occupano i medici, che sanno cosa fare, ma così no, se ne devono occupare loro. E quindi, il più delle volte, cominciano a ristrutturare la loro vita in modo da rispondere ai nuovi bisogni (di sicurezza, vicinanza, presenza) che il figlio sembra reclamare. E la loro routine cambia: fra le loro occupazioni si colloca prepotentemente il prendersi cura in modo diverso di questo figlio grande che, per certi versi, si comporta però come se fosse piccolo e che in questo modo condiziona scelte, tempistiche e logistiche. Vorrebbe infatti smettere di fare le cose che fanno i ragazzi della sua età: prendere l’autobus, uscire con gli amici, andare in palestra o a scuola, giocare le partite di basket, perché lì si sente male, gli viene l’ansia, l’attacco di panico.

Risultato netto: grazie al sintomo il ragazzo ha riavvicinato a sé i suoi genitori, ha fatto in modo che si occupassero di lui, che si sostituissero a lui in alcune faccende, che smettessero, magari, di fare alcune delle loro cose e, contemporaneamente ha rivoluzionato la sua vita, interrompendo alcune attività consuete, o facendole solo talvolta e magari con accompagnamento. È stata una manovra consapevole? No, certo che no, ma è ciò che è accaduto, e se, per un attimo, concepiamo tutto questo come il tentativo di risolvere un problema, da parte del ragazzo, ci possiamo chiedere: ma quale era il suo problema?

Era forse spaventato da qualche compito evolutivo (qualche importante passaggio a livello scolastico, relazionale, sociale, sportivo) che sentiva di non essere in grado di affrontare? Era preoccupato perché vedeva i suoi genitori molto impegnati nelle attività axtrafamiliari e si sentiva abbandonato?

Non si può certo rispondere a queste domande in astratto, per quanto il caso che vi ho raccontato sia un caso in astratto. Per rispondere a queste domande è necessario comprendere quale sia la percezione che la singola persona ha della situazione, di se stessa e delle sue figure di riferimento.

E questo è principalmente compito della psicoterapia.

Ciò che voglio però sottolineare è, appunto, che “si fa presto a dire ansia”, come se con un singolo sostantivo, con l’atto di dare un nome, di porre un’etichetta verbale, si concludesse il processo di comprensione di una sofferenza. In realtà, la comprensione vera è un processo che a quel punto, il punto dell’etichettamento, deve ancora cominciare, e sarà solo grazie a quel processo che sarà possibile individuare il cuore della sofferenza. A quel punto, poi, paziente e terapeuta potranno assieme aprire a nuove possibilità.