di Francesca Del Rizzo
Questo articolo fa parte di un dittico che ho pensato di dedicare alla rabbia ed alla sua espressione: esso ne costituisce la seconda parte, dedicata all’espressione dell’emozione, ed è idealmente completato dall’articolo “Arrabbiarsi” che trovate qui. Non distinguerò in questa occasione fra la rabbia dell’adulto e quella dell’adolescente, a questa distinzione, infatti dedicherò un ulteriore dittico, che Teen&20 pubblicherà in futuro.
Quando ti arrabbi, ritorna a te stesso e prenditi molta cura della tua rabbia. Quando qualcuno ti fa soffrire, ritorna a te stesso e prenditi cura del tuo dolore, della tua collera.
Thich Nhat Nanh
Nell’articolo “Arrabbiarsi” ho sostenuto come la rabbia sia una emozione sempre legittima, un’emozione che ci segnala che qualcosa di profondamente nostro, qualcosa che fa parte della nostra identità, è stato toccato, violato, negato. Ho cercato quindi di invitare ad un atteggiamento non giudicante, ma di ascolto nei suoi e nei nostri confronti, affinché essa diventi fonte di informazione su di noi e sugli altri e spinta all’azione efficace ed utile. Ho sostenuto inoltre che se la rabbia è sempre legittima, certo non lo sono tutte le sue espressioni. La rabbia, infatti, può essere espressa in molti modi diversi.
C’è la scenata del bambino cui è negato un gioco: una protesta verbale e fisica che lo coinvolge tutto e che può travolgere anche il suo ambiente. C’è l’aggressività di un uomo geloso che sospetta continuamente che la compagna lo tradisca ed usa la forza fisica per farle paura e dominarla. C’è la vendetta per un tradimento subito consumata freddamente nel tempo, come viene raccontato nel film She Devil. C’è la freddezza, l’acrimonia dei gesti di due fratelli così diversi da non riuscire a comprendersi ma solo a disprezzarsi. C’è la calma ed indefettibile determinazione che ha spinto Gandhi a lottare pacificamente contro il dominio degli Inglesi, o Mandela a combattere e testimoniare con la sua intera esistenza contro il regime dell’Apartheid.
Cos’è che fa sì che le persone possano scegliere modi tanto diversi di esprimere la propria rabbia?
Prendiamo in esame la storia di ognuno di noi: fin da piccoli, ed al di là di ogni nostro consapevole sforzo, siamo attentissimi a cogliere le emozioni che muovono le nostre figure di riferimento, vediamo “come fanno” quando sono tristi, arrabbiate, felici e poi proviamo anche noi a fare la stessa cosa. Questi nostri tentativi innescano nell’ambiente che ci circonda ulteriori eventi: veniamo visti, consolati, accolti, sgridati, puniti, ignorati, ridicolizzati, squalificati? Se spieghiamo cosa sentiamo, veniamo ascoltati o ciò che diciamo viene minimizzato e banalizzato? Se diamo in escandescenze, otteniamo una risposta ferma, oppure uno sguardo di paura, un atteggiamento remissivo, altrettanta aggressività?
Nella nostra danza interattiva con gli altri ogni episodio “lascia il segno”, costituisce un precedente cui potranno seguire repliche ulteriori che ci confermeranno, o meno, che sì, quando mi arrabbio e protesto vengo visto, e se protesto ancora di più vengo accontentato, oppure no, vengo sculacciato e questo mi mortifica, oppure no, non mi mortifica, mi fa sentire vulnerabile ed allora mi arrabbio ancora di più… ed alzo ancora il tiro…
Le traiettorie possibili sono numerose e complesse, e si complicano ulteriormente con l’ampliarsi dei possibili esempi e delle possibili occasioni in cui le nostre azioni innescano ulteriori azioni da parte delle persone che ci circondano, ma ciò che accomuna tutte queste situazioni è che ciò che noi facciamo è più o meno consapevolmente canalizzato da ciò che, sulla base dell’esperienza che abbiamo già fatto, anticipiamo succederà poi e dal significato che ha per noi quel che succederà.
Detto in altri termini, i modi in cui esprimiamo le nostre emozioni radicano nella nostra esperienza. Essa ci ha offerto delle possibilità – e non altre – rispetto alle quali abbiamo avuto dei riscontri – e non altri. Se una persona non ha mai visto esprimere la rabbia con aggressività, forse non proverà mai a percorrere quella strada, una strada che, semplicemente, per lei non esiste. Ma questo vale anche per chi non ha mai visto esprimere la rabbia con un ragionamento che può essere acceso, forse, ma anche aperto al confronto. Ognuno di noi parte da alcune possibilità di azione di cui ha fatto esperienza per averle viste e poi provate in prima persona.
Siamo quindi vittime degli eventi che hanno punteggiato le nostre vite o del nostro modo di viverli?
Certo che no, possiamo sempre riflettere sui nostri atteggiamenti, comprenderne le ragioni, elaborare modalità di azione alternative modificando la traiettoria che la nostra storia ha avuto. Ed in questo tentativo di fare cose diverse, nuove, che ci sembrano avere più senso, credo possa essere utile porci una domanda: chi è l’Altro per noi?
Considerando e ripercorrendo le nostre possibili storie abbiamo infatti visto come sempre, negli scenari che immaginavamo, fossero presenti anche altre persone.
Ci arrabbiamo infatti sempre con(tro) l’Altro, qualcuno, a volte qualcosa, perché la rabbia è un’emozione che nasce nelle relazioni. Ce la prendiamo con chi riteniamo intenzionalmente responsabile dell’evento che ci ha fatto soffrire: una persona, un’istituzione, Dio, il destino, noi stessi … e vorremmo punirlo per quella sofferenza, fare in modo che quel qualcuno, o qualcosa, soffrisse almeno quanto noi, quasi che questa seconda sofferenza saldasse un conto rimasto aperto.
Non c’è una logica in questa sorta di immaginario ribilanciamento di un equilibrio rotto, ma tant’è, questo è ciò che contemporaneamente sentiamo e pensiamo quando siamo arrabbiati. Se poi scegliamo anche di dare corpo, dare il nostro corpo, a questo sentire, esprimendolo in azioni aggressive o violente, dipende anche da chi è per noi quell’Altro che ci ha fatto male.
Lo viviamo e lo percepiamo come un Nemico, come qualcuno che vuole il nostro male? Oppure come un Indifferente, un essere lontano e potente che non si cura di noi ma brama solo di raggiungere i suoi obiettivi calpestandoci noncurante nel suo pesante cammino? Ci appare come un Manipolatore o uno Sfruttatore che nega i nostri bisogni ed i nostri diritti ed è solo interessato a sfruttarci per i suoi fini? O lo vediamo invece come un essere umano confuso e sofferente, a sua volta arrabbiato o in difficoltà, che non ha compreso fino in fondo quello che stava facendo nei nostri confronti?
Queste letture così varie – che naturalmente possono condurre ad azioni molto diverse fra loro – possono essere appropriate, utili ed opportune in situazioni e contesti differenti. Pertanto, se ci concediamo il tempo di chiedere davvero a noi stessi chi è per noi quell’altro che ci fa stare così male, ci diamo la possibilità di uscire dalle traiettorie che la nostra storia può aver consolidato. Ed infine, se ci concediamo di provare a comprendere cosa quella persona, dal suo punto di vista, sta veramente cercando di fare con noi, possiamo provare a capire cosa noi vogliamo fare con lei, quale direzione imprimere alla nostra relazione. Se vogliamo giocare al “gioco” della guerra, a quello della vendetta, a quello del confronto o della testimonianza. O a molti altri possibili “giochi”.
Ecco, mi sembra però che questo ragionamento possa fare pensare al lettore che a me sia indifferente, alla fine, quale gioco la persona arrabbiata scelga di fare. Non è così. Dal mio punto di vista, come ho dichiarato fin dall’inizio di questo articolo, ci sono “giochi” che, seppur possibili, non sono legittimi. Sono tutti quelli in cui l’Altro smette di essere, agli occhi di chi è arrabbiato, persona tanto quanto lui, o lei, e diventa invece meno-che-persona, cosa. Non sono legittime le espressioni della rabbia che violano l’altro nel suo valore, nella sua integrità, nella sua libertà, nei suoi diritti. Non sono legittime, insomma, e sempre dal mio punto di vista, tutte le espressioni di rabbia che ripetono simmetricamente quei processi di negazione, svalutazione, oppressione, che di quella stessa rabbia sono stati l’origine.