Generazione 32bit

Di Sara Verardo*

Diciamoci la verità: noi gamer, con il Coronavirus o senza, passavamo già tante ore davanti agli schermi e abbiamo affrontato così tante apocalissi zombie e nucleari che sapremmo esattamente cosa fare.
In questo momento i videogiochi sono diventati una terapia per la quarantena, tanto che c’è stato addirittura un boom nel mercato videoludico. E pensare che qualche mese fa i videogiochi erano considerati una dipendenza, un disordine.

Ma partiamo dall’inizio…
Per me i videogiochi sono stati fedeli compagni da sempre, alcuni li ricordo con malinconia, altri sono come mondi nuovi da scoprire.
L’incontro col mondo dei pixel è avvenuto da bambina, quando mi sono trasferita con la mia famiglia in un nuovo quartiere e ho fatto amicizia con un mio coetaneo con cui passavo i pomeriggi a giocare all’aperto, ma spesso anche per avere il “potere illimitato” sulla sua PS1. 

È da quando avevo 12 anni, invece, che il mondo che veniva definito “nerd” mi iniziò a interessare moltissimo. A casa abbiamo sempre avuto un computer e quando si premeva il pulsante “on” partiva il ronzio delle ventole, i vari “bip-bop” di avvio del sistema e il modem che faceva decisamente troppo rumore per il poco servizio che offriva: sembrava di stare in un’astronave.
Ricordo mio papà che passava i pomeriggi davanti al computer mezzo smontato, da cui uscivano cavi e schede che lui pazientemente mi indicava, spiegandomi la loro funzione, quasi come un chirurgo che analizza il corpo umano.

La passione è nata anche da mio cugino che, quando doveva “badare a me”, mi piazzava davanti ai videogiochi, in particolare davanti ai livelli di Doom; insomma, la tecnologia era il vizio di famiglia.

Mi ricordo ancora quando ho avuto la fortuna di costruire il mio primo pc assemblato, sembrava di costruire Frankenstein. E poi finalmente l’accensione, funzionava tutto: si poteva fare!

Il mondo fuori qualche volta non sembrava capire la mia passione “stai troppe ore lì”, “non preferisci la compagnia dei tuoi coetanei?” o “ti fa male alla vista”, la verità era che portavo già gli occhiali e i ragazzi della mia stessa età non usavano solo parole come ‘quattrocchi’ o ‘nerd’ per sfottermi, quindi il gioco ‘coetanei’ non rientrava nel mio passatempo ideale.
Col tempo poi ho scoperto che esistevano altre persone come me, quasi sempre ragazzi, con cui condividevamo trucchi, riviste per pc (beato internet) e giornate a casa l’uno dell’altro (l’online era davvero per pochi eletti ancora): improvvisamente quel senso di solitudine si era attutito. 

Poi, come tante belle storie, i personaggi a un certo punto si salutano o prendono strade diverse e anche coi videogiochi funziona così: ieri conducevi eserciti in battaglia, oggi sei il sindaco di una metropoli e domani magari un mago Khajiiti.
Il videogioco ti permette di essere chiunque tu voglia, senza pregiudizi, senza commenti indesiderati e con l’immaginazione come tuo unico limite, un po’ come fanno in modo più “passivo” libri e film, ma mica puoi andare a cavallo o brandire un’ascia in quelli!
Anche il senso di appagamento è una componente molto forte che crea un legame con il gioco, ad esempio quando costruisci qualcosa, quando ottiene delle ricompense alla fine di un livello o ancora la scritta cubitale “victory” alla fine di una partita.

Chiaramente i libri e i film non possono offenderti dandoti del ‘noob’ oppure insultando i tuoi parenti fino al 6° grado nel più creativo dei modi, ma d’altronde non può esserci male senza bene, Sith senza Jedi, orda senza alleanza.

Scomodando vecchie citazioni, io ho un sogno: ovvero quello di poter vedere il mondo videoludico come un collante che crea ponti tra nazioni, generazioni, genere e qualsiasi altra sfaccettatura che ci contraddistingue, partendo soprattutto dalla connessione tra visibilità e videogiochi: gli esports.
C’è infatti il rischio che un altro mondo sportivo diventi esclusivamente maschile, quando invece le ragazze che giocano esistono, non sono ‘maschi mancati’ e devono avere la stessa opportunità di giocare e di non essere sempre il player2.
Ben venga la collaborazione tanto quanto è benvenuta la competitività, la sfida e la forza di fare squadra per un unico obiettivo. 

Il mondo dei videogiochi ha imparato col tempo a rispecchiare sempre più la società in cui viviamo, e non solo tramite le tecnologie, ma anche tramite la percezione sociale; basti pensare a come negli anni ’90 certi personaggi venivano ‘scoperti’ LGBT solo con trame nascoste, dichiarazioni velate dei creatori o supposizioni della comunità dei fan, quando ora sono invece aspetti molto più visibili e che fanno parte della stessa trama del gioco.
Con questo non dico che non fanno più scalpore, perché purtroppo i pregiudizi non spariscono con in mano un gamepad, ma danno una cosa molto importante: la visibilità.

Anche la stessa violenza, tanto criticata nel mondo del gaming, è un aspetto tanto controverso e su cui ognuno ha la propria opinione, ma che personalmente credo si possa distinguere tra: “giochi adatti a un pubblico minore” e “giochi non adatti a un pubblico minore”, proprio perché l’adulto fa la sua parte nella decisione per chi non ha l’età di decidere per sé.

I videogiochi sono un passatempo, uno sfogo, un’avventura, un rifugio, fanno emozionare e fanno anche schifo qualche volta, ma non dovrebbero mai essere un mezzo per identificare e colpevolizzare un adolescente o un adulto perché, appunto, gioca.

Il mio invito è, se non avete mai giocato, di provarci almeno una volta, o guardate giocare qualcuno e magari chiedere di essere coinvolti: ritornate per un momento al “facciamo finta che”.

*“Sono Sara, studio all’università di Udine, da sempre appassionata di tecnologia, robe geek, sci-fi, film fantasy, videogames, minimalismo e divanismo. attivista Arcigay dal 2011, sostenitrice di uguaglianza di genere su ogni fronte, soprattutto quelle dei pelati; la leggenda narra che le mie battute potranno creare una futura glaciazione.”