Annoiati davanti al nulla, impotenti davanti a tutto

di Sara Feltrin

Poche settimane fa su Teen&20 scrivevo un articolo, La guerra dentro, nel quale descrivevo il forte malessere e la profonda sofferenza che caratterizza la gran parte degli adolescenti di oggi, chiusi e bloccati dentro le mura domestiche, come pettirossi in gabba, rossi dalla rabbia.

La guerra, ora, è scoppiata davvero. 

Le manifestazioni con cui i giovani hanno provato a farsi sentire e urlare a gran voce nelle piazze o fuori della scuola, vestiti a strati con berretto, guanti e una coperta stesa a terra come clochard lungo la strada, sono state parecchie. Telegiornali e notiziari ne hanno parlato molto, li hanno intervistati, ma nulla è cambiato. I continui DPCM tentennano tra salvare il mondo da una pandemia mondiale e l’Italia da un collasso economico, lasciando aperti fino a sera i centri commerciali per i regali di Natale, ma le scuole perennemente chiuse. 

Risale a pochi giorni fa (5 dicembre 2020) la vicenda presso il Pincio di Roma in cui centinaia di giovani, gran parte minorenni, si sono raccolti, un sabato pomeriggio, per assistere ad una rissa tra due ragazze. Una di loro, però, non si è presentata ma ciò nonostante la rissa è esplosa lo stesso, tra gruppi di ragazzini guidati da rabbia e sete di vendetta. La diretta e inevitabile conseguenza è stato quindi un grande affollamento di centinaia di giovani arrabbiati che, senza l’utilizzo di mascherine, si è ribellato nel centro di Roma. Ma i pugni, incitamenti, aggressioni, e violenze scagliate uno contro l’altro, nonostante l’intervento delle Forze dell’Ordine in tenuta anti sommossa, non sono bastati a frenare la rivolta. 

E su Tik Tok, Telegram e WhatsApp, circola già il messaggio “Confermata al 100% la rissa il prossimo sabato” ma sta volta i pugni e calci non basteranno e le armi della “rivincita” saranno lame e coltelli. 

Ci impressioniamo di tanta violenza, maleducazione, vandalismo e intemperanza. Questo, alla fine, colpisce. L’attenzione è diretta alle conseguenze più che alle cause e si cerca un modo per frenarli e disarmarli con tute antisommossa quando invece dovremmo fermarci ad ascoltarli, con le parole. Perchè mettersi ancora contro di loro non fa altro che aumentare la distanza, e più saranno lontani e più loro urleranno.

I numeri parlano chiaro: dallo scorso anno il numero degli atti vandalici provocato da ragazzi nella fascia adolescenziale è aumentato dal 16% al 22%; le risse ora sono al 24%, l’utilizzo di armi o oggetti pericolosi all’8% e l’aggressività su persone al 35% (Osservatorio Nazionale Adolescenza).

I nostri non sono più ragazzi e adolescenti che si ribellano per trovare dei limiti o dei confini per la definizione di sè; sono ragazzi demotivati, arrabbiati; sono adolescenti stufi di ribellarsi e che quindi, lottano. Lottano (o meglio, lottavano) a scuola dove attenzione e concentrazione sembrano capacità irraggiungibili e una buona comunicazione con insegnanti e compagni una grande utopia. Lottano nelle strade contro una società che li giudica e li considera un peso anziché una ricchezza. Lottano infine nelle piazze, unico luogo in cui ritrovare la voce e le urla dei coetanei arrabbiati e sconfortati come loro per scagliarsi insieme contro un mondo che non dà opportunità e sa di amaro. Ma lottano soprattutto in casa e in camera in particolare, contro se stessi. Mancano obiettivi, tante volte mancano perfino i sogni, mancano figure solide, mancano punti di riferimento verso le quali dirigere la rotta, manca la rotta e manca la motivazione che lascia spazio alla noia. E la noia di un vuoto, soprattutto in un’età in cui istinti e ormoni prendono il sopravvento, porta a frustrazione e percezione di scarsa autoefficacia (non faccio quindi non imparo quindi evito di fare per non fallire). Mettiamoci un futuro senza certezze del domani, una pandemia in corso che limita gli spostamenti bloccando i contatti fondamentali e la ricetta è pronta. 

Così, abbandonati alla noia e all’angoscia, l’unica strada rimane quella dell’esplorare l’oltre, una pseudo realtà fatta di adrenalina e autoefficacia che restituisce sensazioni di libertà, coraggio, competenza e vita. Ed ecco che spesso si ricorre all’alcol, alla droga, alla violenza, ai killer selfie, ai knockout, alle challenges virali spesso mortali, sfide ricche di sensazioni fortissime, devianze nate non più per raggiungere dei limiti ma per scavalcarli.

E’ una guerra spietata quella che sentono dentro e ce lo stanno dimostrando in tutti i modi, arrivando a volte persino al suicidio.

Ora tocca a noi ascoltarli, senza giudicarli e senza pretendere da loro chi vorremmo che fossero, ma accettiamoli, comprendiamoli e aiutiamoli con tutti gli sforzi che stanno facendo per crescere in un mondo così astioso come l’attuale. Hanno bisogno di noi, figure di riferimento, autorità competenti e persone da stimare che possono insegnare loro come sconfiggere lo sconforto e la frustrazione, per recuperare i sogni perduti e per poter credere che dopo ci sarà qualcosa di buono per cui valga la pena lottare ma soprattutto, per cui valga la pena vivere

Ora tocca a noi.

Vento dell’est, 

la nebbia è là, 

qualcosa di strano tra poco accadrà. 

Troppo difficile capire cos’è, 

ma penso che un ospite arrivi per me. 

                                                                  Walt Disney,  Saving Mr Banks

La guerra dentro

di Sara Feltrin

Zona rossa, zona gialla o zona arancione. Bar e ristoranti tornano a chiudere le serrande, i negozi hanno le ore contate e le scuole perennemente in ballo tra lezioni in presenza e lezioni online. Non si parla d’altro ormai, il Covid-19 è tornato al centro di ogni comunicazione, protagonista indiscusso delle nostre giornate. Ci troviamo di nuovo costretti a seguire delle direttive che limitano inevitabilmente il ciclo delle nostre giornate, cambiano le abitudini e non siamo più liberi. Oltre agli effetti più strettamente pratici e concreti, la pandemia sta portando ad una serie di conseguenze psichiche importanti e i più recenti studi lo dimostrano: ansia, panico, fobie, depressione e angoscia risalgono come un deja-vu, ma non è un deja-vu. E’ la seconda ondata della pandemia e coinvolge tutto il mondo, grandi e piccini. Ma gli adolescenti? Quella miriade di ragazzi e ragazze che in questo delicatissimo momento storico, stanno costruendo le fondamenta per il loro futuro e le basi della loro personalità. Quella fetta di popolazione che vive nel limbo tra la fanciullezza e l’età adulta, tra l’abbandono di un mondo, quello infantile, non più adatto alle loro esigenze e il lancio verso un mondo ignoto, quello dell’età adulta, in cui vengono proiettati bisogni, aspettative, sogni e desideri. Loro dunque, dove li abbiamo lasciati? Un pò come con i banchi con le rotelle, ci si è concentrati così tanto sulla didattica scolastica, sulle lezioni in presenza oppure online, su una parte del tutto, che si è perso il focus della una visione più generale e delle vere priorità che caratterizzano il mondo adolescenziale, che non è solo la scuola. DAD (Didattica A Distanza) o DDI (Didattica Digitale Integrata), qualsiasi acronimo il Ministero voglia utilizzare, il principio però, non è la didattica fine a se stessa, perchè la scuola non è solo didattica, ma anche rapporti sociali, relazioni, confronti, fuori e dentro la scuola, l’esporsi al mondo con tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti, stili personali, modi di vestire, truccarsi e comunicare, che solo l’esperienza sul campo può offrire. Uscire di casa, andare a scuola, andare a basket o a musica, significa proprio questo: vivere quella linfa vitale e quegli istinti che devono essere vissuti, toccati, conosciuti, per poter costruire la propria identità, creare la propria strada, con la tenacia e l’autoefficacia formatesi durante queste fondamentali esperienze di vita che danno forma e senso alla loro esistenza. 

Tutto questo è stato spostato sulla rete ormai da un pò, soprattutto con l’incremento dei social network e di tutte quelle piattaforme che portano alla creazione di un’identità digitale e, con essa, una fitta rete di relazioni digitali che favoriscono costanti confronti e ricerca di conferme. Come si fa quindi, a fare esperienza online, dove ogni situazione e ogni relazione viene creata e gestita ad hoc, su misura di un proprio avatar che difficilmente rispecchia l’identità della vita reale, ma un’identità ideale e immaginaria spesso irrealizzabile nella realtà. Come si fa a fare esperienza dietro uno schermo, dove emozioni e sentimenti vengono digitalizzati o scansionati in jpg o, meglio ancora, in pdf così tutti possono leggerli e nessuno può modificarli. Tanti sono i sentimenti che non riescono ad esprimersi, perchè per poterlo fare hanno bisogno di essere compresi e contenuti con empatia, condivisione, contatto e presenza

E ora, con la pandemia, dove qualsiasi forma di contatto o presenza è vietata, tutto questo si è amplificato a dismisura, ingigantendo il bisogno di uscire, di vedere gli amici, di mostrarsi al mondo e di essere liberi. Più di tutti quindi, in questa pandemia, ci stanno rimettendo loro, i bambini di ieri e gli adulti di domani, che si trovano bloccati e rassegnati a schiacciare impulsi e desideri sotto un cuscino.  

Rassegnazione, frustrazione, delusione e tristezza: queste sono le emozioni che prevalgono; di rabbia ce n’è poca, perchè la rabbia nasce quando c’è un fuoco dentro che brucia, un’energia vitale che arde per un desiderio o un obiettivo che in qualche modo ci viene ostacolato, e ci si arrabbia, sii reagisce, si lotta. Ma oggi, per la gran parte dei nostri adolescenti quel fuoco dentro si è trasformato in una piccola fiaccola alimentata da una lieve speranza che “le cose passino in fretta e che si sistemi tutto al meglio”. E più le delusioni procedono, più quel fuoco rischia di spegnersi, come si spengono impulsi e istinti, essenza vitale del corpo umano (e non solo adolescenziale). E’ facile capire, quindi, come la curiosità, l’intraprendenza e la motivazione inizino a mancare e come dall’essere attivi si passi all’essere passivi verso il mondo, il mondo esterno, ma soprattutto il mondo interno.  

D’altronde come fa un ragazzo, oggi come oggi, ad immaginarsi un futuro? o semplicemente a proiettarsi, tra qualche anno, in vesti di chi vorrebbe essere? Il futuro, lo indica il nome stesso, non è mai stato certo per nessuno, però, costruirlo in un presente più o meno chiaro e ricco di opportunità di crescita è ben diverso dal costruirlo in un presente di totale confusione e incertezza: in questo momento è difficilissimo per i nostri giovani definirsi, percepire i loro bisogni e desideri. Se somministrassimo loro un tema di italiano con la classica consegna “descriviti e racconta di te” penso che non potremo proporgli un lavoro più arduo e angosciante. 

Occorre quindi aiutarli a trovare la motivazione e la voglia di investire su se stessi, oggi più che mai; aiutarli ad avere massimo contatto con la loro sofferenza, la loro delusione e la rabbia nascosta dietro un profondo senso di frustrazione e rassegnazione. Dobbiamo aiutarli ad esprimersi, ad urlare, a pretendere e lottare per il loro futuro, per un ritorno alla vita reale molto diversa e, per certi aspetti anche spaventosa, della realtà digitale. Compiere questo passaggio, abbandonare il Sè virtuale/ideale e rientrare nelle vesti del complesso Sè reale, non sarà affatto semplice. Come non sarà semplice riprendere contatto con quelle relazioni difficili che il digitale ci consentiva di dimenticare. 

Cari adulti, cari mamma e papà: il Covid e le restrizioni che esso porta con sé  non devono diventare dei muri insormontabili, ma opportunità di relazione, di stare assieme, con noi stessi e in famiglia. Coltivare tempo e spazio di vita reale anziché connessi ai social o alla rete. Il mondo dei vostri figli è prevalentemente tecnologico oramai e non possiamo eliminare questa componente importante dalla loro vita, essendo quello l’unico contatto col mondo esterno, potete però insegnargli e guidarli ad un utilizzo consapevole e limitato di dispositivi elettronici, smartphone e tablet. Comunicate con la loro lingua tecnologica, partecipate alla loro vita digitale ma insegnategli a utilizzare lo smartphone per chiamare o scrivere agli amici, usare il pc per le videolezioni e lo studio; aiutateli ad allontanarsi dalla costante ossessione dei social network, dalle lunghe attese dei like, dei feedback rinforzanti che non fanno altro che alimentare il loro precario fatto spesso di incertezze e timori. Ascoltate i loro bisogni, le loro necessità, aiutateli a riprendere in mano le loro passioni e i loro interessi perchè le risposte non si trovano dietro uno schermo ma dentro di loro, dentro di voi insieme a loro, nelle scelte che fanno, nella vita che conducono e negli spazi che vivono. 

Infine, cari ragazzi, care ragazze: avete tutta la ragione per essere delusi e frustrati dalla realtà che vi si pone davanti, però il futuro siete voi e il futuro, per cambiare, ha bisogno di un fuoco che arde e che lotta per perseguire obiettivi e desideri. E noi, come adulti, vi aiuteremo ad accendere quel fuoco e quell’energia vitale per pianificare gli anni che verranno, senza gli sbagli delle generazioni passate e con la resilienza di chi ha saputo reggere una guerra dentro e la tenacia di chi ha saputo pazientare e vincere. 

Covid-19 parte 2

di Sara Feltrin

Ripartiamo da ciò che abbiamo imparato, dalla nostra vulnerabilità.

Parla chiaro il nuovo DPCM del 24 ottobre 2020 e parla di un pericoloso picco di contagi che potrebbe compromettere ancor di più la salute degli italiani e del popolo mondiale. Così, via libera a restrizioni, coprifuoco e indicazioni strettamente consigliate. Così, il nuovo decreto ci pone davanti a quell’immaginario tanto temuto quanto forse non preso troppo sul serio, che il Virus sarebbe tornato a seminare panico, terrore, paura, sconforto, senso di fallimento collettivo ma soprattutto, quel senso di vulnerabilità a cui a fatica ci eravamo abituati e che presto abbiamo abbandonato. 

D’altronde, era inevitabile.

Il Virus che a marzo ci aveva messo alle strette, portando ognuno di noi ad interrogarci sui nostri bisogni e stili di vita per riordinare priorità e trovare un compromesso tra noi e gli altri, è tornato a porci davanti a quello stesso specchio che ora riconosciamo bene ma, come qualche mese fa, facciamo fatica a guardarlo e guardarci dentro.

Così, ricominciamo.

Ricominciamo a fare spazio in casa, ordine nella mente e ridimensionare le nostre abitudini. Ricominciamo a fare i conti con la nostra fragilità e la nostra vulnerabilità di esseri umani, non onnipotenti, che inevitabilmente trascinano con sé l’ansia di un futuro incerto e l’angoscia di un senso di sé costretto e bloccato nella propria autonomia, libertà e indipendenza, tasselli fondamentali per la realizzazione personale. 

L’epidemia ci ha bloccati di nuovo, ma questa volta noi abbiamo qualche carta in più: è un panorama che abbiamo già vissuto, dal quale qualcosa abbiamo imparato e dal quale possiamo ripartire. Non affrettandoci a supermercati e farmacie ma prendendo contatto con noi stessi prima di tutto, e con chi ci sta vicino. 

La pandemia da Covid-19 ci ha insegnato tante cose: 

  • Ci ha insegnato che la collettività, la collaborazione e il senso di comunità sono fondamentali e che i piccoli gesti possono diventare i grandi cambiamenti.
  • Ci ha insegnato la possibilità di poter lavorare e studiare da casa, imparando a gestire orari e responsabilità in autonomia e (per chi più, per chi meno) indipendenza, migliorando la flessibilità al cambiamento.
  • Ci ha insegnato a fermarci: non più succubi delle incombenze a rincorrere affannosamente il tempo ma guidarlo e gestirlo in base ai nostri bisogni. 
  • Ci ha insegnato a stare in famiglia: che non è più una dimensione così scontata ma è parte di noi, del nostro passato, presente e futuro. Riscoprire noi stessi nel nucleo familiare e il rispetto per gli altri, la loro presenza, i compromessi, le attese, l’ascolto, il dialogo, i litigi, le discussioni e il fare la pace. 
  • Ci ha insegnato a fare amicizia con l’incertezza: accettare che non abbiamo sempre tutto sotto controllo e che l’incertezza del quotidiano fa parte della vita, dell’essere umano e come tale, possiamo imparare ad affrontarlo con serenità.
  • Ci ha insegnato, nonostante tutto, a coltivare le relazioni a distanza perchè gli amici, i colleghi e tutte quelle persone che quotidianamente diamo per scontate, possono mancare come l’acqua e, come l’acqua, ne abbiamo bisogno, perchè ci danno quel senso di appartenenza e comprensione che non sempre possiamo trovare a casa. 
  • Ci ha insegnato, soprattutto, a prenderci cura di noi stessi, a dare spazio a quelle passioni e a quegli interessi che forse avevamo messo da parte perchè già troppo saturi di impegni.   

Quindi, caro Virus, sarai anche potente e pericoloso, ma non ci spaventi, perchè possiamo ripartire da quello che ci hai tolto e da quello che ci hai dato, con la consapevolezza acquisita durante questi mesi e la speranza che il futuro che vogliamo ci sta attendendo immune e di certo non smetterà di lottare.

Rassicurante, deludente quotidianità

di Sara Feltrin

Quanta intrepida attesa per il rientro a questa “normalità”, a quella quotidianità che ha sempre saputo scandire, con ordinaria costanza, le nostre giornate, i nostri impegni, i nostri appuntamenti di vita. Per quanto l’abbiamo aspettata, questa rassicurante quotidianità, dopo mesi e mesi di un lockdown che ha messo un freno ai quotidiani programmi in agenda, ai progetti futuri e a quelle banali ma fondamentali abitudini che sanno di conforto e ci danno la sensazione di avere il controllo delle cose, avere in mano la nostra vita! 

Quella rassicurante quotidianità che per bambini e ragazzi significa alzarsi ogni mattina per andare a scuola, fare una colazione da campioni per tenere a bada stomaco ed energie fino all’ora della ricreazione, prendere il bus e tenere il posto all’amico o percorrere la strada in auto in compagnia delle solite raccomandazioni di mamma o papà; significa anche l’entusiasmo e la voglia di ritrovarsi fuori della scuola con amici e compagni e, perché no, anche meno amici e concorrenti, perché anche loro, in qualche modo, rientrano in quella significativa famiglia, la seconda famiglia, che dà senso di appartenenza ad un gruppo, comprensione e vicinanza; significa anche didattica: interrogazioni e verifiche che hanno sempre portato quel pizzico di sale e angoscia per delle prestazioni che poi finiscono sempre con un voto, un giudizio, un numero, capace di portare l’umore alle stelle o affondare nello sconforto. Rassicurante quotidianità per i nostri giovani significa anche responsabilità scandita a piccole dosi, e l’ottica di un futuro prossimo nel prepararsi vestiti e zaino per la curiosa aspettativa del giorno dopo. 

Per i più grandi invece, la rassicurante quotidianità può significare un rientro al lavoro più pacifico e distante dal pensiero dei figli bloccati a casa; può significare più tempo libero per sé: dallo sport allo svago dello shopping, le uscite in famiglia e gli appuntamenti con gli amici; rassicurante quotidianità vuol dire anche riprendere il proprio ruolo professionale, tornare alle proprie competenze lavorative, con stress più o meno annesso, e a quella sensazione di padronanza che fa sentire vivi, attivi e intraprendenti; significa anche stipendio, possibilità economica e progetti, magari lasciati in sospeso.

Dopo lunghi mesi vissuti in balìa di un Virus, direttive e regolamenti ministeriali, ognuno si riprende i propri desideri, obiettivi, oneri e doveri. Ognuno si riappropria, pian piano, della propria libertà e della propria autonomia tornando ad essere protagonista attivo e proattivo verso il futuro. Quel futuro che era stato lasciato momentaneamente da parte perchè “con sto Virus non si può sapere”; quel futuro che era stato frenato improvvisamente perchè l’incertezza era all’ordine del giorno. 

E’ da poco iniziata la scuola, siamo a due settimane dalla ripresa e ancora ci sono ragazzi che quest’anno la scuola non l’hanno ancora mai vista e che, dopo un lungo, lunghissimo periodo in cui anche le vacanze estive si sono mescolate alla penombra del lockdown, si sono trovati nuovamente di fronte allo schermo di un pc in attesa della videolezione o della chiamata del compagno di classe che riferisse i compiti assegnati. 

Un flashback.

Un déjà-vu.

Ecco che allora espressioni come “Sono stufo. Non ho voglia di alzarmi. Voglio tornare a scuola e basta. Svegliarmi, prendere il bus e rompermi le scatole perchè non ci sono posti” diventano lecite di fronte all’aspettativa dell’entusiasmante rientro a quella rassicurante quotidianità a cui tutti siamo ancorati. Perché sì, nel marasma dell’incertezza, anche quelle piccole, seppur scomode, incertezze diventano abitudini significative e pilastri resistenti a cui appendersi in caso di oblio. Parlo di oblio perché è difficile pensare ad un panorama fiorito, per loro, in questo momento. E’ difficile immaginarlo per noi adulti, figuriamoci per chi, come loro, non riesce nemmeno ad immaginarsi in che direzione sia il futuro, né, tanto meno, che strada intraprendere. Così sogni e desideri, già annebbiati e insicuri in partenza, faticano sempre più a trovare conferma e un collocamento stabile in quel futuro che, chissà. E’ vero che sogni e desideri sono sempre stati, per definizione, concetti astratti in cui credere e sperare. Questa volta però, in questi anni a venire, manca l’ingrediente fondamentale: la motivazione. Si è motivati nel momento in cui si crede profondamente che la scelta fatta sia valida e piacevole e che l’obiettivo porti serenità e soddisfazione, nonostante ostacoli e difficoltà. Si è motivati nel momento i cui si crede nei propri sogni. E quando si crede fermamente nei propri sogni, si possono superare tutte le difficoltà.

Banalmente, è un pò come alzarsi dal letto la mattina per andare a scuola: non importa quali siano le difficoltà, trovare posto o meno nel bus, la voglia di andare a scuola, intraprendere e seguire un obiettivo, rimane ferma.  

Non è facile crescere su queste basi poco sicure, crescere e maturare la propria individualità, soprattutto se il massimo dell’espressione, ora, è nascosto dietro mascherine, gel igienizzanti e distanziamento sociale. E’ una battaglia, non tanto contro la società o le Istituzioni, quanto piuttosto contro quel Sé ideale, quel vorrei essere che, già difficile da scovare e scoprire, non è facile inseguire poiché spesso si trova sconfinato in un profilo social, non riuscendo, nella vita reale, a trovare una sana e coesa manifestazione. 

Ecco che allora quella rassicurante quotidianità ha profondamente deluso ogni aspettativa: oltre a non aver portato alcuna rassicurazione, ha aggiunto sconforto e disillusione per quel futuro già precario di per sé. Forse, essere troppo ancorati alle abitudini del passato con una legittima, ma disfunzionale, pretesa che l’adesso sia come il prima, ha deviato troppo il panorama che ci avrebbe aspettato.

Forse quindi, non ci sarà una rassicurante ripresa, ma sicuramente ci aspetta una nuova partenza che molto probabilmente non ha nulla a che vedere con le riprese degli anni passati, ma avrà un altro sapore mai provato prima, altre opportunità e altre rassicurazioni su cui potremo ri-adattare i nostri progetti futuri. 

Quanto ai nostri ragazzi, in una società che ha perso molte certezze, hanno bisogno di un’àncora che li rassicuri e li aiuti ad intravedere la luce anche nel più tenebroso dei panorami; un’àncora che li protegga dai venti avversi per evitare che perdano di vista la strada, il loro obiettivo, le speranze dei loro sogni. Che ricordi loro chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Così, nel peggiore dei panorami, se anche molte cose intorno si sgretolano e crollano, loro, grazie a noi, figure di riferimento essenziali, sapranno imparare a stare a galla. 

Il futuro è settembre. Forse

di Sara Feltrin

Finalmente le tanto attese e meritate vacanze! La tipica esclamazione che caratterizza l’avvicinarsi del periodo estivo. Quest’anno però non è proprio così, almeno per una gran parte di noi. 

Vacanza vuol dire mollare tutto, abbandonare sedia e scrivania, accantonare carte e scartoffie e nascondere, più o meno forzatamente, l’agenda nel cassetto, per timore che la sua presenza in qualche modo rovini le ferie

Vacanza vuol dire raggiungere un posto meraviglioso dal mare cristallino e assaporare l’aria marittima, la sfida di una scalata in montagna, il campeggio con i bambini o qualche tour in città. Per altri invece, vacanza vuol dire puro relax e la casa, o la baita in montagna, sono sempre i migliori congedi in cui riposare.

Ma, al di là di queste faccende pratiche, che cosa significa davvero andare in vacanza? Significa libertà, togliersi di dosso i pesi e le responsabilità che appesantiscono tutto l’anno e ripristinare il contatto con il proprio , le proprie passioni, con ciò di cui abbiamo bisogno, unico indispensabile e fondamentale ingrediente per poter stare bene

Ma quest’anno, o meglio, questi mesi di un 2020 così tartassato e insicuro, le vacanze estive invece di risollevare gli animi rappresentano quasi una minaccia alla salute pubblica e un dilemma angosciante al dove vado che c’è il Covid dietro l’angolo?

Oggi, estate 2020, di cosa abbiamo veramente bisogno? E’ proprio quel mare cristallino o quella vetta di montagna che sopperirebbero al nostro bisogno di….. di?

Le vacanze quest’anno hanno un altro sapore, il sapore del timore di una pandemia mondiale, il sapore dell’insicurezza politica ed economica, dell’incertezza di poter tornare al proprio posto di lavoro e tra i cari vecchi banchi di scuola. 

Che vacanze sono queste, in cui tanti lavoratori vivono con il dubbio sul futuro della propria azienda, che “Non so se quando rientrerò il Covid farà chiudere l’intera azienda” e dove i contratti a tempo determinato sono destinati a non essere rinnovati?

Ma soprattutto, che vacanze possono essere quelle dei nostri ragazzi che, concluso un anno scolastico confuso e caotico, non sanno nemmeno se tra i banchi di scuola ci torneranno? E, se ci torneranno, la scuola di sicuro non sarà più la stessa, forse nemmeno i banchi di scuola che hanno accompagnato generazioni e generazioni di studenti, che verranno sostituiti da rigide sedie in plastica scura con tavolozza annessa che non ammette spazio a nient’altro che un libro.

Appare nostalgica, e ora utopica, la concezione di vacanza che fino allo corso anno caratterizzava tutte le estati di ogni studente quando la sveglia termina di esistere, i compiti e lo studio vengono rimandati ad agosto (e forse anche un pò più in là) ma la cosa più importante e fondamentale è quell’attesissima e beata spensieratezza  accompagnata dalle uscite e le scampagnate con gli amici. 

Mah, non hanno tanto senso queste vacanze perchè non mi è sembrato neanche di andare a scuola quest’anno”. Certo, perchè quest’anno la scuola è rimasta per troppo tempo in stand-by, c’era, ma non c’era. Le lezioni quest’anno non avevano sapore, come non hanno sapore queste vacanze in cui l’ingrediente fondamentale, le relazioni con amici e coetanei, vengono controllate e limitate a prova di mascherina. Vacanze scandite quotidianamente dagli interventi del TG o del ministro dell’istruzione che ogni mattina contribuiscono all’incertezza e alla confusione verso l’imminente futuro, il 14 settembre per l’appunto. Sentimenti di delusione e angoscia che minacciano di polverizzare i piccoli grandi progetti che ogni ragazzo persegue da tempo: iscriversi alla facoltà di Lettere o Medicina, studiare all’estero, il test d’ingresso, l’esame per la patente, l’acquisto dello scooter, la vacanza dai parenti lontani, ecc ecc. Progetti che, per quanto poco, danno senso e forma al futuro dei nostri piccoli grandi ragazzi che si stanno affacciando proprio ora alla vita del futuro e che ora rischiano di vedersi costretti a cambiare rotta e seguire la scia del vento. 

Quindi, i nostri  giovani come possono godersi queste vacanze quando anche un innocuo raffreddore si trasforma in una minaccia alla salute pubblica e un lieve mal di gola il preludio ad un’angosciante quarantena? 

E’ vietato ammalarsi anche perchè, se per sbaglio scappa uno starnuto al supermercato, scatta la gara a chi sta più lontano dal malato con sguardi infami e terrorizzati che chi se li toglie più, poi.

Sono vietati gli assembramenti. Ma cosa significa assembramento, nel mondo dei giovani e degli adolescenti? Quali sono i limiti di vicinanza fisica spiegata a quei quindicenni che costruiscono la loro quotidianità, il loro essere e la loro vita proprio grazie al contatto fisico (che per loro non è solo fisico ma anche mentale, affettivo ed emotivo)? Come si spiega ai nostri ragazzi che la mascherina è obbligatoria quando spesso noi adulti, sbadatamente o meno, siamo i primi ad entrare nei locali senza la mascherina?

Sarebbe una punizione troppo crudele quella del “non uscire alle feste con i tuoi amici perchè sennò si creano assembramenti” Che cos’è esattamente un assembramento? Un gruppo di 5 persone può definirsi tale? Si può uscire sì, ma non troppo vicini? Quali alternative ci sono che possono, realmente e concretamente, rispettare le indicazioni dell’OMS? E’ difficile capirlo per noi adulti (oppure forse non vogliamo capire?) figuriamoci insegnarlo a loro, in un mondo di confusione e incertezza fuori (il nostro), un mondo di caos e insicurezze dentro (il loro) e scariche di ormoni impazziti. 

Ma molto spesso ad attenersi diligentemente alle indicazioni sono proprio i nostri adolescenti, che sembrano schierati tra chi, la questione del Covid-19, la prende sul serio e chi invece ritiene il virus un’entità poco probabile e lontana dal rischio. Comportamenti leciti da un certo punto di vista, d’altronde non desideriamo altro che questa pandemia se ne vada al più presto, mascherine e igienizzanti compresi. Indossare la mascherina non è più la novità del momento, l’estrosità di casalinghe impegnate a cucire pezzi di stoffa unici e colorati; indossare la mascherina ora significa ricordare a noi stessi che il virus esiste ancora, che non possiamo e non dobbiamo abbassare la guardia e che il pericolo è sempre dietro l’angolo. Spesso forse, dimenticarla o non indossarla non è solo pura dimenticanza. 

Quello che si prospetta sarà per tutti l’inizio di un nuovo corso, scandito da numeri e regole, tra l’ansia di un nuovo lockdown e la speranza di una nuova ripresa. Saremo diversi, come saranno diverse le nostre, nuove, abitudini, diverse prospettive e le garanzie del futuro, la consapevolezza di noi stessi e di quel che abbiamo vissuto fin’ora, chi più e chi meno. 

Ma i veri protagonisti ora sono loro, quei giovani che fino a qualche mese fa sognavano di iscriversi a Lettere e diventare insegnanti e ora deviano i binari verso la facoltà di Medicina o Infermieristica oppure un corso OSS per aiutare la fascia più debole. Sono loro al primo posto dell’incertezza di settembre, a cavalcioni su un equilibrio precario tra il devo e il vorrei, che si trovano a fare i conti con un futuro incerto e poco promettente già in partenza. Penso che gran parte del supporto e del sostegno vada proprio a loro, alla loro speranza del costruirsi e del costruire un futuro che possano meritarsi. 

Estate

di Francesca Del Rizzo

Estate, per noi e per i nostri ragazzi, significa vacanze, svago, attività all’aperto. E’ un tempo in cui vorremmo riposare e recuperare energie. Quest’anno la compagnia della pandemia da Coronavirus rende il tutto speciale, diverso e talvolta irreale, ma forse ancor più significativo.

Illustrazione di Emiliano Ponzi, link Instagram: https://bit.ly/2KMoQyV

Non è forse ancora un ricordo il tempo del lockdown, in cui eravamo costretti in casa, le nostre attività ridotte, i nostri scambi di persona con gli amici azzerati. Dico che forse non è ancora un ricordo perché l’impressione è che ce ne vogliamo dimenticare, o meglio, vorremo cancellare quei giorni, fare come non ci fossero stati mai.

Molto si è detto e scritto sugli effetti psicologici delle misure di contenimento, ma la mia impressione è che davvero facciamo fatica a realizzare quanto la rottura delle nostre abitudini, la rinuncia alle nostre attività consuete, il ricorso a modalità comunicative mediate dal computer, ma, soprattutto, la scarsità di contatti con le altre persone ci abbiano turbato e scombussolato.

Vorremmo riprendere da dove abbiamo lasciato, ma il nostro umore è cambiato, il nostro assetto mentale mi sembra caratterizzato da maggior inquietudine, nervosismo, fastidio e rabbia.

Ed allora, che fare in questa estate speciale?

Credo potrebbe essere molto utile poterci dare la possibilità di fermarci ed ascoltarci, chiederci come stiamo e provare a dare davvero voce alle nostre sensazioni. Abbiamo molto bisogno di prenderci cura di noi, ma per riuscirci è necessario che facciamo il punto sul nostro stare, ne prendiamo atto e partiamo da lì. E proviamo a non avere fretta, ma a stare fermi, in ascolto, in osservazione per comprendere i nostri bisogni e cercare con pazienza il modo di negoziarne la soddisfazione anche con chi ci circonda. Affinché la cura di noi stessi non diventi un solitario, egoistico e narcisistico viaggio verso l’appagamento autistico.

mmagine di Agostino Iacurci, link Instagram: https://bit.ly/2P25NDT

Grazie al periodo passato chiusi in casa, abbiamo infatti realizzato, ripeto, forse non con la necessaria profondità, quanto abbiamo bisogno di relazioni, di relazioni di ogni tipo, varie e diversificate. Così come vario e diversificato deve essere il nutrimento che attraverso il cibo diamo al nostro organismo, altrettanto deve essere il “nutrimento” che concediamo al nostro essere persone attraverso lo stare in relazione. Abbiamo necessità di confronto con la ricchezza e la sorprendente eterogeneità delle altre menti per rinvigorire la nostra, abbiamo necessità di assumere temporaneamente i punti di vista degli altri per poter superare i limiti e le chiusure del nostro. Nel dialogo con l’altro troviamo lo spazio e la possibilità per definire chi siamo, e chi non siamo, e per ricevere riconoscimento, per avere la percezione del nostro esistere ed essere visti, considerati, amati.

Per queste ragioni credo che “estate”, quest’anno, debba significare soprattutto “relazione“. Vorrei che tutti ci dessimo la possibilità di farci ricaricare dalle nostre relazioni. Certo, sarà bello andare al mare, in montagna, visitare la nostra splendida Italia nei suoi borghi e nelle sue città, ma sarà terapeutico concederci di incontrare l’altro, sentirne la presenza, condividere il suo mondo. Lo sarà per adulti, bambini, ragazzi ed anziani, per tutti proprio.

Adolescenti post-Covid: cosa è cambiato?

di Sara Feltrin

Come è cambiata la vita dei nostri ragazzi e dei nostri adolescenti durante il Coronavirus? E soprattutto, cosa è cambiato da quando l’unico via libera, l’unico vis a vis extra-familiare veniva dalla nuova serie TV di Netflix, che, mai forse come in questo momento, ha dato sollievo ai pomeriggi di devastazione e solitudine dei nostri ragazzi?

Cosa è cambiato da parte nostra ma soprattutto da parte loro?

Venice Beach (Los Angeles), murales realizzato da Pony Wave

Dobbiamo innanzitutto partire dalla definizione, per quanto in continua evoluzione, di adolescenza. Con questo termine si indica la fascia d’età compresa tra i 12 e i 19 anni, caratterizzata da notevoli cambiamenti sia sul piano fisico che su quello psichico. In questa fase gli adolescenti si trovano a scegliere tra i modelli vecchi e quelli nuovi, tra imposizioni e ribellioni, tra essere come si vuole o come si è, oppure come si dovrebbe essere. Sono anni in cui la famiglia non è più il primo punto di riferimento: in particolare le relazioni con il gruppo dei pari diventano il laboratorio in cui i ragazzi costruiscono piano piano la loro identità. Possiamo quindi capire quanto siano di fondamentale importanza le relazioni affettive extra-familiari (compagni di scuola, amici, partner ma anche insegnanti ed educatori) per il mantenimento del proprio Sè. 

Abbiamo visto ragazzi che di fronte al lockdown hanno reagito con tristezza e rassegnazione, altri con rassicurazione e conforto perchè, finalmente, la loro scarsa vita sociale trovava un’ottima giustificazione nel non dover uscire. Abbiamo visto ragazzi sereni perchè “vabbè dai, per fortuna a casa sto bene e i miei amici li sento lo stesso con le videochat”. Abbiamo visto ragazzi demotivati e delusi da una società (e forse anche un mondo) improvvisamente bloccati e incerti, in cui loro stessi hanno da sempre proiettato un loro senso d’identità, il loro futuro, la loro storia. 

Abbiamo visto ragazzi che però, nonostante rassegnazione e delusione, nonostante disagi e difficoltà riscontrati in diversi fronti (isolamento, scuola, convivenza forzata, eccetera), nonostante tutto, hanno saputo adattarsi e trovare la loro soluzione personale per fare fronte. E in questi mesi in cui la vita era diventata una scommessa al continuo adattamento, loro, i nostri giovani, hanno vinto la scommessa.

Ebbene sì, forse questa volta dobbiamo imparare da loro, imparare dalla loro creatività e dalla loro adattabilità: i nostri ragazzi hanno saputo escogitare e trovare una libertà alternativa con una tenacia inaspettata. Come in un videogioco, questo è stato un salto evolutivo in cui non vince solo chi è più bravo a smanettare su social e videochat di gruppo, ma chi, nonostante tutto, ha mantenuto con sé speranza in un tempo che ha saputo dare voce all’esperienza e all’agilità tecnologica che solo loro hanno saputo mostrare e dimostrare.

Sì perchè, prima, eravamo noi adulti a dettare regole e limitazioni temporali per non stare troppo davanti a quello schermo. Ora, gli adulti sono loro. Sono loro, ragazzi cresciuti, che ora ci mostrano come entrare sulle piattaforme online, linkare un contenuto e sistemare audio e video senza sembrare totalmente imbranati di fronte a capi o colleghi. Sono loro, adolescenti senza posto, che ora insegnano a noi come creare relazioni online e come linkarci col mondo.

D’altronde, improvvisamente e tutto d’un tratto, si sono trovati senza un banco di scuola, un parco in cui trovarsi, una fermata del bus e per di più, senza amici. Sicuramente la tecnologia corre in soccorso, però che ne è delle relazioni vis a vis? Che ne è degli abbracci confortanti del “ti capisco, anche a casa mia è uguale”? Che ne è dei pianti e delle urla di sfogo che solo gli amici sanno placare? Che ne è degli sguardi e del contatto fisico, tasselli fondamentali di sviluppo e di pubertà?

Sono cresciuti, come quando succede che, improvvisamente, ci troviamo a metterci in discussione e ridare un senso a tutto. Così hanno fatto loro: faccia a faccia con le loro risorse e le loro fragilità ad affrontare un periodo storico che non è, forse, il più difficile a livello mondiale, ma il più difficile della loro vita. 

Hanno dimostrato forse molta più maturità e più responsabilità di quella che ci aspettavamo. E nell’affermazione di una ragazza “Sì ma io mi autoregolo, seguo le lezioni e faccio tutto, con i miei tempi però perchè sennò mi fanno male gli occhi” c’è tutta la sperimentazione e l’esplorazione del proprio funzionamento individuale che questo Covid ha distrutto e, allo stesso tempo, maturato. Non sono bambini che hanno bisogno di mamma e papà , delle loro regole e delle loro ramanzine. Sono adolescenti che stanno cercando il loro posto e la loro identità. Perchè ricordiamo che dietro ogni schermo non c’è solo un alunno poco attento ma un ragazzo che si impegna (studiando ma anche non studiando) e intanto esplora e cresce

Proviamo quindi ad approfondire il motivo di quell’avatar tanto strano con i capelli blu perchè dentro quella pedina di gioco vive un vero e proprio alter-ego: la proiezione di loro stessi in un altro tipo di realtà, ma pur sempre loro stessi

Quindi, quando per l’ennesima volta non portano a termine qualche quotidiana faccenda domestica o quando sembra che non ci ascoltino, aspettiamo prima di rimproverarli e condannarli: perchè probabilmente proprio in quel non fare e in quell’ascolto semi-passivo, si manifesta la loro posizione, la loro libertà di scelta e di espressione che in questo difficile lockdown è stata zittita e messa a dura prova. Questo non significa permettere e giustificare la trasgressione di qualsiasi richiamo educativo, ma aiutarli a comprendere innanzitutto il motivo di tali comportamenti, ascoltandoli con rispetto e attenzione. In questo modo non offriamo loro solo ascolto e comprensione, ma li aiutiamo anche a mentalizzare le loro scelte, diventando maggiormente consapevoli di loro stessi.

Perchè le regole dell’ordine e della buona educazione loro le sanno benissimo, gliele abbiamo ripetute sicuramente un sacco di volte, fino forse, allo sfinimento. Il loro non seguirle molto spesso non è solo una semplice trasgressione normativa, ma una scelta, che, sebbene possa essere più o meno consapevole, è tuttavia necessaria e fondamentale, per dare sfogo a emozioni incomprese, dare un volto alla loro espressione e un senso a loro stessi.

Il ruolo di noi adulti è quindi quello di saperli accogliere, in tutte le loro forme, e aiutarli a gestire al meglio la loro emotività, accompagnandoli a raggiungere il meglio di loro stessi. 

I valori professionali

di Alessandra Vignando

Perché sono importanti i valori professionali nelle scelte scolastiche e professionali?

Nell’ambito degli studi e delle pratiche di orientamento scolastico e lavorativo, un ruolo di sicuro interesse viene dato all’analisi dei valori personali e professionali. Ciò deriva dal ruolo che questi hanno nell’influire le azioni che le persone attuano o nel favorire determinati percorsi di scelta. I valori di una persona hanno importanti implicazioni nella vita sociale e nell’identità del singolo.

Questi principi danno un senso di scopo, sono dei fini da raggiungere, e per questo influenzano gli interessi e le preferenze delle persone. Comprendono sia elementi intrinseci che estrinseci all’individuo come ad esempio lo sviluppo personale, la creatività, l’altruismo, l’autonomia piuttosto che le relazioni sociali o lo stile di vita.

Questi atteggiamenti trascendono specifiche azioni o situazioni, sono obiettivi astratti che orientano la selezione o la valutazione di percorsi, persone o eventi. 

I valori personali possono essere considerati costrutti sovraordinati e nucleari, ovvero dimensioni di significato, che la persona struttura, con la propria esperienza, anche attraverso l’interazione sociale. 

I costrutti sovraordinati regolano le scelte, sia riferite alle attività personali che alle relazioni interpersonali. Sono principi e credenze, non solo di natura cognitiva ma risultano anche fortemente legati anche alle emozioni. 

Secondo Bellotto, uno degli studiosi maggiormente accreditati in tale ambito, “i valori professionali sono un’organizzazione durevole di credenze e di atteggiamenti su cosa sia preferibile, giusto, migliore, opportuno perseguire nella vita….. Il questo senso costituiscono un insieme di criteri che guida il comportamento delle persone, orientandole, supportandole, facilitando le prese di decisione e l’integrazione di differenti attività(Bellotto Trentini 1997).

Ma in che modo le persone attribuiscono valore al lavoro?

Primariamente il lavoro permette di assolvere ad una funzione economica utile a garantire il soddisfacimento dei bisogni di sussistenza e di sicurezza. Questa funzione viene spesso identificata, appunto, come la prima motivazione verso il lavoro, anche se definire a priori una classifica valida per tutte le persone appare una pretesa limitata e fuorviante. 

L’esperienza professionale concorre ad alimentare anche i bisogni di autostima e di autorealizzazione e consente ad ognuno di relazionarsi in sistemi sociali diversi che contribuiscono a definire ruoli ma anche status e prestigio.

Il significato personale attribuito a questi aspetti della vita lavorativa influenza il modo di sentire, di pensare e di comportarsi delle persone sia quando operano nel luogo lavorativo che al di fuori di esso.

Come possono cambiare i valori lavorativi a livello sociale?

E’ la stessa società che rimanda agli individui il valore del lavoro e questo processo riflette le caratteristiche dei diversi periodi storico-economici. Il riconoscimento sociale attribuito alle singole professioni muta anche drasticamente nel corso degli anni ed emerge negli atteggiamenti delle persone verso il lavoro.

L’impatto della pandemia da Coronavirus, ad esempio, ha fatto riscoprire a tutti i bisogni della salute, della cura, dell’alimentazione, della sicurezza e del poter essere connessi agli anche a distanza. 

Lo street artist olandese FAKE ha deciso di realizzare un ultimo lavoro, prima di chiudersi in quarantena. Un tributo al sistema sanitario mondiale e a tutti i medici che in questi giorni stanno lottando contro la pandemia.

Le professioni collegate al soddisfacimento di tali esigenze hanno così assunto una nuova dignità e un riconoscimento diverso.  

E’ cambiata la percezione rispetto al valore aggiunto che tali mestieri garantiscono. La loro utilità e la loro importanza non sono calcolabili solo in termini economici ma si basano appunto su dimensioni diverse. Il loro valore è direttamente proporzionale all’importanza del bisogno a cui risponde.

La crisi che stiamo attraversando ha sottolineato l’insostituibilità di alcuni beni e servizi e ha reso indispensabile il lavoro di chi opera per fornirli, come i medici, gli infermieri, ma anche i commessi, i trasportatori di merci e molti altri.

Le immagini di chi ha messo in gioco la propria vita per garantire la salute e la sicurezza della popolazione restano impresse nella memoria di tutti e contribuiscono ad elevare il valore delle professioni grazie alle quali si è potuto affrontare questo difficile periodo.

“Game Changer” è l’ultima opera di Banksy donata all’ospedale di Southampton in Inghilterra
ANDREW MATTHEWS – PA IMAGESGETTY IMAGES

I valori professionali sono contemporaneamente il prodotto delle interazioni con il proprio ambiente e a loro volta, la causa delle strade che si percorrono anche in termini di desiderio o di giudizio.

Conoscerli e riconoscerli permette di comprendere le scelte delle persone nei diversi momenti della vita personale e professionale.

La psicologia dei valori costituisce un argomento di riflessione e di studio tanto delicato quanto basilare, che si innesta nella vita del lavoratore e richiama l’attenzione a proposito di scelte professionali, di processi decisionali, in riferimento alle culture organizzative, e in generale rispetto ai comportamenti lavorativi.

L’omofobia non va in quarantena

di Rosa Olga Nardelli

Succede che arriva il Coronavirus e che siamo tutti in lockdown forzato per giorni.

Succede che i giorni di quarantena si trasformano in settimane, e poi in mesi. 

Succede che le scuole sono chiuse e si resta tutti in casa, adulti e ragazzi, non si può uscire.

Ma cosa succede se la casa, il luogo più sicuro del mondo per un adolescente, finisce per essere un luogo di angherie? Se la propria famiglia, le persone più care al mondo, finiscono per essere i propri aguzzini?

Questa riflessione parte da un dato: nelle ultime settimane c’è stato un boom di richieste di aiuto da parte di adolescenti LGBT alle chat amiche o agli sportelli di ascolto: sono centinaia i ragazzi e le ragazze che hanno denunciato anonimamente soprusi e violenze alle associazioni del territorio che si occupano di questi temi. L’orco è in casa, il suo alleato principale è il silenzio e sopravvivere negando la propria identità, col passare dei giorni, diventa sempre più difficile.

Il fenomeno delle violenze omofobiche all’interno del proprio nucleo familiare è precedente alla quarantena, anche perché il contesto familiare, assieme a quello scolastico, è sempre stato segnalato come uno dei contesti principali di violenza verso le persone LGBT. La convivenza forzata, però, ha visto un aggravarsi del problema e un esacerbarsi degli episodi di violenza.

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La prima forma di violenza riguarda proprio la negazione della propria identità.

Accade spesso che i ragazzi, dopo aver fatto coming out e aver ricevuto un sonoro ceffone (reale o verbale che sia), decidano di ritrattare le proprie affermazioni, o di dire di essersi sbagliati, di aver agito sull’onda delle emozioni ma “no, non è vero che sono lesbica, Vittoria è solo una mia amica”. Questo genere di violenza, subdola e pervasiva, ha un impatto grave sulla salute degli adolescenti LGBT, perché li priva di qualcosa di fondamentale: la fiducia. La fiducia nei confronti delle persone care, di coloro che li hanno cresciuti e ai quali si sono affidati per questioni piccole e grandi della vita. Una fiducia che successivamente è difficile da ripristinare, poiché resta la paura che quello sguardo ricevuto – d’odio, di delusione o di sofferenza che sia – possa ripresentarsi e trasformarsi in qualcosa di ancora più crudele, più spietato, sicuramente più intollerabile.

Un’altra forma di violenza sono le punizioni.

Nel momento in cui una persona LGBT inizia ad esprimere sé stessa, la propria sensibilità, le proprie preferenze sessuali, le punizioni più comuni riguardano restrizioni e le proibizioni: non chattare con alcuni amici, non guardare certe serie, non frequentare determinati siti. Naturalmente, spesso la minaccia di confisca di dispositivi, tablet e cellulari è accompagnata anche dai ricatti, che possono essere di natura economica (nella misura in cui la persona dipende economicamente dai genitori) e affettiva (“mi hai deluso”, “non parlo con te”, “non dirlo alla nonna sennò ne muore”).

Obiettivo da parte della famiglia è quello di controllare e di evitare che queste “distrazioni” possano incidere sulle condotte dei ragazzi e delle ragazze, invitandoli prepotentemente a non avere contatti con l’esterno. Anche in questo caso, l’impatto è deflagrante e porta direttamente verso l’isolamento e la solitudine. Tutti noi, di fronte all’obbligo di rispettare i decreti governativi e la quarantena, abbiamo avvertito la necessità di tenerci in contatto con le persone a noi care, amici e conoscenti, che ci alleviano lo stress di restare a casa e di veder ridurre le nostre attività lavorative e ricreative. E’ fondamentale per ognuno rimanere collegati e avere la certezza di trovare supporto nei momenti di sconforto, di non essere soli, di condividere i propri pensieri con gli altri. Ecco, tutto questo per un adolescente LGBT non è scontato, anzi diventa qualcosa a cui può solo anelare e, non riuscendo ad alleviare questa solitudine, diventa fonte di grande sofferenza.

Infine, la forma di violenza più tangibile ed identificabile, la violenza fisica, che può manifestarsi in svariate forme: dallo schiaffo al pestaggio vero e proprio, dalla violenza sessuale a scopo correttivo alle torture (una delle forme più diffuse, che si manifesta spesso con l’obbligo di terapie riparative o con l’esorcismo), dal tentativo di omicidio all’istigazione al suicidio. E tutto questo non è per nulla facile da denunciare, se si vive a stretto contatto con coloro che perpetrano tali forme di violenza.

Spesso gli adolescenti LGBT arrivano ad acconsentire e permettere che queste brutalità accadano, vuoi per una forma di omofobia interiorizzata che li porta a sentirsi in dovere di espiare delle colpe, vuoi per la paura che queste conseguenze siano peggiori della situazione di partenza. Ci sono vari fattori che portano un ragazzo o una ragazza a non denunciare, tutti governati proprio dalla paura: di mettere in pericolo sé stessi o altri membri della propria famiglia (magari un fratello che li sostiene) o altre persone (ad esempio un amico con cui si sono confidati); di mettere a repentaglio la stabilità e il clima familiare; di essere sbattuti fuori di casa; di essere rinnegati, derisi o non creduti dagli altri (familiari, funzionari di polizia, amici, etc.); di vedere la necessità di intraprendere vie legali economicamente impegnative. In sostanza, la paura di perdere tutto, o quantomeno una parte di sé e della propria identità.

Per far fronte a questi problemi, le associazioni di volontariato hanno fatto fronte comune e hanno rinforzato la rete delle chat amiche o degli sportelli di ascolto, allo scopo di aiutare quegli adolescenti che decidono di chiedere aiuto. Ci sono alcuni aspetti che è fondamentale sottolineare rispetto alle chat e agli sportelli:

  • garantiscono rigorosamente l’anonimato di coloro che li contattano;
  • sono sostenuti da personale qualificato – psicologi, educatori, avvocati, assistenti sociali – che, spesso in forma di volontariato, forniscono aiuto telefonico e pratico;
  • forniscono uno spazio neutrale di ascolto aperto e privo di giudizio;
  • prevedono la presenza di qualcuno che ci è già passato attraverso quell’inferno, adolescenti di un tempo e adulti di oggi che, più o meno a fatica, sono in grado di raccontare che da quelle situazioni si può uscire.

È fondamentale per tutti combattere il senso di spaesamento e di solitudine che questa pandemia mondiale ha portato con sé, coltivando i legami e le relazioni, appoggiandosi a chi ci è vicino, facendo riferimento ai nostri cari. E questo deve essere ancora più valido per coloro che sono considerate categorie fragili, delicate, come gli adolescenti in generale e, nello specifico, i giovani LGBT in difficoltà.

L’immaginazione mentale ovvero “E chi se l’aspettava?”

di Sara Feltrin

E’ ormai passato più di un mese da quando il Covid-19 ha deciso di metterci in ginocchio. Ultimamente mi capita spesso, durante l’attesa del mio turno fuori del panificio, di sentire signore e anziani del paese condividere pensieri e riflessioni sulla difficile situazione che stiamo tutti vivendo. E la domanda di maggior tendenza è: 

Chi se l’aspettava ‘na roba del genere?”

Nessuno”. 

Nessuno si poteva aspettare di vivere chiuso in casa da un momento all’altro, per giorni e settimane; nessuno se l’aspettava di dover uscire con un blocco di certificazioni per giustificare e legittimare ogni minimo spostamento; nessuno se l’aspettava di fare la fila al supermercato con mascherina, guanti e amuchina; nessuno se l’aspettava che un virus potesse toglierci tanta libertà; nessuno se l’aspettava un’apocalisse del genere.

Questi del Covid-19 sono giorni di sofferenza e attesa  e il ritiro coercitivo nelle proprie abitazioni non fa altro che alimentare solitudine e paura. L’incertezza è ormai diventata una compagna fedele all’ordine del giorno e quello che prima ci trasmetteva sicurezza ha improvvisamente lasciato il posto al dubbio e al vuoto. 

Così, ci troviamo a vivere una situazione completamente nuova, mai vissuta prima e soprattutto, nemmeno mai immaginata. Pongo l’attenzione all’immaginazione perché penso che in un momento come questo la nostra immaginazione sia una risorsa tanto fondamentale quanto vitale, più forte ancora dell’esperienza vissuta. 

Utilizziamo la nostra immaginazione per divertimento, per trovare soluzioni ai problemi e per la nostra stessa sopravvivenza. 

Dal punto di vista psicologico, immaginazione mentale è la capacità della mente di generare immagini mentali attraverso il canale della percezione. Le immagini mentali non sono il prodotto di fantasie senza scopo, ma prendono le basi dalla nostra percezione del reale (prendono informazioni dai canali sensoriali) per dare forma e significato all’esperienza, pianificando azioni e strategie da mettere in atto nel futuro. L’immaginazione quindi, ci consente non solo di poter comprendere una determinata circostanza, ma ci consente anche di poterla in qualche modo pensare o prevedere. Questa poi, complice la paura, ci aiuta a riconoscere un probabile pericolo prima ancora che si presenti; come quando guidiamo e ad un certo punto sentiamo il suono del clacson: potrebbe essere rivolto a noi per qualcosa che non funziona oppure non riguardarci affatto. In ogni caso, nel dubbio, restiamo in allerta. In allerta è una specifica condizione psichica (variabili livelli di attività cerebrale della corteccia, delle strutture sottocorticali e del sistema nervoso autonomo) che prepara il nostro corpo d utilizzare le armi migliori per gestire qualcosa, piacevole o spiacevole che sia, che ancora non sappiamo identificare e quindi, controllare. 

Capiamo ora quindi, quanto sia fondamentale il potere dell’immaginazione. Ecco che allora la domanda “Chi se l’aspettava ‘na roba del genere?” ha tutta la sua piena legittimità. 

Oltretutto, all’immaginazione è spesso associata un’emozione che origina dalla nostra memoria (i ricordi) oppure dalle aspettative verso il futuro e ci consente di trovare la soluzione adatta in ogni momento. 

Il rapporto tra immaginazione e emozione è bidirezionale: una influenza l’altra e viceversa. Questo significa che stimolando e suggestionando l’immaginazione è facile provare specifiche attivazioni fisiologiche e psicosomatiche, emozioni quindi. Viceversa stimolando intense emozioni. Questo naturale processo è alla base di ogni nostra azione e rappresenta una valida risorsa cognitivo-emotiva che ci consente di arricchire e potenziare ogni nostro comportamento.

Cosa accade quindi, quando si presenta una circostanza mai immaginata? Come quando SBAM! La nostra auto ha tamponato l’auto davanti a noi e, prima ancora che ce ne rendiamo conto, scoppiano gli airbag e facciamo fatica a respirare

Non ce l’aspettavamo, siamo stati colti impreparati e ci mettiamo un po’ a capire che cosa stia accadendo. Non abbiamo quindi potuto utilizzare, in tempo, le nostre risorse e i nostri strumenti per affrontare l’evento. 

Ci sentiamo impotenti e abbiamo la percezione che tutto ciò che stiamo vivendo non sia sotto il nostro controllo. E, come ogni qualvolta siamo protagonisti di una circostanza che non sappiamo in alcun modo controllare, entriamo nel circolo vizioso della paura, dell’ansia o, peggio ancora, dell’angoscia. L’angoscia è un’emozione fatta di paura più impotenza: paura verso qualcosa che potrebbe infliggerci dolore (fisico o psichico) e impotenza verso qualcosa su cui ci sentiamo inermi e non sappiamo come affrontare. Non è semplice ascoltare l’angoscia, tanto meno piacevole, ma, mai come in questo momento, è così importante ascoltarla e saperla gestire. La paura ci comunica cosa sia davvero importante per noi e cosa non vorremmo perdere, mentre l’impotenza ci mette di fronte ai fatti reali e ai nostri limiti ricordandoci anche, però, quali sono le nostre risorse e i nostri assi nella manica. 

L’immaginazione ci spinge fuori di noi, a visitare squarci di noi stessi che forse prima non avremo mai preso in considerazione; l’angoscia, al contrario, ci blocca all’interno delle nostre paure più profonde e ci attanaglia. 

L’immaginazione ci spinge oltre, mentre l’angoscia ci trattiene. 

La cosa più sorprendente, però, è che molto spesso esse si trovano una accanto all’altra come compagne di viaggio fedeli e sincere e, se impariamo ad accoglierle nel modo giusto e ascoltate con fiducia e consapevolezza, possono aiutarci a vivere con serenità e scoprire nuove parti di noi. 

Quindi ascoltiamoci e immaginiamoci oltre.

La sospensione del lavoro ai tempi del Coronavirus

di Alessandra Vignando

In questi giorni siamo costretti a casa e quelle che erano le nostre quotidiane attività sono sospese nell’attesa che l’emergenza si risolva. Probabilmente questa situazione genera in molti di noi sentimenti di paura e di ansia rispetto a quanto accade e a cosa accadrà. L’evento Coronavirus comporta e comporterà significativi turbamenti, anche professionali, che vanno ad aggiungersi a quelli che, da diversi anni ormai, ci richiedono mutamenti nei percorsi di carriera e nei ruoli lavorativi. 

Questa situazione, che di certo ci spaventa, può rappresentare però anche l’occasione per riflettere su chi siamo noi professionalmente, su quale parte di noi stessi operiamo e sviluppiamo nel nostro agire quotidiano. 

Il doverci fermare oggi è diverso dal tempo delle ferie o delle vacanze. Stare con noi stessi ci dà l’opportunità di farci delle domande su come siamo quando lavoriamo e su come questo nostro essere influenzi il resto della nostra vita. 

Nella normalità, le nostre giornate sono ritmate e condizionale dalla nostra vita lavorativa. Le nostre relazioni sono anche il riflesso di ciò che ci accade durante le ore passate al lavoro. 

Oggi accade qualcosa di diverso: il lavoro si sospende, assume nuove forme e le nostre giornate si svolgono diversamente. Cambia anche il nostro modo di osservare la quotidianità, magari il tempo a disposizione ci permette di imparare cose nuove, di vivere sensazioni o sentimenti diversi, facciamo nuove esperienze pur restando a casa. 

La nostra vita psicologica può essere vista come un processo continuo di apprendimento, di costruzione e di ricostruzione. E’ attraverso l’incontro con gli eventi della vita che modifichiamo o confermiamo il modo di vedere e dare significato alle cose. 

Quanto sta accadendo oggi richiede a tutti noi di rapportarci con le restrizioni al nostro movimento e alla nostra operatività, ma ci può offrire l’occasione per scoprire risorse personali a cui non davamo importanza, per improvvisarci nel risolvere criticità o riaprire cassetti che tenevamo chiusi. 

Non sappiamo quanto durerà questo periodo e come riprenderà il nostro lavoro. Questi giorni però, possono aiutarci a riflettere su come vorremmo operare domani, su quali saperi e abilità vogliamo continuare ad investire o quali talenti rispolverare

Usiamo questo tempo come occasione che mai avremmo potuto concederci per pensare un po’ a noi e a come possiamo esprimere le nostre qualità. Quando questo tempo sarà passato, dovremmo ripartire e avere maggior consapevolezza di noi ci aiuterà a tenere a fuoco i nostri obiettivi e a valorizzare le nostre risorse

La scuola ai tempi del CoronaVirus

di Sara Feltrin

Alzati, sono le 9!

Non è la solita sveglia delle 7 del mattino che preannunciava l’ennesimo giorno di scuola. E’ una sveglia più soft, quasi come quella della domenica mattina. 

Ma non è domenica mattina.

Alzati che tra mezz’ora hai videolezione con la prof di inglese!” 

Una lunga colazione, l’abituale TG di sottofondo, e via, davanti allo schermo del computer, con la felpa di scuola indossata sbrigativamente per coprire il pigiama, tutti pronti a fare lezione così, a piedi scalzi e un biscotto mezzo masticato in bocca.

Doppio click sulla cartella 1B. Inglese. D’un tratto, dal nulla: “Ah, eccovi! Ecco ecco, vi vedo quasi tutti….mancano Stefano e Giulia…” è la voce dell’insegnante, leggermente imbarazzata ma, stranamente, calma. Sì perché in classe non esiste “la calma” e si urla sempre per farsi comprendere. Agli occhi dei ragazzi l’immagine dell’insegnante suscita un’inaspettata, rassicurante familiarità. Per un attimo, sembrava di essere in classe. 

Si è trasformata così la scuola ai tempi del Coronavirus, alunni e docenti separati da uno schermo e connessi attraverso il network dell’era digitale che asseconda operosità e produttività senza lasciare spazio a emozioni e sentimenti. Si perchè si può digitalizzare un documento, un’immagine, un suono, ma non si può digitalizzare uno stato d’animo. 

Vi lascio i pdf da completare e riconsegnare nella cartella “lezioni settimana 16-21 marzo”, mi raccomando, entro sabato! Ci vediamo la prossima settimana, a presto ragazzi!

Le lezioni “in classe” durano 20-30 minuti al massimo perchè “Oh raga, non ho più internet, ho finito i giga” , “Bro, non ho capito l’ultima parte perchè c’era poca connessione” oppure “Ciao raga vi mollo perchè mia sore rompe che le serve il pc”, senza contare chi manca come Stefano e Giulia della 1B che a casa il wi-fi non e ce l’hanno proprio. Esistenze affidate totalmente agli schermi, che poi va a finire che “Oh ma raga, voi avete capito dove la prof mette i compiti?” e ci si perde, ci si esclude, per mancanza di segnale.  

Mai come in questo momento, navigare in internet ha portato un mal di mare così angosciante: un totale disorientamento annessa ad una profonda estraneazione. 

Sì perchè, chi lo poteva immaginare che quel saluto così sbrigativo ai miei amici, tre settimane fa, poteva mancarmi così tanto, ora? Chi lo poteva sapere che mancasse così tanto non vedere i volti dei miei compagni di scuola, compagni di vita?

Eh ma li puoi vedere su skype o su Whatsapp, o su Messenger!” 

Sì, ma non è la stessa cosa. Possiamo guardarci, possiamo parlarci, ma non ci possiamo avvicinare, non possiamo stare vicini. No, non è la stessa cosa.

Ora, della scuola è rimasta solo la parte peggiore: quella dei compiti e delle verifiche (che poi, che verifiche sono se posso tenere il libro sotto il naso?). 

Per non parlare poi delle boccate d’aria pura: sport, condivisioni al parco, le passeggiate con gli amici del paese, eccetera. 

Ora ringraziamo il cielo per aver permesso l’esistenza della tecnologia che ci permette di amplificare la nostra esistenza in ogni dove, distraendoci dal qui ed ora, dalla realtà attuale. Perché è proprio questo che fanno i telefoni, i tablet e qualsiasi schermo sia connesso ad internet: portarci via dal qui ed ora. Proiettarci in un realtà virtuale pericolosissima: quella del nostro “cerco, voglio”, estranea e lontana a quella del nostro “evito, scappo”. Quella dei desideri lontano da quella delle paure. 

E oggi, questi mostruosi quanto indispensabili, schermi sono diventati l’equilibrio tra quell’inesauribile “voglio tutto” e il catastrofico “vietato uscire”. 

Sono diventati la libertà di chi a casa non sa stare. 

Come siamo arrivati a tutto questo?

Ci sorprendiamo di noi stessi quando facciamo fatica a gestire la nostra vita a casa, quando ci hanno insegnato che la casa è il luogo più sicuro e rassicurante di tutto il mondo. Com’è che ora, la nostra casa, fa così paura? Perchè la percepiamo così pericolosa? Perché sentiamo l’esigenza di uscire a tutti i costi?

Siamo diventati un popolo più adattato al lavoro che a casa, più “al sicuro” nel fare (lavoro) anziché nell’essere (casa). Beh, la risposta sembra ovvia: perchè a casa non siamo abituati a stare, come non siamo abituati a gestire non tanto la casa in sè, ma noi stessi, nell’essere e non nel fare.

Noi stessi, senza gli impegni quotidiani, i doveri delle cose da fare, lo stress per gli obblighi del lavoro, le mansioni da svolgere a casa e le rassicuranti, quanto angoscianti immagini del lavoro del giorno dopo. Noi stessi. 

Questo siamo diventati. Un popolo alla mercé dell’operosità. E ora, che ci è chiesto a tutti di #stareacasa, facciamo fatica a farlo. 

Forse è il caso di abbandonare tutti quel caotico e continuo fare e ci lasciamo andare a quel difficile essere che sì, ci mette in discussione, ma mette alla prova emozioni e risorse che forse prima non sapevamo nemmeno di avere. 

Risorse che in questo momento ci possono salvare in una situazione di emergenza come questa, in cui sono necessari spirito di adattamento e gestione emotiva. 

Lontano dai telefoni, lontano dagli schermi. 

Guardate di fronte a voi, guardate in alto nel cielo. Per farlo, non serve raggiungere la cima più alta di una montagna e nemmeno il lungomare di una suggestiva spiaggia. 

Basta una sedia, fuori nel terrazzo accompagnati da un buon libro, un calice di vino, un giornale, un gatto sulle gambe o assolutamente nulla. 

Voi e nient’altro.

Aprite gli occhi. 

Avete il mondo, quello vero, davanti a voi.