Diversi anni fa ricordo una famosissima pubblicità di una nota marca di dopobarba che citava: “per l’uomo che non deve chiedere…mai!”, pubblicità che, enfatizzando la prestanza fisica del protagonista, raccontava, senza neanche troppi mezzi termini, quanto fosse importante per un uomo “non chiedere” ed essere sempre pronto a conquistare una donna.
Ricordo anche che non fosse così strano o così inusuale pensarla allo stesso modo: un uomo è una persona che si occupa del lavoro, che preferisce film crudi e violenti, che non si fa spaventare da nulla; un uomo è quello che arriva a casa e si siede davanti ad una cena fumante, che raramente si occupa dei propri figli e, quando lo fa, deve ricevere dettagliate istruzioni o addirittura essere supervisionato; un uomo può riparare la lavatrice, ma non sa come stendere il bucato, può dare una mano in casa, ma poi il suo lavoro lo porta fuori.
Sono passati almeno vent’anni da questo spot, l’ultimo risale al 2005, mentre i primi sono degli anni ’80, e lo slogan nel corso del tempo non è mai cambiato: “per l’uomo che non deve chiedere mai!”.
In questi giorni, invece, in un pullulare di notizie serie di cronaca, politica, economia, arriva lui: un uomo sui 30 anni, tatuato dalla testa ai piedi, vestito con le sue ciabatte di una notissima marca di abbigliamento di lusso, seduto su una poltrona, che piange con in braccio la sua bimba nata da poche ore; lo stesso uomo che, tradito dall’emozione su un palco tanto emotivamente impegnativo come San Remo, ha la voce rotta e si commuove nel corso della sua prima esibizione. E si scatena una bagarre di commenti, di disappunto, di risate per l’uomo Fedez che piange pubblicamente, come se piangere fosse proibito per un maschio, o quantomeno ridicolo.
Ecco: Fedez è un personaggio che può piacere o non piacere, lo si può criticare per la sua vita, per l’ostentazione, per i tatuaggi, per la musica, per le sue scelte. Però un aspetto di lui va indiscutibilmente riconosciuto: sta combattendo, più o meno consapevolmente, contro la cosiddetta “mascolinità tossica”, un concetto nato nelle aule universitarie ma che è entrato nel vocabolario comune per indicare “un insieme di comportamenti e credenze che comprendono il sopprimere le emozioni, mascherare il disagio o la tristezza, il mantenere un’apparenza di stoicismo, e la violenza come indicatore di potere” (basti pensare al “non deve chiedere mai”). Peccato che i primi a farne le spese sono proprio i maschi, dal momento che viene impedito loro di esternare le proprie emozioni e sentimenti, con il rischio di sentirsi continuamente in dovere di essere prestanti, perfetti, inflessibili, inscalfibili.
Rivendicare il diritto di essere deboli, emotivi, umanamente fragili può essere solo panacea per i giovani uomini del domani. E per tenere a mente questo concetto, vi propongo la visione di un video girato pochi anni fa da Gillette: because the boy is watching today will be the man of tomorrow – perché i ragazzi che oggi ci guardano saranno gli uomini di domani.
Ripartiamo da ciò che abbiamo imparato, dalla nostra vulnerabilità.
Parla chiaro il nuovo DPCM del 24 ottobre 2020 e parla di un pericoloso picco di contagi che potrebbe compromettere ancor di più la salute degli italiani e del popolo mondiale. Così, via libera a restrizioni, coprifuoco e indicazioni strettamente consigliate. Così, il nuovo decreto ci pone davanti a quell’immaginario tanto temuto quanto forse non preso troppo sul serio, che il Virus sarebbe tornato a seminare panico, terrore, paura, sconforto, senso di fallimento collettivo ma soprattutto, quel senso di vulnerabilità a cui a fatica ci eravamo abituati e che presto abbiamo abbandonato.
D’altronde, era inevitabile.
Il Virus che a marzo ci aveva messo alle strette, portando ognuno di noi ad interrogarci sui nostri bisogni e stili di vita per riordinare priorità e trovare un compromesso tra noi e gli altri, è tornato a porci davanti a quello stesso specchio che ora riconosciamo bene ma, come qualche mese fa, facciamo fatica a guardarlo e guardarci dentro.
Così, ricominciamo.
Ricominciamo a fare spazio in casa, ordine nella mente e ridimensionare le nostre abitudini. Ricominciamo a fare i conti con la nostra fragilità e la nostra vulnerabilità di esseri umani, non onnipotenti, che inevitabilmente trascinano con sé l’ansia di un futuro incerto e l’angoscia di un senso di sé costretto e bloccato nella propria autonomia, libertà e indipendenza, tasselli fondamentali per la realizzazione personale.
L’epidemia ci ha bloccati di nuovo, ma questa volta noi abbiamo qualche carta in più: è un panorama che abbiamo già vissuto, dal quale qualcosa abbiamo imparato e dal quale possiamo ripartire. Non affrettandoci a supermercati e farmacie ma prendendo contatto con noi stessi prima di tutto, e con chi ci sta vicino.
La pandemia da Covid-19 ci ha insegnato tante cose:
Ci ha insegnato che la collettività, la collaborazione e il senso di comunità sono fondamentali e che i piccoli gesti possono diventare i grandi cambiamenti.
Ci ha insegnato la possibilità di poter lavorare e studiare da casa, imparando a gestire orari e responsabilità in autonomia e (per chi più, per chi meno) indipendenza, migliorando la flessibilità al cambiamento.
Ci ha insegnato a fermarci: non più succubi delle incombenze a rincorrere affannosamente il tempo ma guidarlo e gestirlo in base ai nostri bisogni.
Ci ha insegnato a stare in famiglia: che non è più una dimensione così scontata ma è parte di noi, del nostro passato, presente e futuro. Riscoprire noi stessi nel nucleo familiare e il rispetto per gli altri, la loro presenza, i compromessi, le attese, l’ascolto, il dialogo, i litigi, le discussioni e il fare la pace.
Ci ha insegnato a fare amicizia con l’incertezza: accettare che non abbiamo sempre tutto sotto controllo e che l’incertezza del quotidiano fa parte della vita, dell’essere umano e come tale, possiamo imparare ad affrontarlo con serenità.
Ci ha insegnato, nonostante tutto, a coltivare le relazioni a distanza perchè gli amici, i colleghi e tutte quelle persone che quotidianamente diamo per scontate, possono mancare come l’acqua e, come l’acqua, ne abbiamo bisogno, perchè ci danno quel senso di appartenenza e comprensione che non sempre possiamo trovare a casa.
Ci ha insegnato, soprattutto, a prenderci cura di noi stessi, a dare spazio a quelle passioni e a quegli interessi che forse avevamo messo da parte perchè già troppo saturi di impegni.
Quindi, caro Virus, sarai anche potente e pericoloso, ma non ci spaventi, perchè possiamo ripartire da quello che ci hai tolto e da quello che ci hai dato, con la consapevolezza acquisita durante questi mesi e la speranza che il futuro che vogliamo ci sta attendendo immune e di certo non smetterà di lottare.
Questo articolo fa parte di un dittico che ho pensato di dedicare alla rabbia ed alla sua espressione: esso ne costituisce la prima parte, dedicata all’emozione in sé, ed è idealmente completato da “Sono arrabbiato!!” che invece si focalizza sull’espressione della rabbia. Non distinguerò in questa occasione fra la rabbia dell’adulto e quella dell’adolescente, a questa distinzione, infatti dedicherò un ulteriore dittico, che Teen&20 pubblicherà in futuro.
A volte, pensando all’emozione della rabbia, mi scopro ad immaginarla, esercizio che chiedo spesso di fare alle persone che vengono in studio da me. Non immagino però la mia, di rabbia, ma la rabbia in generale, la rabbia come emozione, appunto. E non la vedo accesa, energica, ribollente, non immagino qualcosa di rosso e potente e dinamico, ma mi scopro a vederla un po’ spenta, sconsolata, debole ed al contempo livida, incupita, che mi guarda di traverso. Insomma, non mi fa paura, ma un po’ tristezza e pena. Perché la considero una delle emozioni più incomprese e maltrattate.
Il vocabolario della Treccani così la definisce: “Irritazione violenta prodotta dal senso della propria impotenza o da un’improvvisa delusione o contrarietà, e che esplode in azioni e in parole incontrollate e scomposte. Quindi anche furia bestiale, violenza non controllata e moderata dalla ragione. In altri casi indica un’irritazione grave e profonda ma contenuta, interna. In senso attenuato può significare impazienza stizzosa e seccata, disappunto vivo e dispettoso per essere costretto a fare ciò che non si vuole o per non aver ottenuto ciò che si voleva.”
In questa definizione possiamo apprezzare come, nell’uso comune della lingua, nella parola rabbia confluiscano sia l’emozione, il sentire, che il comportamento rabbioso. Troviamo anche l’irragionevolezza, la mancanza di controllo e la violenza. Se questa è la costellazione di significati legata all’emozione della rabbia, è a mio avviso piuttosto comprensibile perché essa possa essere incompresa e maltrattata.
Se infatti la rabbia viene vista come sinonimo di comportamento aggressivo, incontrollato, scomposto, irrazionale è piuttosto prevedibile che le persone la temano, sia quando ne sono vittime che quando ne sono protagoniste, e cerchino di evitarla, controllarla, a volte negarla, anche a se stesse.
Ho conosciuto persone che affermavano di non arrabbiarsi mai… alcune di loro semplicemente si arrabbiavano raramente, altre si arrabbiavano, invece, e molto, ma non se ne rendevano conto, non se ne potevano rendere conto, perché, nel loro mondo di significati, essere arrabbiate equivaleva a sbagliare, mancare di rispetto all’altro, perdere le relazioni, soffrire e fare soffrire.
Ed allora la rabbia che, naturalmente, ogni tanto, avrebbe avuto occasione di accendersi, rimaneva silente, presente ma sottotraccia, come brace sotto la cenere. E semplicemente non arrivava a coscienza, ma agiva comunque, proprio come la brace che, coperta dalla cenere, non manifesta il suo colore, ma scalda con il suo calore.
Ma la rabbia non è l’espressione della rabbia. Vorrei distinguere questi due piani e riservare alla parola “rabbia” il riferimento allo stato emotivo, al vissuto, a quello che sentiamo dentro di noi quando siamo arrabbiati. Al contempo preferirei chiamare “espressione della rabbia” tutto ciò che facciamo per dire al mondo, ed a noi stessi, che siamo arrabbiati. Penso che questa distinzione sia utile perché ci permette di separare l’emozione, che quando sorge ha una sua profonda ed assoluta legittimità, dai modi in cui la esprimiamo, che invece non sono tutti legittimi, equivalenti, utili.
Quando sentiamo rabbia è perché il mondo (una persona, una situazione, un’istituzione, un evento, noi stessi) ha fatto qualcosa che ha negato una parte di noi. Un bimbo può arrabbiarsi tantissimo quando la mamma si rifiuta di permettergli di giocare con il martello del suo papà; uno studente perché un insegnante lo ha valutato in modo, secondo lui, ingiusto; un adolescente perché i genitori non lo lasciano stare fuori fino a mattina il sabato sera ed i genitori perché il figlio non rispetta il loro divieto di usare il cellulare a tavola. Il problema, per quel bambino, non è il martello ma lo stop al suo desiderio di esplorare. E per lo studente non è solo il voto a fare male, ma il naufragio, di fronte al roccioso “arbitrio” dell’insegnante, della possibilità di determinare, con il proprio impegno e la propria prestazione, il risultato di una verifica. All’adolescente che si sente grande, viene sbattuto in faccia che non lo è, ed ai genitori, che vivono come un riconoscimento del loro ruolo il rispetto delle regole che impongono, quel riconoscimento viene negato.
Dal loro punto di vista, tutti stanno soffrendo perché è stata loro negata la possibilità di fare qualcosa che è diretta conseguenza del modo in cui essi concepiscono la loro identità. Si arrabbiano, insomma, perché hanno sentito minacciato qualcosa di profondamente nucleare. E di fronte a questa minaccia gridano, attraverso l’emozione della rabbia, un sonoro no.
Potremmo quindi immaginare la rabbia come una spia di allarme che si accende sulla plancia di comando e segnala che qualcosa di grave ed importante sta succedendo, per cui è necessario mobilitare le nostre energie per risolvere il problema.
Essa è infatti una emozione potente, forte, che prepara all’azione, al fare. Quando siamo arrabbiati non sentiamo fatica né dolore, il nostro pensiero è completamente calamitato da quella spia accesa. Tutto il resto sparisce.
Ed allora talvolta accade che, appunto, facciamo cose in modo impulsivo, “incontrollato”, noncuranti delle reali conseguenze. Questa tuttavia non è più rabbia, ma espressione della rabbia, espressione che può essere meno legittima, corretta, utile. Perché ci sono molti modi di esprimere la rabbia e non sono equivalenti. E noi possiamo scegliere.
Purtroppo però una sorta di psicologia del senso comune, di cui è imbevuto anche il nostro linguaggio, tende a dipingere la rabbia come un demone che si impossessa di noi e rispetto al quale noi siamo passivi (ed allora è chiaro che il nostro sforzo deve concentrarsi sull’evitare di arrabbiarsi…). Consideriamo ad esempio le espressioni: accecato dalla rabbia, divorato dalla rabbia, dominato dalla rabbia. Come se con questa emozione (ma con le emozioni in generale) non fosse possibile un rapporto diverso da quello della dominazione: o la persona domina le emozioni o ne è dominata.
Sono profondamente convinta non solo che esistano altre strade, ma che nemmeno sia sensato puntare al “dominio” della rabbia per evitare di esserne dominati. Questa emozione è importante, quando arriva ci dice che ci sta accadendo qualcosa che merita la nostra completa attenzione, ci parla di noi, delle cose che per noi sono importanti e che, in qualche modo, avvertiamo in pericolo, è preziosa e possiamo ascoltarla, dialogare con lei per comprendere cosa ci sta accadendo. È preziosa Se non la giudichiamo sbagliata a prescindere, se non ci spaventiamo ma la frequentiamo, impariamo a conoscerla, ad abitarla, se mettiamo a servizio di questa potente molla per l’azione la nostra capacità di riflettere, comprendere ed anticipare scenari, se, insomma, ci concediamo di arrabbiarci e di scegliere come esprimere la nostra rabbia, nel rispetto di noi stessi e degli altri.
E’ ormai passato più di un mese da quando il Covid-19 ha deciso di metterci in ginocchio. Ultimamente mi capita spesso, durante l’attesa del mio turno fuori del panificio, di sentire signore e anziani del paese condividere pensieri e riflessioni sulla difficile situazione che stiamo tutti vivendo. E la domanda di maggior tendenza è:
”Chi se l’aspettava ‘na roba del genere?”
“Nessuno”.
Nessuno si poteva aspettare di vivere chiuso in casa da un momento all’altro, per giorni e settimane; nessuno se l’aspettava di dover uscire con un blocco di certificazioni per giustificare e legittimare ogni minimo spostamento; nessuno se l’aspettava di fare la fila al supermercato con mascherina, guanti e amuchina; nessuno se l’aspettava che un virus potesse toglierci tanta libertà; nessuno se l’aspettava un’apocalisse del genere.
Questi del Covid-19 sono giorni di sofferenza e attesa e il ritiro coercitivo nelle proprie abitazioni non fa altro che alimentare solitudine e paura. L’incertezza è ormai diventata una compagna fedele all’ordine del giorno e quello che prima ci trasmetteva sicurezza ha improvvisamente lasciato il posto al dubbio e al vuoto.
Così, ci troviamo a vivere una situazione completamente nuova, mai vissuta prima e soprattutto, nemmeno mai immaginata. Pongo l’attenzione all’immaginazione perché penso che in un momento come questo la nostra immaginazione sia una risorsa tanto fondamentale quanto vitale, più forte ancora dell’esperienza vissuta.
Utilizziamo la nostra immaginazione per divertimento, per trovare soluzioni ai problemi e per la nostra stessa sopravvivenza.
Dal punto di vista psicologico, immaginazione mentale è la capacità della mente di generare immagini mentali attraverso il canale della percezione. Le immagini mentali non sono il prodotto di fantasie senza scopo, ma prendono le basi dalla nostra percezione del reale (prendono informazioni dai canali sensoriali) per dare forma e significato all’esperienza, pianificando azioni e strategie da mettere in atto nel futuro. L’immaginazione quindi, ci consente non solo di poter comprendere una determinata circostanza, ma ci consente anche di poterla in qualche modo pensare o prevedere. Questa poi, complice la paura, ci aiuta a riconoscere un probabile pericolo prima ancora che si presenti; come quando guidiamo e ad un certo punto sentiamo il suono del clacson: potrebbe essere rivolto a noi per qualcosa che non funziona oppure non riguardarci affatto. In ogni caso, nel dubbio, restiamo in allerta. In allerta è una specifica condizione psichica (variabili livelli di attività cerebrale della corteccia, delle strutture sottocorticali e del sistema nervoso autonomo) che prepara il nostro corpo d utilizzare le armi migliori per gestire qualcosa, piacevole o spiacevole che sia, che ancora non sappiamo identificare e quindi, controllare.
Capiamo ora quindi, quanto sia fondamentale il potere dell’immaginazione. Ecco che allora la domanda “Chi se l’aspettava ‘na roba del genere?” ha tutta la sua piena legittimità.
Oltretutto, all’immaginazione è spesso associata un’emozione che origina dalla nostra memoria (i ricordi) oppure dalle aspettative verso il futuro e ci consente di trovare la soluzione adatta in ogni momento.
Il rapporto tra immaginazione e emozione è bidirezionale: una influenza l’altra e viceversa. Questo significa che stimolando e suggestionando l’immaginazione è facile provare specifiche attivazioni fisiologiche e psicosomatiche, emozioni quindi. Viceversa stimolando intense emozioni. Questo naturale processo è alla base di ogni nostra azione e rappresenta una valida risorsa cognitivo-emotiva che ci consente di arricchire e potenziare ogni nostro comportamento.
Cosa accade quindi, quando si presenta una circostanza mai immaginata? Come quando SBAM! La nostra auto ha tamponato l’auto davanti a noi e, prima ancora che ce ne rendiamo conto, scoppiano gli airbag e facciamo fatica a respirare.
Non ce l’aspettavamo, siamo stati colti impreparati e ci mettiamo un po’ a capire che cosa stia accadendo. Non abbiamo quindi potuto utilizzare, in tempo, le nostre risorse e i nostri strumenti per affrontare l’evento.
Ci sentiamo impotenti e abbiamo la percezione che tutto ciò che stiamo vivendo non sia sotto il nostro controllo. E, come ogni qualvolta siamo protagonisti di una circostanza che non sappiamo in alcun modo controllare, entriamo nel circolo vizioso della paura, dell’ansia o, peggio ancora, dell’angoscia. L’angoscia è un’emozione fatta di paura più impotenza: paura verso qualcosa che potrebbe infliggerci dolore (fisico o psichico) e impotenza verso qualcosa su cui ci sentiamo inermi e non sappiamo come affrontare. Non è semplice ascoltare l’angoscia, tanto meno piacevole, ma, mai come in questo momento, è così importante ascoltarla e saperla gestire. La paura ci comunica cosa sia davvero importante per noi e cosa non vorremmo perdere, mentre l’impotenza ci mette di fronte ai fatti reali e ai nostri limiti ricordandoci anche, però, quali sono le nostre risorse e i nostri assi nella manica.
L’immaginazione ci spinge fuori di noi, a visitare squarci di noi stessi che forse prima non avremo mai preso in considerazione; l’angoscia, al contrario, ci blocca all’interno delle nostre paure più profonde e ci attanaglia.
L’immaginazione ci spinge oltre, mentre l’angoscia ci trattiene.
La cosa più sorprendente, però, è che molto spesso esse si trovano una accanto all’altra come compagne di viaggio fedeli e sincere e, se impariamo ad accoglierle nel modo giusto e ascoltate con fiducia e consapevolezza, possono aiutarci a vivere con serenità e scoprire nuove parti di noi.