L’identità di genere: me, myself and I

di Rosa Olga Nardelli

Il termine identità di genere indica il genere in cui una persona si identifica, ovvero se si percepisce uomo, donna o se si inserisce in qualcosa di diverso da queste due polarità: questa consapevolezza interiore porta, dunque, la persona a dire “io sono un uomo”, oppure “io sono una donna”.

L’identità di genere, come abbiamo già visto le scorse settimane, è un costrutto che non riguarda direttamente l’orientamento sessuale e non deriva dal sesso biologico: sebbene, nella maggior parte delle persone, l’identità di genere coincide con l’identità biologica di nascita, ci sono dei casi in cui, invece, non c’è corrispondenza tra i due costrutti e la persona prova malessere, disagio nella propria identità biologica.

Proviamo a spiegare e a chiarire.

L’identità di genere è un tratto di personalità che possiamo definire:

  • precoce, poiché inizia a costruirsi durante la primissima infanzia, ovvero già verso i 3/4 anni di età e prosegue per tutta la vita, fino a stabilizzarsi nel periodo post adolescenziale;
  • profondo, perché ha a che fare con qualcosa di nucleare per la persona, ovvero con una percezione di sé molto intima, difficile da spiegare e da definire con le parole;
  • duraturo, dal momento che si stabilisce presto e permane per il resto della vita della persona.

Nel corso dell’adolescenza, la definizione e la costruzione della propria identità assume un carattere fondamentale, poiché si tratta di una fase di ridefinizione del Sé e dell’immagine di Sé che si mostra agli altri e che si percepisce: in questo periodo della vita, dunque, la persona realizza un’idea di sé che assume sempre maggiore consapevolezza. E tale consapevolezza si inserisce, a sua volta, nella cultura di appartenenza e nel periodo storico a cui facciamo riferimento, dal momento che l’identità di genere è un costrutto strettamente legato al contesto in cui la persona è inserita – pensiamo, ad esempio, ai “due spiriti” della cultura dei nativi americani, agli eunuchi o ai “fa’afafine” di alcune società polinesiane, oppure alle persone definite “hijra” in India e “khawajasiras” in Pakistan.

Essere/sentirsi maschi o femmine, oggi o ieri, in questa o in un’altra cultura cambia notevolmente il significato che l’identità di genere possiede, proprio alla luce delle altre componenti dell’identità sessuale (ruolo di genere e orientamento sessuale) ed in relazione ad esse, sebbene non vadano confusi. 

Anche il corpo diventa una parte fondamentale nel processo di costruzione dell’identità, sebbene non sia esso a predeterminare né a causare le forme e i contenuti psicologici personali, le attitudini, le capacità e le possibilità della persona. Essere in un corpo e non riconoscerlo come proprio è un’esperienza che è difficile comprendere: è come indossare una scarpa destra al piede sinistro. Di per sé non è “sbagliato” – sempre di piedi e scarpe si tratta – ma camminare in quella condizione è molto scomodo, e rischia di procurare molto dolore. Per molto tempo si è detto che le persone che si identificano in un genere diverso da quello che il loro corpo dimostra soffrissero di “disturbo dell’identità di genere” e che questo fosse un disturbo mentale. Solo nel 2013 il DSM – Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (che raccoglie tutti i disturbi mentali) ha smesso di parlare di “disturbo” ed ha usato il termine “disforia di genere”, un’espressione che si usa per indicare il disagio sperimentato da alcune persone che non si riconoscono nel sesso dei loro organi genitali: appunto, come un piede sinistro in una scarpa destra.

La disforia può avere diversi gradi e ci sono persone che non si identificano pienamente con il proprio sesso biologico (definite “transgender”), altre per le quali il disagio rispetto al proprio sesso biologico è talmente forte che sono disposte a sottoporsi a cure ormonali e operazioni chirurgiche con l’obiettivo di conformare il proprio corpo alla propria identità di genere (in questo caso si usa il termine “transessuale”).

La disforia di genere è un fenomeno complesso che, sebbene raro, ha a che fare con l’adolescenza e con la ricerca di sé tipica dell’adolescente. Da tempi immemori se ne discute, e, come abbiamo visto, è presente in molte culture, anche in quelle molto lontane dalla nostra. Per questo motivo, in un momento storico in cui si discute di leggi a tutela della persona, di prevenzione alla discriminazione e alla transfobia, ribadiamo che è importante conoscere i termini corretti e provare ad indagarne i significati, in maniera tale da capire di cosa si sta parlando e, soprattutto, da comprendere la necessità di difendere l’unicità di ogni persona.

Maschi, femmine e stereotipi di genere

di Rosa Olga Nardelli

Nel momento in cui cerchiamo di definire l’identità sessuale di una persona dobbiamo fare riferimento ad un costrutto molto complesso, che necessita prendere in considerazione quattro aspetti distinti tra loro ma imprescindibili l’uno dall’altro:

  • L’identità biologica – ovvero il sesso biologico con cui nasciamo, maschio o femmina, in termini di cromosomi e di anatomia sessuale;
  • l’identità di genere – ovvero, come ci sentiamo, la percezione di noi come a nostro agio o meno all’interno del nostro corpo. Ha a che fare con il percepirsi uomo o donna;
  • il ruolo di genere – ovvero tutti quei comportamenti che una persona adotta come manifestazione pubblica della propria identità di genere. Ha a che fare con come ci si percepisce all’interno di una società e come la società ci percepisce;
  • l’orientamento sessuale – ovvero un “modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso gli uomini, le donne o entrambi i sessi” (APA, 2008) e che ha a che fare con chi è la persona che ci piace e dalla quale siamo attratti fisicamente e mentalmente.

Come dicevamo all’inizio, le quattro componenti dell’identità sessuale sono strettamente legate tra di loro, nel senso che si influenzano a vicenda e i relativi significati, le percezioni che ne abbiamo, contribuiscono a costruire la complessità dell’identità sessuale.

Soffermiamoci oggi sul ruolo di genere

Il ruolo di genere, dunque, è un insieme di aspettative rispetto ai ruoli che uomini e donne dovrebbero avere, in considerazione del periodo storico, della zona geografica, della cultura in cui sono inseriti. Queste aspettative si traducono, a loro volta, in comportamenti che la persona mette in atto per indicare agli altri la propria identità femminile o maschile:

  • il modo di parlare e la gestualità (es. uso delle parolacce, accompagnare le parole coi gesti)
  • gli attributi fisici (es. grandezza del seno, gestione dei peli, colorare i capelli)
  • la gestione delle emozioni (es. piangere o rimanere impassibili)
  • la cura di sé (es. curare il proprio corpo o meno)
  • il modo di vestirsi (dal colore agli accessori)
  • i tratti di personalità (es. socievolezza e timidezza)
  • i giochi e gli interessi (es. bambole o macchinine; cura della casa o informatica)
  • gli sport e il tempo libero (es. danza classica o calcio)
  • professioni e mestieri (es. camionista o insegnante della scuola dell’infanzia)
  • desideri e aspettative per il futuro (es. proseguire gli studi e fare carriera o restare ad accudire la casa e la famiglia)
  • modo di fare riferimento a sé stessi.

Alla nascita ciascuno di noi ha ricevuto un fiocco rosa, se siamo femmine, o un fiocco azzurro se siamo maschi.  Questi colori non indicano soltanto il nostro sesso biologico, ma portano con sé tutte quelle aspettative a cui abbiamo appena fatto cenno, e da quel momento in poi tutto ciò che facciamo rientrerà nella dicotomia maschio vs femmina.

Fiocco rosa: “sarà una brava donnina di casa”, “quanti figli vuoi avere?”, “mi raccomando, parla bene e non usare parolacce”, “una brava ragazza sa stare al suo posto!”, “ho regalato alla mia nipotina la cucina di Barbie”, “la danza è una attività per bambine, vedrai che ti farà venire un corpo armonioso e quando diventerai grande i ragazzi ti guarderanno”, “fare la maestra è un lavoro che solo le femmine possono fare”.

Fiocco azzurro: “dai, su, non piangere, sei un maschietto!”, “beh, è un maschio, per Natale gli regalo delle macchinine e dei camion”, “le propongo questi colori maschili: blu, azzurro e navy”, “agli uomini sta bene un po’ di panzetta”, “per l’uomo che non deve chiedere mai!”, “beh, è un maschietto, è normale che non riesca a stare fermo”, “i maschi non ne capiscono nulla di come si trattano i bambini”.

Di per sé gli stereotipi legati al ruolo di genere non sono giusti o sbagliati, proprio perché fanno parte di una cultura, sono legati ad eventi storici ben precisi, sono un modo per regolare la società stessa e per “riconoscere” il ruolo di una persona all’interno di quella società. 

La questione però è un’altra: ogni qualvolta una persona non si conforma alle aspettative che la società ha costruito per lui o lei, la società stessa lo considera strano, tende a farlo sentire sbagliato rispetto ad uno stereotipo di riferimento, ad un “modello” a cui è “necessario” fare riferimento. E, possiamo aggiungere, in questo concetto c’è la base attorno a cui si costruisce il bullismo omofobico: “fai danza classica, sei una femminuccia”, “fai calcio, sei lesbica e un maschiaccio”; “quel bambino sta giocando con le bambole, sarà gay da grande”, “a quella bambina piacciono le macchinine, diventerà sicuramente lesbica”; “lei si muove proprio come un maschio”, “lui si atteggia da femmina”; “è lesbica, quindi non può avere dei figli”, “quell’educatore è gay, non voglio che stia vicino ai bambini dell’asilo”; “sei lesbica perché hai quel tono di voce”, “sono sicura che il mio parrucchiere sia gay” e via dicendo, di esempi potremmo essercene migliaia.

Gli stereotipi, nel momento in cui si trasformano in pregiudizi granitici, impediscono alla persona di scegliere, di essere quella che è, e fanno male alle femmine, tanto quanto ai maschi: una società in cui il maschio, per esser considerato tale, deve essere sempre forte, emotivamente e fisicamente, sempre un passo avanti, sempre in grado di gestire la situazione, deve raggiungere sempre i massimi livelli, e dove la femmina deve essere sempre un passo indietro, deve sentirsi chiedere quando vuole dei figli (e non SE), deve mantenere un ruolo dimesso, corre il rischio di impantanarsi in questi modelli e di perdere di vista la sensibilità e la ricchezza che maschi e femmine, indistintamente, possiedono.

11 ottobre, Coming out day

di Rosa Olga Nardelli

“Come si fa a dirlo: non avrei conosciuto mio figlio”

“Occorre piangere e studiare”

“Ha permesso a me, genitore, di conoscere una parte del mondo di cui non conoscevo proprio l’esistenza”

In occasione dell’11 ottobre – Coming Out Day prendiamo in prestito le parole dei genitori che fanno parte dell’Associazione AGEDO (Associazione GEnitori Di Omosessuali – www.agedo.roma.it) per ricordare l’importanza del coming out: un atto di amore nei confronti di sé stessi e delle persone che ci amano.

Ma perché proprio l’11 ottobre?

Il primo Coming Out Day si è tenuto per la prima volta nel 1988 negli USA, su suggerimento di uno psicologo e di un attivista LGBT, con l’obiettivo di aumentare e rafforzare la coscienza e la consapevolezza all’interno della comunità LGBT. La data scelta, l’11 ottobre, ricorda la marcia per i diritti di gay e lesbiche, svoltasi a Washington l’anno precedente.

Coming out o outing?

di Rosa Olga Nardelli

Nei giornali, nei social, in tv sentiamo sempre più spesso parlare di omosessualità e bisessualità: si discute di diritti civili (vedere le recenti discussioni in Parlamento sulla legge Zan contro l’omofobia) e di matrimonio egualitario, in un clima più o meno civile e da parte di persone più o meno esperte; ci sono libri, film e serie tv che affrontano l’argomento (solo per fare degli esempi: il libro appena uscito “Caccia all’omo” di Simone Alliva, il film premio Oscar “Chiamami col tuo nome” (tratto dall’omonimo libro di André Aciman), la seguitissima webserie “Skam”); ci sono i progetti nelle scuola che parlano di prevenzione al bullismo omofobico; tanti personaggi pubblici hanno dichiarato la propria omosessualità e bisessualità (vedi ad esempio l‘articolo da noi pubblicato).

Se ne parla molto di più che in passato, fortunatamente, ma non sempre si conosce veramente l’argomento, tanto che spesso se ne parla in maniera poco appropriata, mescolando i termini e i significati.

In particolare, ci soffermiamo oggi su due parole che vengono spesso confuse e il cui uso non è sempre corretto, poiché fanno riferimento a due costrutti molto diversi: coming out e outing.

Il termine coming out è la contrazione di coming out of the closet, letteralmente uscire dal ripostiglio, dall’armadio, ovvero uscire allo scoperto: nel mondo LGBT l’espressione coming out significa dichiarare volontariamente al mondo il proprio orientamento, vuol dire prendersi la responsabilità di dire agli altri di essere omosessuale, bisessuale o – udite, udite – eterosessuale. Ebbene sì: anche dichiarare il proprio orientamento eterosessuale è fare coming out, ma nel nostro articolo ci concentreremo sul coming out di una persona omosessuale o bisessuale.

L’omosessualità – e la bisessualità – viene definita dagli studiosi come uno stigma nascondibile, nel senso che è la persona stessa a decidere se rivelare o meno il proprio orientamento, a differenza, ad esempio, del colore della pelle: questo, se da un lato consente un atteggiamento protettivo nei propri confronti (es. se sento di essere in pericolo, posso decidere di non rivelare il mio orientamento), dall’altro crea una situazione di continua negoziazione sociale e la persona vive continuamente la questione della visibilità. “Lo dico? Non lo dico? A chi lo dico? Come lo dico? A chi posso dirlo? Come la prenderà? Mi rifiuteranno?”, in un vortice di domande automatiche e di velocissime considerazioni, ci si trova a cercare di anticipare le conseguenze di ciò che si sta per dire, a cercare di frugare nelle reazioni altrui, probabilmente con un velo di preoccupazione addosso. In sostanza, il coming out è un processo continuo, che non ha mai fine, lo si fa coi genitori e alle riunioni di famiglia, con gli amici e coi compagni di classe, sul luogo di lavoro, in albergo e quando si prenotano i posti per congiunti ad un concerto, con l’agente immobiliare, quando si racconta delle proprie vacanze o di un incidente in casa: la risposta ad una domanda all’apparenza banale (“dove sei stato questo weekend?”) può diventare un momento critico, in cui è necessario decidere cosa raccontare di sé e della propria vita. Per questo motivo, il continuo affollarsi di queste domande in testa viene definito rumore bianco, ovvero uno stress sempre presente, un’ansia anticipatoria collegata a minority stress (vedi l’articolo sull’omofobia interiorizzata).

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Se guardiamo l’altro lato della medaglia, però, possiamo definire il coming out come un atto di amore nei confronti di sé stessi, perché in questo modo non lasciamo che il giudizio degli altri condizioni il nostro giudizio su di noi, perché l’omofobia interiorizzata non ci renda prigionieri di noi stessi, perché possiamo avere sempre meno paura di dire: io sono lesbica, sono gay, sono bisessuale.

Tutt’altro discorso va fatto per l’outing.

L’outing è la rivelazione pubblica dell’omosessualità/bisessualità da parte di terzi senza il consenso della persona interessata; il termine proviene da out, traduzione dell’avverbio fuori, nel senso di buttar fuori dall’armadio e venne coniato dal Time a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90. In Italiano spesso il termine outing viene impropriamente confuso con coming out, ma si tratta di una confusione piuttosto grave, dal momento che possiamo definire l’outing come una vera e propria forma di bullismo omofobico.

L’outing dell’omosessualità (o bisessualità) di una persona viene fatto, solitamente, senza che lei ne sia consenziente o contro la sua volontà, diventando, di fatto, una violenza: tale esposizione può rivelarsi potenzialmente pericolosa, poiché quella persona non vuole o non è in grado di affrontare le conseguenze, oltre a rappresentare una violazione delle sue decisioni.

Coming out e outing sono due atti molto potenti ma, dal momento che l’orientamento sessuale è una dimensione nucleare dell’individuo, hanno strettamente a che fare con la dimensione di consapevolezza.

Facciamo un esempio, inerente il contesto scolastico: un ragazzo può decidere di fare coming out, di dichiararsi omosessuale, per varie ragioni (es. affermare la propria identità, come atto di coraggio, per condividere le proprie esperienze coi pari, etc.) e in tal caso si assume, consapevolmente, la responsabilità delle sue azioni e del suo gesto, che a volte può essere anche liberatorio. Diverso è se subisce outing da parte dei compagni: in questo caso, quel ragazzo può, ad esempio, non essere pronto a dirlo agli altri, può aver paura di essere preso in giro o che la notizia arrivi agli insegnanti e alla propria famiglia, può essere in difficoltà con il proprio orientamento e, di conseguenza, sentirsi confuso, può sentire gli occhi puntati addosso come un “sei sbagliato”, e così via. 

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Se diciamo che sono le parole a dare forma al pensiero, non possiamo ignorare la differenza sostanziale che esiste tra coming out e outing. Questo è il motivo per cui utilizzare un linguaggio corretto e adeguato, con consapevolezza dei significati che le parole hanno e delle implicazioni che portano con sé, è sempre un’ottima idea. Per lo stesso motivo, inoltre, è importante incoraggiare il coming out dei ragazzi ed evitare accuratamente l’outing, poiché anche quello fatto più “in buona fede” e con le migliori intenzioni, può diventare un boomerang e rivelarsi una pessima idea.

Diamo spazio ai ragazzi, rispettiamo i loro tempi e le loro modalità, diamogli il rispetto che meritano in quanto artefici della loro vita e delle loro scelte: solo in questo modo favoriremo l’autenticità della comunicazione e la condivisione vera degli affetti, diventando alleati e non nemici.

E se siamo delle persone LGBT che vogliono fare coming out? Ecco cosa possiamo fare:

  • prendiamoci tempo e spazio per conoscerci, per informarci, per capirci e ascoltarci meglio;
  • prepariamoci a varie reazioni, non tutto va come nei film, nel bene e nel male: i nostri amici o famigliari possono sorprenderci accogliendoci e ascoltandoci, oppure possono avere reazioni aggressive. Consideriamo sempre che, magari, anche loro hanno paura di ciò che sta accadendo o che non hanno gli strumenti per far fronte a questa rivelazione;
  • cerchiamo, eventualmente, sostegno: che sia di un amico o di un esperto o di una associazione, che sia un supporto o un semplice consiglio, parlarne con qualcuno è sempre un’utile soluzione.

Teen, Internet e Social Network

di Sara Feltrin

Esilaranti quanto insoliti video alla Tik Tok style, stories geolocalizzate dell’ultimo secondo postate su Instagram, post curiosi e sfoghi anonimi su Facebook e stati che, come su Whatsapp, per essere degni di nota devono rispondere al colpo di scena. Su YouTube la gara di visualizzazioni e seguaci per i corsi di fitness, yoga e pilates e, a seguire, i tutorial dell’handmade che invogliano e incentivano anche i più pigri demotivati.

Il XXI secolo si preannuncia così: all’insegna di cellulari e tablet diventati ormai vere e proprie estensioni di anima e corpo (chi esce più di casa senza cellulare, ormai?). E, come se non bastasse, è arrivata anche una pandemia mondiale ad accentuare ancor di più quella che si sta delineando come l’inizio di una realtà virtuale, aumentata.

Così, milioni e milioni di persone hanno dato il via, chi prima chi dopo, alle videochiamate, alla spesa online, alla ginnastica su YouTube e agli happy hour digitali. Tanto che persino il più cinico delle nuove tecnologie si è dovuto adattare all’utilizzo di questi marchingegni tanto spaventosi quanto efficienti. 

Volenti o nolenti, Internet e i nuovi dispositivi elettronici ci stanno inevitabilmente portando verso una nuova forma di realtà.

Come ci comportiamo noi adulti rispetto a questo? E, soprattutto, come si comportano i giovani e nostri adolescenti di fronte a questo tipo di realtà? Cosa pensiamo di conoscere riguardo a loro? Siamo sicuri che il nostro punto di vista sia condiviso con il loro?

Stiamo parlando di una realtà cresciuta pian piano assieme alle nuove generazioni, le quali hanno potuto masticare e conoscere con maggiore caparbietà il meccanismo elettronico e digitale. Ce l’hanno, come dire, nel sangue. Rispetto ad un adulto degli anni ’60 che si sente in qualche modo costretto a mettere da parte scaffali di quaderni ed enciclopedie, per i nostri teen ager la tecnologia digitale è pane quotidiano e l’era virtuale la realtà più spontanea e affabile, più facile, immediata e accomodante per i loro bisogni e per le loro necessità. Parliamo di necessità, non di passatempo. Ma quali sono queste necessità che vengono quasi magicamente esaudite e soddisfatte in rete?

Se fino a 20 anni fa la cerchia di amici (rigorosamente di paese, ovviamente) la si trovava in piazza, ora si affaccia allo schermo di un cellulare dall’altra parte della città; se i giri in bicicletta o sullo skate aiutavano a raggiungere case di amici e luoghi di ritrovo, qualche piroetta freestyle per lanciare la sfida dell’ultimo minuto, ora è sufficiente starsene sdraiati sul letto della propria camera per raggiungere qualunque parte del mondo; le sfide sono diventate challenges fatali in cui, per fermarsi (e affermarsi), un ginocchio sbucciato non basta più. Allora nascono quegli strani video di Tik Tok, ripetuti e ripresi fino allo sfinimento, o quella sfilza di stories pubblicate su Instagram nate per essere visti, spiati, guardati o semplicemente, per essere nel social. Che spesso però, nulla ha a che vedere con l’essere social, ovvero quell’essere sociale con cui Aristotele definiva l’uomo. Tuttavia, sia nel ‘300 a.C. che nel 2000 d.C., l’esigenza è la stessa: essere inclusi in una comunità e considerati una comunità. Ecco che ore e ore a lavorare online per la creazione del proprio avatar o per la pubblicazione del proprio profilo social nella piattaforma più popolare danno spazio a piccole evoluzioni diventate fondamentali  quanto necessarie per il raggiungimento di quell’obiettivo tanto difficile da raggiungere: la costruzione della propria identità. Così, l’avatar di gioco, armato e attrezzato con bombe e fucili per le battaglie online, ha sostituito lo scontro dei mitici soldatini verdi e delle battaglie con i Lego. Che siano “fisici” oppure online si tratta comunque di giochi di ruolo che permettono al giocatore ad interagire col mondo esterno attraverso la creazione di situazioni immaginarie, di scoprire e apprendere senza essere bloccati da paure, timori o preoccupazioni. Liberi di decidere e agire, acquisiscono competenze in una situazione, immaginaria appunto, che tutela e protegge.  

Oltre tutto gioco è espressione: di vissuti, stati d’animo ed emozioni spesso non facili da gestire come la rabbia, che nei luoghi “virtuali” è di certo più consentita e a volte, giustificata.

Gli anni sono passati, il sistema educativo è cambiato e i “giovani d’oggi” non sono più figli ribelli di un’infanzia costretta, ma adolescenti a volte fin troppo consapevoli di affettività, relazioni e di ciò che è stato fatto per loro; fin troppo in relazione con i genitori che, inevitabilmente, hanno sviluppato un sistema familiare relazionale più empatico ed affettivo. La realtà virtuale consente di socializzare ed esprimersi senza troppa paura dei pregiudizi, rendere alcuni vissuti più tollerabili perché condivisi o agiti insieme. La rete quindi non rappresenta sempre una perdita di tempo o una minaccia per cui preoccuparsi (troppo). La rete può diventare un antidolorifico ai vissuti di tristezza e solitudine, un’attenuante alla rabbia, all’ansia e alla paura del futuro, una stanza in cui tutto diventa possibile e i sogni, le fantasie e l’immaginazione prendono forma e si fanno spazio, libere di esistere.

In questo modo la rete può diventare un’amica confidante, una difesa protettiva ad una realtà fuori che spaventa e chiede sempre di più. Per questo è importante rispettare gli “spazi virtuali” dei nostri giovani esploratori: non demolirli ma piuttosto, visitarli e consultarli assieme per condividere e comprendere non solo le loro esigenze ma anche i loro stati d’animo. Cercare di capire a quale bisogno corrisponde l’uso o l’abuso di internet (soprattutto un utilizzo disfunzionale) quali le preoccupazioni o la rabbia che si celano dietro la creazione di un avatar che non rispecchia per niente l’aspetto dello stesso giocatore, quali insicurezze si nascondono in un profilo di Instagram un po’ troppo provocante. 

Cosa vogliono trovare nella rete e da cosa vogliono scappare? 

La crescita impone inevitabilmente dei salti evolutivi e dei cambiamenti sul piano corporeo, cognitivo ed emotivo che non sempre si riflettono in modo omogeneo e uniforme su tutti e tre i piani. A volte capita che non si sia psicologicamente pronti per un aumento di taglia al seno, per il cambio improvviso della voce o per i richiami ormonali dei primi amori, che rischiano di spezzare l’equilibrio tra il “chi sono” e il “chi voglio diventare” con un prematuro e angosciante “chi dovrò diventare”. E questo non è facile da capire (per i nostri ragazzi) e non è facile da captare (per i genitori).  

E’ qui che si innesca il lungo processo di conoscenza profonda dei nostri giovani esploratori e non possiamo pretendere, né tanto meno provare, ad arrestare il futuro. Ciò che è importante capire è che la rete non è essa stessa la causa della dipendenza da internet o del ritiro sociale, come tanti possono ritenere, ma un estremo tentativo di restare lì, in quella realtà, scappando da qualcosa che in questa realtà, angoscia, terrorizza o semplicemente, non piace. 

Tanto quanto qualunque altra situazione complessa, anche nella rete ci sono sicuramente dei grossi rischi che devono essere spiegati e compresi consapevolmente insieme. Se sapremo apprezzare e rispettare le loro esigenze, potremo aiutarli ad intraprendere al meglio il loro percorso di crescita. 

La mia stanza

di Giorgio Zanier*

Era un martedì del lontano Febbraio del 1978, tutto il pomeriggio l’avevo trascorso a bussare le porte delle case per recitare la filastrocca in cambio di  qualche uovo e poche monete. Un’usanza che a Carnevale io e i miei compagni di scuola ripetevamo religiosamente ogni anno nel pomeriggio del martedì grasso. Anche quel giorno andò tutto come previsto. Un travestimento per il pomeriggio e uno per il ballo in maschera che si sarebbe tenuto alla sera nella sala parrocchiale del paese . 

Del resto in quell’epoca la Tv era a un canale solo e gli eroi da imitare erano davvero pochi: Tarzan, Zorro, Topolino e pochi altri. Così con un abito da Zorro (tassativamente fatto in casa) nel pomeriggio e un abito da vecchia adattato alla maschera acquistata per la sera, anche quell’anno avremmo rinnovato la sfida tra amici: presentarci con due travestimenti diversi per poi decretare il vincitore in colui che veniva riconosciuto per ultimo. 

Cosi anche quella sera di mi presentai al ballo in maschera con l’intento di non farmi riconoscere, fino a quando improvvisamente notai la presenza di un gruppo musicale. Essendo una serata danzante mascherata ci stava. Del resto anche d’estate durante la sagra del paese vi erano sempre gruppi musicali a animare le serate. Quel martedì grasso invece vi era qualcosa di completamente differente che attirò la mia attenzione. Si perché questa volta a differenza di tutte le altre alla batteria sedeva un bambino della mia età. 

Quando realizzai il tutto rimasi completamente pietrificato. Fino a quel momento avevo pensato che i batteristi fossero sempre stati adulti per cui anche se volevo suonare la batteria nel corso dei miei 11 anni sapevo che avrei avuto comunque tempo per farlo e anche l’organista della chiesa, il mio primo mentore, mi ripeteva spesso che una volta più grandicello (ritornello che non sopportavo dato che l’avevo sentito pronunciare centinaia di volte anche in famiglia) avrei potuto imparare a suonare la batteria. 

Fu proprio lui, mentre accompagnavo le sue esercitazioni con il mio tamburellare sulle sedie, a farmi esordire in pubblico alcuni anni prima durante una celebrazione liturgica grazie a una batteria presa in prestito dall’oratorio del paese vicino. Fu sempre lui a dirmi di suonare con le mani quando preso dall’emozione della mia prima esibizione in pubblico , fui incapace di tenere le bacchette in mano perché tremavo come una foglia per la paura di sbagliare. E fu sempre lui a esortare i miei genitori a inscrivermi al lontano conservatorio di Udine così da cominciare a sviluppare il mio talento che emergeva da tutte le parti ma che purtroppo non sembrava interessare molto, probabilmente perché collocato in una realtà piccola come un paesino di provincia in cui gli aspetti principali riguardavano l’emigrazione e la coltivazione della terra. 

Del resto anche io ero figlio di emigranti ed erano i tempi in cui vi erano pochissime possibilità… di scuole di musica nemmeno l’ombra, solo calcio giovanile e qualche sporadico gruppo scout ancora in fase embrionale…  D’informazione online, oggi diventata fonte di apprendimento per tutte le categorie, nemmeno parlarne. Così, quando quella sera vidi quel bambino, tutte le mie certezze e le mie credenze andarono in frantumi. Corsi di corsa a casa a dire a mio padre di venire a vedere quel bambino che era come me e che quindi avrei potuto anche io iniziare in qualche modo. 

Ma vuoi per le difficoltà di quel momento, la stanchezza del lavoro e altri due figli a cui pensare, ben presto la mia richiesta, come era già successo alla precedente proposta del conservatorio, cadde immediatamente nel dimenticatoio. Cos,ì tolti i vestiti (il carnevale in quel momento era come se non esistesse più) e rimessi gli abiti normali, mi precipitai di corsa a vedere quel bambino. Fortunatamente casa mia era poco distante dalla sala parocchiale per cui fui molto rapido nel prendere una delle poche sedie rimaste e sedermi in un angolo in cui riuscivo a vedere il palco. Non mi mossi più da lì per almeno 3 ore, rapito dal mio sogno che vedevo realizzarsi in qualcun ‘altro.

Già da due anni l’organista se ne era andato, trasferito per lavoro da un’altra parte, e io vivevo la mia passione per la musica immerso in un mio mondo che, nell’ambiente, soprattutto scolastico (tranne qualche apparizione nelle recite alle elementari con un fustino del Dash), non era per nulla recepito. Tuttavia fu proprio quella sera che iniziò tutto per me perché, il giorno dopo, i genitori di quel bambino, vedendomi cosi attento e appassionato, vennero a casa mia e parlando con i miei genitori dissero loro che dovevano assolutamente spingermi allo studio dello strumento. Ricordo bene quel periodo, soldi a casa non ne giravano molti per cui tutti temevano che la mia fosse solo una passione adolescenziale passeggera utile solo a indebolire il bilancio familiare, visti il costo degli strumenti musicali e la difficoltà di reperire un maestro che mi desse i primi rudimenti.

Visto con il senno di poi, quello in realtà fu il primo passo di un percorso lungo 40 anni, fatto sì di sacrifici, ma anche di grandi soddisfazioni e di dischi registrati, Tour e collaborazioni importanti con musicisti di una certa caratura, conoscenze e momenti rilevanti come qualsiasi professione svolta ad ottimi livelli comporta.

Dall’adolescenza fino al professionismo, la musica è stata soprattutto “la mia stanza.” Quel luogo in cui rifugiarmi quando mi sentivo incompreso o invaso da un qualsiasi tipo di ordine autoritario (nel periodo scolastico erano frequenti)  che alle volte  in quella fase di vita tendevo a contrastare perché lo vivevo come un obbligo limitante. Una stanza tutta per me in cui non permettevo a nessuno di entrare.

Scoperta la mia passione rinforzata dall’interesse del  mio primo mentore che poi mi abbandonò per cause di forza maggiore, non mi sono mai arreso pur di  arrivare ad ottenere ciò che desideravo. Ho superato tantissime difficoltà: per studiare lo strumento ho trascorso molte ore in treno per raggiungere gli insegnanti delle grandi città in Italia e all’estero, ma tutto poi è stato ripagato con grandi risultati, anche inaspettati, e soddisfazioni immense. Ricordo ad esempio quando da bambino vedevo il Festival di Sanremo ed ero pronto con il mio fustino ad accompagnare le canzoni ogni sera per tutta la durata del Festival. La sera poi a letto addormentandomi mi dicevo: “Un giorno salirò anche io in quel palco!”  

Così quando nel 1997 partecipai alla 47° edizione del Festival di Sanremo, come una “rullata” mi fecero eco i miei ricordi di bambino e iniziai ad unire i puntini. Quella che era stata la mia stanza per molto tempo, crescendo l’ho ampliata: ho aperto le finestre e ci ho iniziato a far entrare qualcuno, perché senza gli altri non si va da nessuna parte. Se da soli possiamo muoverci, insieme si può andare più lontano, per cui dopo aver ben sviluppato il muscolo della solitudine ho iniziato ad aprirmi al mondo: avevo capito chi ero e cosa volevo fare nella mia vita. 

Giorgio Zanier

E’ vero che prima ho dovuto imparare a mie spese che risalire la corrente è dura, soprattutto quando non sai di essere un salmone e l’ambiente esterno (probabilmente anche in buona fede) ti fa credere di essere un pesce rosso. Ma è anche grazie a questo che oggi, in qualità d’insegnante e formatore, sono in grado di trasmettere ai miei studenti e alle persone con cui vengo a contatto il desiderio di superare i limiti apparenti. 

Ritengo siano di fondamentale importanza, sia per riuscire a crearsi una professione sia per alimentare la propria Felicità, imparare ad ascoltare se stessi e gli altri e dedicare tempo a scoprire chi siamo e che talenti abbiamo. Per usare una metafora, si può paragonare il coltivare il proprio talento  al tentativo di accendere un fuoco. All’inizio per farlo ardere occorre alimentarlo con la legna circostante (famiglia-scuola-ambiente di vita) e poi, una volta acceso, si potrà andare a prenderne in un ambiente esterno. Io penso che, anche se all’inizio non ne siamo consapevoli, ciascuno di noi nasca con un Talento, un’abilità recondita, grazie alla quale c’è un ambito in cui ciò che fa riesce naturale . 

Quando arrivò la mia prima batteria a casa mi ci sedetti dietro e iniziai a suonare come se l’avessi sempre fatto. Anche nelle mie prime serate, fatte all’età di 13-14 anni, ripetevo naturalmente i ritmi imparati nei dischi o che mi ero immaginato in testa. Fin da bambino, io battevo su una superficie con tutto ciò che mi capitava sottomano e farlo mi faceva entrare nella “mia stanza.”

Se in questo momento, rivedendo tutti i miei trascorsi, mi chiedessi come viva oggi la professione del musicista, direi che sono cambiate moltissime cose sia nella mia vita professionale che personale e non ho mai vissuto la mia professione come un lavoro ma piuttosto come una gioia, un privilegio. 

Attualmente il mio principale interesse ruota attorno al tipo di vita che voglio vivere: preferisco mettere a disposizione quanto ho appreso per fare in modo che i miei studenti valorizzino le loro capacità, evitando così di entrare nel paradigma da me sperimentato in gioventù e che è ben rappresentato nel libro “L’aquila che si credeva un pollo.” 

Scoprire fin da subito la propria passione e le proprie capacità offre la possibilità d’imparare a conoscere noi e il mondo circostante soprattutto in età adolescenziale, perché permette di forgiare il proprio carattere, sperimentare il potere della disciplina personale e conoscere le proprie possibilità. Vivere il proprio Talento è un opportunità che la vita ci offre  per comprendere il nostro scopo ed iniziare a viverlo per sé e gli altri, anche per questo lo dobbiamo imparare a coltivare. Come insegna Confucio, scegliere il lavoro che amiamo significherà non lavorare nemmeno un giorno per tutta la vita.

*Collaboro professionalmente nel campo della didattica musicale con il CDM Centro Didattico MusicaTeatroDanza di Rovereto (Tn) suono in diversi progetti musicali e mi occupo di formazione attraverso corsi e seminari. Sono autore della collana didattica per batteristi Custom Learning e del Libro “Crea la colonna sonora della tua vita” dedicato a tutti coloro che desiderano migliorare la propria vita attraverso lo sviluppo del proprio talento.

Quando i sogni dell’adolescenza diventano progetti di vita e di carriera

di Giuseppe Miceli*

Durante il tempo trascorso in quarantena, le cose più interessanti che ho potuto fare – al di là di prendere atto di avere una preadolescente filmaker in casa prestata al mondo di “tik tok”, ed una bambina che assomiglia a Jane Fonda in versione cheerleader – sono state leggere e riflettere. Letture e riflessioni che mi hanno portato inevitabilmente indietro nel tempo, a quando l’adolescente ero io stesso.

L’opportunità di scrivere di quella fase della mia vita, offertami da Teen&20, capita insomma al momento giusto.

Non sono stato il classico ragazzo adolescente problematico, che dava grossi grattacapi ai propri genitori. A parte qualche insuccesso scolastico, non avevo né richieste esose né particolari esigenze di libertà, come tanti altri coetanei di allora. Il motorino lo comprai con i miei primi risparmi, sudati durante un’estate passata a fare l’operaio, e cominciai a frequentare le discoteche non prima della maggiore età. Ero consapevole di vivere in una famiglia dove si facevano sacrifici e lo accettavo con responsabilità. Ma questo non mi ha permesso di uscire comunque indenne da quegli anni.

Non avevo ancora quindici anni (era il 1985) quando il mio migliore amico, compagno di scuola e squadra, morì in un tragico incidente stradale. Non feci in tempo di uscire da quel trauma che se ne ripresentò un altro, toccandomi ancor più da vicino. Venni coinvolto, un anno dopo, in un altro brutto incidente, insieme a mio fratello e due suoi compagni di scuola, uno dei quali perse la vita. Fu un’esperienza straziante per tutti noi ed i nostri genitori. Dover sbattere, in così poco tempo, ripetutamente contro una realtà come la morte a quell’età, rappresentò una prova difficile da superare. Seguì un periodo in cui i miei sentimenti sembrarono appiattirsi e nel tempo mi resi conto dei danni psicologici subiti.
I risultati scolastici non mi aiutarono, nel frattempo mio padre decise con perentorietà che dovevo lasciare il calcio e con esso tutta la rete di relazioni che ero riuscito a crearmi, con non poche difficoltà. Alle soglie dei diciasette anni, insomma, le cose per me non si stavano mettendo per niente bene.

Erano gli anni di Videomusic e più tardi anche di Mtv, la radio inoltre era ancora un mezzo di svago e di informazione importante, attraverso cui cercare qualcosa di nuovo ed inesplorato. Pordenone, la città dove studiavo, vantava un sottobosco culturale ricchissimo che non tardò ad influenzare, sul finire del 1986, le mie scelte in campo musicale ed estetico. I miei genitori, purtroppo, non mi avevano trasmesso nulla da questo punto di vista, non avevamo ricche librerie a casa (a parte un paio di enormi enciclopedie) o collezioni di dischi dalle quali attingere e trarne ispirazione, quindi qualsiasi sforzo facessi, sapevo che era frutto della mia intraprendenza e curiosità. Sentivo che qualcosa stava cambiando in me, ero alla ricerca di una identità. Nulla di nuovo in un adolescente, se non fosse che per me identità voleva dire innanzitutto distinguermi dagli altri, non omologarmi. 
I media erano diversi e meno invasivi, non eravamo sottoposti alle pressioni di oggi naturalmente, molti giovani si ispiravano alle cosiddette “controculture”, attraverso le quali potevano esprimersi ed affrancarsi dalla società generalista e da famiglie iperprotettive come la mia. E così, grazie anche ad alcune nuove amicizie, riuscii a ritagliarmi piano piano il mio piccolo angolo di “paradiso”, nel quale misi tutto quello che mi faceva stare bene, innanzitutto la musica. Musica che avvertivo come qualcosa di fortemente identitario, che mi ha portato a scoprire l’emozione di andare ad un concerto, il mondo della radio, dell’editoria indipendente, ed in seguito universi paralleli come il cinema, la letteratura, l’arte e la fotografia.

Ero felice e spensierato, forse ancora un po’ introverso ma non più l’adolescente insicuro e inadeguato di prima, anzi tutt’altro. Mi trovavo nel migliore dei mondi cui potessi aspirare in quel momento. Il processo attraverso il quale elaborai le mie dolorose esperienze, fu del tutto naturale e partì da me stesso. L’aver scoperto quel vaso di Pandora ebbe su di me un effetto salvifico. 

I fatti che seguirono tracciarono il mio percorso futuro. Contribuii alla realizzazione di una “fanzine”, ovvero una rivista artigianale fatta di pagine fotocopiate (in uso negli anni 70/80), in cui scrivevo articoli musicali, recensivo dischi e concerti. Successivamente, a vent’anni circa, collaborai per un breve periodo con la redazione della rivista musicale “Rockerilla”, fino alla conduzione di programmi in radio e all’organizzazione di concerti in Italia, che è diventata nel tempo la mia professione.

Foto di Marco Luchetta

C’è da dire che negli anni del raggiungimento della maturità, la vita non mi trattò sempre bene, avvenimenti negativi e delusioni erano sempre dietro l’angolo. Devo ammettere comunque che ogniqualvolta mi sono trovato ad affrontare delle difficoltà, la musica era sempre presente, e la sua forza propulsiva mi ha aiutato spesso a superarle. 

Vorrei tanto che il mio racconto arrivasse a quei ragazzi che hanno pensato ad un certo punto di non farcela, e li stimolasse nella ricerca di qualcosa di sano e solido – che per me è stato il mondo della musica ma per qualcun altro potrebbe essere il teatro, l’arte, il fumetto, lo sport… – a cui aggrapparsi per esprimere se stessi e ritornare a credere nel proprio futuro. 

* Lavoro professionalmente nel campo dell’organizzazione di concerti ed eventi musicali, in tutto il territorio nazionale, per la mia agenzia Solid Bond Agency dal 2001 , anche se iniziai in maniera semi-professionale già dal 1991. Organizzo concerti di artisti internazionali per club, festival ed eventi. Negli ultimi anni ho fatto parte della direzione artistica di Fiera della Musica di Azzano Decimo e collaborato con Fabrica di Treviso.

I valori professionali

di Alessandra Vignando

Perché sono importanti i valori professionali nelle scelte scolastiche e professionali?

Nell’ambito degli studi e delle pratiche di orientamento scolastico e lavorativo, un ruolo di sicuro interesse viene dato all’analisi dei valori personali e professionali. Ciò deriva dal ruolo che questi hanno nell’influire le azioni che le persone attuano o nel favorire determinati percorsi di scelta. I valori di una persona hanno importanti implicazioni nella vita sociale e nell’identità del singolo.

Questi principi danno un senso di scopo, sono dei fini da raggiungere, e per questo influenzano gli interessi e le preferenze delle persone. Comprendono sia elementi intrinseci che estrinseci all’individuo come ad esempio lo sviluppo personale, la creatività, l’altruismo, l’autonomia piuttosto che le relazioni sociali o lo stile di vita.

Questi atteggiamenti trascendono specifiche azioni o situazioni, sono obiettivi astratti che orientano la selezione o la valutazione di percorsi, persone o eventi. 

I valori personali possono essere considerati costrutti sovraordinati e nucleari, ovvero dimensioni di significato, che la persona struttura, con la propria esperienza, anche attraverso l’interazione sociale. 

I costrutti sovraordinati regolano le scelte, sia riferite alle attività personali che alle relazioni interpersonali. Sono principi e credenze, non solo di natura cognitiva ma risultano anche fortemente legati anche alle emozioni. 

Secondo Bellotto, uno degli studiosi maggiormente accreditati in tale ambito, “i valori professionali sono un’organizzazione durevole di credenze e di atteggiamenti su cosa sia preferibile, giusto, migliore, opportuno perseguire nella vita….. Il questo senso costituiscono un insieme di criteri che guida il comportamento delle persone, orientandole, supportandole, facilitando le prese di decisione e l’integrazione di differenti attività(Bellotto Trentini 1997).

Ma in che modo le persone attribuiscono valore al lavoro?

Primariamente il lavoro permette di assolvere ad una funzione economica utile a garantire il soddisfacimento dei bisogni di sussistenza e di sicurezza. Questa funzione viene spesso identificata, appunto, come la prima motivazione verso il lavoro, anche se definire a priori una classifica valida per tutte le persone appare una pretesa limitata e fuorviante. 

L’esperienza professionale concorre ad alimentare anche i bisogni di autostima e di autorealizzazione e consente ad ognuno di relazionarsi in sistemi sociali diversi che contribuiscono a definire ruoli ma anche status e prestigio.

Il significato personale attribuito a questi aspetti della vita lavorativa influenza il modo di sentire, di pensare e di comportarsi delle persone sia quando operano nel luogo lavorativo che al di fuori di esso.

Come possono cambiare i valori lavorativi a livello sociale?

E’ la stessa società che rimanda agli individui il valore del lavoro e questo processo riflette le caratteristiche dei diversi periodi storico-economici. Il riconoscimento sociale attribuito alle singole professioni muta anche drasticamente nel corso degli anni ed emerge negli atteggiamenti delle persone verso il lavoro.

L’impatto della pandemia da Coronavirus, ad esempio, ha fatto riscoprire a tutti i bisogni della salute, della cura, dell’alimentazione, della sicurezza e del poter essere connessi agli anche a distanza. 

Lo street artist olandese FAKE ha deciso di realizzare un ultimo lavoro, prima di chiudersi in quarantena. Un tributo al sistema sanitario mondiale e a tutti i medici che in questi giorni stanno lottando contro la pandemia.

Le professioni collegate al soddisfacimento di tali esigenze hanno così assunto una nuova dignità e un riconoscimento diverso.  

E’ cambiata la percezione rispetto al valore aggiunto che tali mestieri garantiscono. La loro utilità e la loro importanza non sono calcolabili solo in termini economici ma si basano appunto su dimensioni diverse. Il loro valore è direttamente proporzionale all’importanza del bisogno a cui risponde.

La crisi che stiamo attraversando ha sottolineato l’insostituibilità di alcuni beni e servizi e ha reso indispensabile il lavoro di chi opera per fornirli, come i medici, gli infermieri, ma anche i commessi, i trasportatori di merci e molti altri.

Le immagini di chi ha messo in gioco la propria vita per garantire la salute e la sicurezza della popolazione restano impresse nella memoria di tutti e contribuiscono ad elevare il valore delle professioni grazie alle quali si è potuto affrontare questo difficile periodo.

“Game Changer” è l’ultima opera di Banksy donata all’ospedale di Southampton in Inghilterra
ANDREW MATTHEWS – PA IMAGESGETTY IMAGES

I valori professionali sono contemporaneamente il prodotto delle interazioni con il proprio ambiente e a loro volta, la causa delle strade che si percorrono anche in termini di desiderio o di giudizio.

Conoscerli e riconoscerli permette di comprendere le scelte delle persone nei diversi momenti della vita personale e professionale.

La psicologia dei valori costituisce un argomento di riflessione e di studio tanto delicato quanto basilare, che si innesta nella vita del lavoratore e richiama l’attenzione a proposito di scelte professionali, di processi decisionali, in riferimento alle culture organizzative, e in generale rispetto ai comportamenti lavorativi.