L’omofobia non va in quarantena

di Rosa Olga Nardelli

Succede che arriva il Coronavirus e che siamo tutti in lockdown forzato per giorni.

Succede che i giorni di quarantena si trasformano in settimane, e poi in mesi. 

Succede che le scuole sono chiuse e si resta tutti in casa, adulti e ragazzi, non si può uscire.

Ma cosa succede se la casa, il luogo più sicuro del mondo per un adolescente, finisce per essere un luogo di angherie? Se la propria famiglia, le persone più care al mondo, finiscono per essere i propri aguzzini?

Questa riflessione parte da un dato: nelle ultime settimane c’è stato un boom di richieste di aiuto da parte di adolescenti LGBT alle chat amiche o agli sportelli di ascolto: sono centinaia i ragazzi e le ragazze che hanno denunciato anonimamente soprusi e violenze alle associazioni del territorio che si occupano di questi temi. L’orco è in casa, il suo alleato principale è il silenzio e sopravvivere negando la propria identità, col passare dei giorni, diventa sempre più difficile.

Il fenomeno delle violenze omofobiche all’interno del proprio nucleo familiare è precedente alla quarantena, anche perché il contesto familiare, assieme a quello scolastico, è sempre stato segnalato come uno dei contesti principali di violenza verso le persone LGBT. La convivenza forzata, però, ha visto un aggravarsi del problema e un esacerbarsi degli episodi di violenza.

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La prima forma di violenza riguarda proprio la negazione della propria identità.

Accade spesso che i ragazzi, dopo aver fatto coming out e aver ricevuto un sonoro ceffone (reale o verbale che sia), decidano di ritrattare le proprie affermazioni, o di dire di essersi sbagliati, di aver agito sull’onda delle emozioni ma “no, non è vero che sono lesbica, Vittoria è solo una mia amica”. Questo genere di violenza, subdola e pervasiva, ha un impatto grave sulla salute degli adolescenti LGBT, perché li priva di qualcosa di fondamentale: la fiducia. La fiducia nei confronti delle persone care, di coloro che li hanno cresciuti e ai quali si sono affidati per questioni piccole e grandi della vita. Una fiducia che successivamente è difficile da ripristinare, poiché resta la paura che quello sguardo ricevuto – d’odio, di delusione o di sofferenza che sia – possa ripresentarsi e trasformarsi in qualcosa di ancora più crudele, più spietato, sicuramente più intollerabile.

Un’altra forma di violenza sono le punizioni.

Nel momento in cui una persona LGBT inizia ad esprimere sé stessa, la propria sensibilità, le proprie preferenze sessuali, le punizioni più comuni riguardano restrizioni e le proibizioni: non chattare con alcuni amici, non guardare certe serie, non frequentare determinati siti. Naturalmente, spesso la minaccia di confisca di dispositivi, tablet e cellulari è accompagnata anche dai ricatti, che possono essere di natura economica (nella misura in cui la persona dipende economicamente dai genitori) e affettiva (“mi hai deluso”, “non parlo con te”, “non dirlo alla nonna sennò ne muore”).

Obiettivo da parte della famiglia è quello di controllare e di evitare che queste “distrazioni” possano incidere sulle condotte dei ragazzi e delle ragazze, invitandoli prepotentemente a non avere contatti con l’esterno. Anche in questo caso, l’impatto è deflagrante e porta direttamente verso l’isolamento e la solitudine. Tutti noi, di fronte all’obbligo di rispettare i decreti governativi e la quarantena, abbiamo avvertito la necessità di tenerci in contatto con le persone a noi care, amici e conoscenti, che ci alleviano lo stress di restare a casa e di veder ridurre le nostre attività lavorative e ricreative. E’ fondamentale per ognuno rimanere collegati e avere la certezza di trovare supporto nei momenti di sconforto, di non essere soli, di condividere i propri pensieri con gli altri. Ecco, tutto questo per un adolescente LGBT non è scontato, anzi diventa qualcosa a cui può solo anelare e, non riuscendo ad alleviare questa solitudine, diventa fonte di grande sofferenza.

Infine, la forma di violenza più tangibile ed identificabile, la violenza fisica, che può manifestarsi in svariate forme: dallo schiaffo al pestaggio vero e proprio, dalla violenza sessuale a scopo correttivo alle torture (una delle forme più diffuse, che si manifesta spesso con l’obbligo di terapie riparative o con l’esorcismo), dal tentativo di omicidio all’istigazione al suicidio. E tutto questo non è per nulla facile da denunciare, se si vive a stretto contatto con coloro che perpetrano tali forme di violenza.

Spesso gli adolescenti LGBT arrivano ad acconsentire e permettere che queste brutalità accadano, vuoi per una forma di omofobia interiorizzata che li porta a sentirsi in dovere di espiare delle colpe, vuoi per la paura che queste conseguenze siano peggiori della situazione di partenza. Ci sono vari fattori che portano un ragazzo o una ragazza a non denunciare, tutti governati proprio dalla paura: di mettere in pericolo sé stessi o altri membri della propria famiglia (magari un fratello che li sostiene) o altre persone (ad esempio un amico con cui si sono confidati); di mettere a repentaglio la stabilità e il clima familiare; di essere sbattuti fuori di casa; di essere rinnegati, derisi o non creduti dagli altri (familiari, funzionari di polizia, amici, etc.); di vedere la necessità di intraprendere vie legali economicamente impegnative. In sostanza, la paura di perdere tutto, o quantomeno una parte di sé e della propria identità.

Per far fronte a questi problemi, le associazioni di volontariato hanno fatto fronte comune e hanno rinforzato la rete delle chat amiche o degli sportelli di ascolto, allo scopo di aiutare quegli adolescenti che decidono di chiedere aiuto. Ci sono alcuni aspetti che è fondamentale sottolineare rispetto alle chat e agli sportelli:

  • garantiscono rigorosamente l’anonimato di coloro che li contattano;
  • sono sostenuti da personale qualificato – psicologi, educatori, avvocati, assistenti sociali – che, spesso in forma di volontariato, forniscono aiuto telefonico e pratico;
  • forniscono uno spazio neutrale di ascolto aperto e privo di giudizio;
  • prevedono la presenza di qualcuno che ci è già passato attraverso quell’inferno, adolescenti di un tempo e adulti di oggi che, più o meno a fatica, sono in grado di raccontare che da quelle situazioni si può uscire.

È fondamentale per tutti combattere il senso di spaesamento e di solitudine che questa pandemia mondiale ha portato con sé, coltivando i legami e le relazioni, appoggiandosi a chi ci è vicino, facendo riferimento ai nostri cari. E questo deve essere ancora più valido per coloro che sono considerate categorie fragili, delicate, come gli adolescenti in generale e, nello specifico, i giovani LGBT in difficoltà.