E’ davvero questione di “carattere”?

di Francesca Del Rizzo

“Ogni bambino [e ogni bambina] modifica istintivamente le proprie necessità e le proprie risposte comportamentali in funzione delle richieste e delle preferenze dei genitori, imparando presto cosa ci si aspetta dalla relazione con lui [o con lei]” (Pat Ogden).

Partiamo oggi da questa citazione per riflettere su un tema che considero molto importante.

Sia nell’ambito della consulenza che in contesti più informali mi capita di sentire molti genitori iniziare o completare una frase che riguarda la loro relazione con i figli con l’espressione “eh, sì, perchè ha un carattere!!” naturalmente sottintendendo che il carattere è difficile, complicato, testardo… o qualche cosa di simile. Questa frase viene generalmente utilizzata come spiegazione: non riesco a fare con lei (o con lui) una certa cosa, ad ottenere un certo comportamento, perchè ha un carattere difficile. Scendendo nel concreto: “non riesco mica a convincere Luca a giocare con sua sorella, sai, ha un carattere!!…”

In questo ragionamento ci sono vari aspetti che potremmo sottolineare, ne sceglierò solo un paio. Innanzitutto vi è l’idea che la responsabilità del mancato risultato atteso – o della ennesima ripetizione di un risultato indesiderato – sia del figlio, e per la precisione del suo carattere. In questo modo il genitore nega che la responsabilità possa essere sua e sembra non prendere nemmeno in considerazione l’eventualità che essa possa essere condivisa. Inoltre egli appare non contemplare la possibilità che le ragioni di quel comportamento possano collocarsi in qualcosa di diverso dal “carattere”.

Per esempio, nel nostro caso, se chiedessimo a Luca perchè non vuole giocare con la sorellina, potrebbe risponderci che per lui, che ha 13 anni, ed è un maschio, giocare con la sorella di 8 non esiste proprio, che poi magari i suoi amici vengono a saperlo. Questa risposta ci potrebbe suggerire l’ipotesi che per Luca sia “degradante” e vergognoso giocare con la sorella. Non intendo dire che, ammesso che questa ipotesi corrisponda davvero al motivo del comportamento di Luca, il rifiuto al gioco e la ragione che lo sostiene debbano essere accettati e basta, ma che sia molto importante cercare di comprendere davvero le ragioni per cui egli fa quello che fa. In questo caso, alla base della scelta di non giocare con la sorella ci sarebbe una convinzione basata su un paio di stereotipi molto diffusi (non solo fra i ragazzini): che giocare con le femmine possa essere disonorevole per un maschio e che giocare con i più piccoli renda ridicoli. Nulla a che fare con il “carattere”.

Stiamo solo sostituendo una spiegazione con un’altra? Cosa c’è di fondamentalmente diverso fra le due? Molte cose, ma fra tutte evidenzierei il fatto che, per come inteso comunemente, il “carattere” è concepito vagamente come una dotazione individuale immodificabile, mentre si pensa che le convinzioni e gli stereotipi, invece, possano cambiare, seppur talvolta a fatica.

Infatti, se chiediamo a bruciapelo alle persone cosa sia il carattere otteniamo risposte come “il carattere è come uno è, ad esempio se uno è scontroso, quello è il suo carattere”. La definizione è quindi vaga (il carattere è come uno è) ma al contempo monolitica, perché contiene implicitamente la convinzione che le persone siano fatte in un certo modo (quante volte abbiamo sentito dire che il carattere non si cambia?). Così come una persona può essere alta due metri, cosa che non si cambia, può essere solare, e nemmeno questo si cambia, perché uno è come è.

Torniamo ora alla citazione di Pat Ogden. Ripetiamola, per avercela qui, di fronte agli occhi:

“Ogni bambino [e ogni bambina] modifica istintivamente le proprie necessità e le proprie risposte comportamentali in funzione delle richieste e delle preferenze dei genitori, imparando presto cosa ci si aspetta dalla relazione con lui [o con lei].”

Cosa ha a che fare questa citazione con il ragionamento basato sul carattere? Ad occhio mi verrebbe da dire che si colloca un po’ all’opposto, anzi, no, “di lato”. Ogden sembra dirci che i bambini non hanno un certo carattere, non sono in un certo modo, ma fanno una serie di cose, cioè costruiscono abitudini ed atteggiamenti nell’ottica di confrontarsi con le richieste e con le preferenze dei genitori.

Perchè affermo che non sia l’opposto della teoria del carattere? Perchè Ogden non dice che ciò che i bambini fanno dipende dai genitori (quindi non passa dall’attribuire la responsabilità al figlio all’attribuirla al genitore), ci dice piuttosto che il bambino attivamente cerca di agire in un certo modo – modo che gli viene suggerito dal suo pensiero, dalle sue esperienze, dalla sua immaginazione – sulla base della sua idea di quali sono le richieste e i desideri dei genitori.

Se tornassimo a Luca e al suo rifiuto di giocare con la sorella, potremmo chiederci se ad esempio lui condivida il suo maschilismo con il padre, o con un’altra importante figura di riferimento, oppure se, più ottimisticamente, stia “disobbedendo” alla madre perché ha capito che non è necessario obbedirle per avere il suo affetto…

Le parole di Ogden ci aprono ad una visione in cui ciò che accade nella relazione è frutto del contributo di ciascuno dei partecipanti alla relazione stessa: i genitori ci mettono le loro aspettative, le loro preferenze, le loro richieste, i figli ci mettono la loro comprensione di queste ultime e la scelta di alcune azioni piuttosto che di altre. Non sempre nell’ottica di soddisfare le richieste dei genitori, ma sempre nell’ottica di rispondervi, talvolta oppondendovisi.

Inoltre, quello che Ogden ci suggerisce sembra essere un’immagine della relazione come una danza di assestamenti reciproci continui, non come la recita di un copione basato sul carattere, su modi di essere immutabili nel tempo. Questa prospettiva ci permette di guardare alle relazioni, ed ai comportamenti delle persone in relazione, come a dei processi in continua evoluzione lungo linee che vengono tracciate in tempo reale nell’ambito delle reciproche interazioni. Essa ci invita inoltre ad essere sempre curiosi rispetto a ciò che accade, a ciò che apportiamo sia noi che l’altro, a non dare insomma per scontato di sapere sempre perché le cose vanno come vanno.