L’identità di genere: me, myself and I

di Rosa Olga Nardelli

Il termine identità di genere indica il genere in cui una persona si identifica, ovvero se si percepisce uomo, donna o se si inserisce in qualcosa di diverso da queste due polarità: questa consapevolezza interiore porta, dunque, la persona a dire “io sono un uomo”, oppure “io sono una donna”.

L’identità di genere, come abbiamo già visto le scorse settimane, è un costrutto che non riguarda direttamente l’orientamento sessuale e non deriva dal sesso biologico: sebbene, nella maggior parte delle persone, l’identità di genere coincide con l’identità biologica di nascita, ci sono dei casi in cui, invece, non c’è corrispondenza tra i due costrutti e la persona prova malessere, disagio nella propria identità biologica.

Proviamo a spiegare e a chiarire.

L’identità di genere è un tratto di personalità che possiamo definire:

  • precoce, poiché inizia a costruirsi durante la primissima infanzia, ovvero già verso i 3/4 anni di età e prosegue per tutta la vita, fino a stabilizzarsi nel periodo post adolescenziale;
  • profondo, perché ha a che fare con qualcosa di nucleare per la persona, ovvero con una percezione di sé molto intima, difficile da spiegare e da definire con le parole;
  • duraturo, dal momento che si stabilisce presto e permane per il resto della vita della persona.

Nel corso dell’adolescenza, la definizione e la costruzione della propria identità assume un carattere fondamentale, poiché si tratta di una fase di ridefinizione del Sé e dell’immagine di Sé che si mostra agli altri e che si percepisce: in questo periodo della vita, dunque, la persona realizza un’idea di sé che assume sempre maggiore consapevolezza. E tale consapevolezza si inserisce, a sua volta, nella cultura di appartenenza e nel periodo storico a cui facciamo riferimento, dal momento che l’identità di genere è un costrutto strettamente legato al contesto in cui la persona è inserita – pensiamo, ad esempio, ai “due spiriti” della cultura dei nativi americani, agli eunuchi o ai “fa’afafine” di alcune società polinesiane, oppure alle persone definite “hijra” in India e “khawajasiras” in Pakistan.

Essere/sentirsi maschi o femmine, oggi o ieri, in questa o in un’altra cultura cambia notevolmente il significato che l’identità di genere possiede, proprio alla luce delle altre componenti dell’identità sessuale (ruolo di genere e orientamento sessuale) ed in relazione ad esse, sebbene non vadano confusi. 

Anche il corpo diventa una parte fondamentale nel processo di costruzione dell’identità, sebbene non sia esso a predeterminare né a causare le forme e i contenuti psicologici personali, le attitudini, le capacità e le possibilità della persona. Essere in un corpo e non riconoscerlo come proprio è un’esperienza che è difficile comprendere: è come indossare una scarpa destra al piede sinistro. Di per sé non è “sbagliato” – sempre di piedi e scarpe si tratta – ma camminare in quella condizione è molto scomodo, e rischia di procurare molto dolore. Per molto tempo si è detto che le persone che si identificano in un genere diverso da quello che il loro corpo dimostra soffrissero di “disturbo dell’identità di genere” e che questo fosse un disturbo mentale. Solo nel 2013 il DSM – Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association (che raccoglie tutti i disturbi mentali) ha smesso di parlare di “disturbo” ed ha usato il termine “disforia di genere”, un’espressione che si usa per indicare il disagio sperimentato da alcune persone che non si riconoscono nel sesso dei loro organi genitali: appunto, come un piede sinistro in una scarpa destra.

La disforia può avere diversi gradi e ci sono persone che non si identificano pienamente con il proprio sesso biologico (definite “transgender”), altre per le quali il disagio rispetto al proprio sesso biologico è talmente forte che sono disposte a sottoporsi a cure ormonali e operazioni chirurgiche con l’obiettivo di conformare il proprio corpo alla propria identità di genere (in questo caso si usa il termine “transessuale”).

La disforia di genere è un fenomeno complesso che, sebbene raro, ha a che fare con l’adolescenza e con la ricerca di sé tipica dell’adolescente. Da tempi immemori se ne discute, e, come abbiamo visto, è presente in molte culture, anche in quelle molto lontane dalla nostra. Per questo motivo, in un momento storico in cui si discute di leggi a tutela della persona, di prevenzione alla discriminazione e alla transfobia, ribadiamo che è importante conoscere i termini corretti e provare ad indagarne i significati, in maniera tale da capire di cosa si sta parlando e, soprattutto, da comprendere la necessità di difendere l’unicità di ogni persona.

Maschi, femmine e stereotipi di genere

di Rosa Olga Nardelli

Nel momento in cui cerchiamo di definire l’identità sessuale di una persona dobbiamo fare riferimento ad un costrutto molto complesso, che necessita prendere in considerazione quattro aspetti distinti tra loro ma imprescindibili l’uno dall’altro:

  • L’identità biologica – ovvero il sesso biologico con cui nasciamo, maschio o femmina, in termini di cromosomi e di anatomia sessuale;
  • l’identità di genere – ovvero, come ci sentiamo, la percezione di noi come a nostro agio o meno all’interno del nostro corpo. Ha a che fare con il percepirsi uomo o donna;
  • il ruolo di genere – ovvero tutti quei comportamenti che una persona adotta come manifestazione pubblica della propria identità di genere. Ha a che fare con come ci si percepisce all’interno di una società e come la società ci percepisce;
  • l’orientamento sessuale – ovvero un “modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso gli uomini, le donne o entrambi i sessi” (APA, 2008) e che ha a che fare con chi è la persona che ci piace e dalla quale siamo attratti fisicamente e mentalmente.

Come dicevamo all’inizio, le quattro componenti dell’identità sessuale sono strettamente legate tra di loro, nel senso che si influenzano a vicenda e i relativi significati, le percezioni che ne abbiamo, contribuiscono a costruire la complessità dell’identità sessuale.

Soffermiamoci oggi sul ruolo di genere

Il ruolo di genere, dunque, è un insieme di aspettative rispetto ai ruoli che uomini e donne dovrebbero avere, in considerazione del periodo storico, della zona geografica, della cultura in cui sono inseriti. Queste aspettative si traducono, a loro volta, in comportamenti che la persona mette in atto per indicare agli altri la propria identità femminile o maschile:

  • il modo di parlare e la gestualità (es. uso delle parolacce, accompagnare le parole coi gesti)
  • gli attributi fisici (es. grandezza del seno, gestione dei peli, colorare i capelli)
  • la gestione delle emozioni (es. piangere o rimanere impassibili)
  • la cura di sé (es. curare il proprio corpo o meno)
  • il modo di vestirsi (dal colore agli accessori)
  • i tratti di personalità (es. socievolezza e timidezza)
  • i giochi e gli interessi (es. bambole o macchinine; cura della casa o informatica)
  • gli sport e il tempo libero (es. danza classica o calcio)
  • professioni e mestieri (es. camionista o insegnante della scuola dell’infanzia)
  • desideri e aspettative per il futuro (es. proseguire gli studi e fare carriera o restare ad accudire la casa e la famiglia)
  • modo di fare riferimento a sé stessi.

Alla nascita ciascuno di noi ha ricevuto un fiocco rosa, se siamo femmine, o un fiocco azzurro se siamo maschi.  Questi colori non indicano soltanto il nostro sesso biologico, ma portano con sé tutte quelle aspettative a cui abbiamo appena fatto cenno, e da quel momento in poi tutto ciò che facciamo rientrerà nella dicotomia maschio vs femmina.

Fiocco rosa: “sarà una brava donnina di casa”, “quanti figli vuoi avere?”, “mi raccomando, parla bene e non usare parolacce”, “una brava ragazza sa stare al suo posto!”, “ho regalato alla mia nipotina la cucina di Barbie”, “la danza è una attività per bambine, vedrai che ti farà venire un corpo armonioso e quando diventerai grande i ragazzi ti guarderanno”, “fare la maestra è un lavoro che solo le femmine possono fare”.

Fiocco azzurro: “dai, su, non piangere, sei un maschietto!”, “beh, è un maschio, per Natale gli regalo delle macchinine e dei camion”, “le propongo questi colori maschili: blu, azzurro e navy”, “agli uomini sta bene un po’ di panzetta”, “per l’uomo che non deve chiedere mai!”, “beh, è un maschietto, è normale che non riesca a stare fermo”, “i maschi non ne capiscono nulla di come si trattano i bambini”.

Di per sé gli stereotipi legati al ruolo di genere non sono giusti o sbagliati, proprio perché fanno parte di una cultura, sono legati ad eventi storici ben precisi, sono un modo per regolare la società stessa e per “riconoscere” il ruolo di una persona all’interno di quella società. 

La questione però è un’altra: ogni qualvolta una persona non si conforma alle aspettative che la società ha costruito per lui o lei, la società stessa lo considera strano, tende a farlo sentire sbagliato rispetto ad uno stereotipo di riferimento, ad un “modello” a cui è “necessario” fare riferimento. E, possiamo aggiungere, in questo concetto c’è la base attorno a cui si costruisce il bullismo omofobico: “fai danza classica, sei una femminuccia”, “fai calcio, sei lesbica e un maschiaccio”; “quel bambino sta giocando con le bambole, sarà gay da grande”, “a quella bambina piacciono le macchinine, diventerà sicuramente lesbica”; “lei si muove proprio come un maschio”, “lui si atteggia da femmina”; “è lesbica, quindi non può avere dei figli”, “quell’educatore è gay, non voglio che stia vicino ai bambini dell’asilo”; “sei lesbica perché hai quel tono di voce”, “sono sicura che il mio parrucchiere sia gay” e via dicendo, di esempi potremmo essercene migliaia.

Gli stereotipi, nel momento in cui si trasformano in pregiudizi granitici, impediscono alla persona di scegliere, di essere quella che è, e fanno male alle femmine, tanto quanto ai maschi: una società in cui il maschio, per esser considerato tale, deve essere sempre forte, emotivamente e fisicamente, sempre un passo avanti, sempre in grado di gestire la situazione, deve raggiungere sempre i massimi livelli, e dove la femmina deve essere sempre un passo indietro, deve sentirsi chiedere quando vuole dei figli (e non SE), deve mantenere un ruolo dimesso, corre il rischio di impantanarsi in questi modelli e di perdere di vista la sensibilità e la ricchezza che maschi e femmine, indistintamente, possiedono.

11 ottobre, Coming out day

di Rosa Olga Nardelli

“Come si fa a dirlo: non avrei conosciuto mio figlio”

“Occorre piangere e studiare”

“Ha permesso a me, genitore, di conoscere una parte del mondo di cui non conoscevo proprio l’esistenza”

In occasione dell’11 ottobre – Coming Out Day prendiamo in prestito le parole dei genitori che fanno parte dell’Associazione AGEDO (Associazione GEnitori Di Omosessuali – www.agedo.roma.it) per ricordare l’importanza del coming out: un atto di amore nei confronti di sé stessi e delle persone che ci amano.

Ma perché proprio l’11 ottobre?

Il primo Coming Out Day si è tenuto per la prima volta nel 1988 negli USA, su suggerimento di uno psicologo e di un attivista LGBT, con l’obiettivo di aumentare e rafforzare la coscienza e la consapevolezza all’interno della comunità LGBT. La data scelta, l’11 ottobre, ricorda la marcia per i diritti di gay e lesbiche, svoltasi a Washington l’anno precedente.

Ma chi me lo fa fare?

di Diego Fratus*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo con questo articolo e quello di martedì 16 giugno ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Ripercorrere dopo così tanti anni i corridoi delle mie scuole medie mi ha fatto uno strano effetto: mi è sembrato tutto così piccolo, dai corridoi alle classi, persino l’aula magna stessa; probabilmente perché sono passati più di dieci anni e, forse, anche perché sono molto diverso dal ragazzino che li frequentava a quel tempo.

Sono ormai più di cinque anni che frequento nuovamente le aule con il progetto “A Scuola Per Conoscerci” come volontario, portando la mia storia e la mia esperienza di omosessuale dichiarato a ragazzi che di “mondo gay” hanno in mente solo i personaggi della TV; e in mezzo a un sacco di domande, sia semplici che complicate, ce n’è una che quasi sempre mi viene fatta: “Perché sei qua?” oppure “Perché fai il volontario?”, e se vogliamo “Perché scrivo questo articolo?”. Una domanda semplice che richiede una risposta lunga perché essa racchiude sia il passato che, volendo, il futuro.

Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri (Internet non era diffuso come ora) e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me.

In un certo senso l’essere un ragazzo sempre attaccato al computer e, quando divenne possibile, sempre connesso online, mi aiutò, perché mi permise, grazie alla protezione di uno schermo, di aprirmi sentendomi al sicuro con un gruppo di persone che consideravo quasi una famiglia alternativa e mi fece conoscere il primo ragazzo apertamente gay che capì come mi sentissi e, a modo suo, mi guidò verso l’accettarmi.

Questa esperienza mi diede coraggio e decisi di fare coming out con alcuni compagni di classe, cosa che andò bene e in seguito, mi dichiarai anche coi miei genitori. Anche con mia madre andò bene e anzi, il nostro rapporto migliorò ulteriormente, mentre con mio padre, col quale avevo già un rapporto instabile, ci fu un momento di scontro per poi semplicemente non parlarne più.

Qua c’è un primo indizio sul perché sono attivista: nessuno dovrebbe sentirsi solo, abbandonato, isolato dal mondo, per l’essere semplicemente se stesso, per una parte importante di se stessi, che ricordiamo è scientificamente provato sia naturale.

Lo sono diventato con l’obiettivo di poter aiutare qualcuno, anche un solo ragazzo a sentirsi “normale”, accettato da chi lo circonda, conscio ci sia qualcuno che lo capisca e sia pronto a supportarlo nel suo percorso; ma ancor di più per sensibilizzare chi sta attorno a quel ragazzo a stargli vicino, perché le più grandi soddisfazioni me le hanno date le persone che più avevo paura potessero rifiutarmi, quando mi hanno accettato dandomi una pacca sulla spalla dicendomi “E quindi? Qual è il problema?”

Quando iniziai ad uscire dalla mia bolla online mi resi conto che i luoghi (sicuri) per conoscere qualcuno erano pochi, difficilmente raggiungibili e/o non adatti al chiacchierare, e poi, timido com’ero, era impossibile spingermi a muovermi da solo. Così mi addentrai nel magico mondo delle app per incontri, tristemente il mezzo principale per noi per conoscere altre persone. Qui conobbi altri ragazzi omosessuali, mi feci delle nuove amicizie, e incontrai il mio primo moroso che non stesse a chilometri di distanza.

Questo racchiude un altro indizio. Siamo portati a pensare la vita affettiva sia una parte piccola della nostra persona ma, in realtà, è enorme: conoscere altri ragazzi gay è parecchio complicato, principalmente perché siamo in pochi a essere a nostro agio a vivere la nostra sessualità alla luce del sole; i locali sono pochi e non è raro ci siano casi di bullismo e/o aggressioni, oltre ovviamente all’esposizione pubblica.

A quel punto un ragazzo giovane cosa fa? Si rivolge ai siti e alle app, con i loro ovvi difetti e limiti, dati dal filtro di uno schermo o dall’assenza di empatia.

Nel 2016 andai al mio primo Pride a Treviso e, nonostante avessi un’idea di cosa fosse e una conoscenza teorica di cosa significasse, soprattutto storicamente, in realtà solo una volta in mezzo ne ho capito il reale contenuto. In un periodo in cui ancora non ero del tutto sicuro di me stesso, in cui non mi sentivo sicuro della mia sessualità camminando per strada da solo, mi sono sentito al sicuro.

Ero in mezzo a persone che mi capivano, in mezzo a persone che condividevano un percorso simile al mio, e soprattutto, a persone che mi, che ci, supportavano: omo ed etero, uomini e donne, giovani e anziani, single e famiglie, tutti per ricordare al mondo che siamo tutte persone uguali e meritevoli dello stesso rispetto e degli stessi diritti. Che ognuno dovrebbe poter camminare per le strade di qualsiasi città tenendo per mano chiunque si voglia. Quella sensazione di sicurezza che dovrebbe essere presente sempre.

Arriviamo così al mio reale inizio come attivista, ossia quando mi fu proposto di partecipare come volontario al progetto scuole. Mentalmente ripercorsi la storia che vi ho brevemente raccontato e accettai, senza davvero sapere a cosa andavo incontro, pensando non sarei durato perché, beh, non sempre sono bravo a parlare di me.

E invece è stata, ed è tutt’ora, una delle migliori esperienze io abbia mai fatto. Ero convinto che il mio contributo non sarebbe servito, che mi sarei trovato davanti a classi disinteressate, un po’ come quelle assemblee che facevo io in aula magna dove l’unico pensiero era “Quando suona la campanella?”.

Invece ho, quasi sempre, trovato ragazzi che mi hanno ripetutamente stupito per la loro curiosità e profondità, che non mi sarei aspettato da ragazzi così giovani. Soprattutto mi sono stupito di me stesso, di come io mi sia trovato a rianalizzare pezzi della mia vita che credevo ormai chiari, per poterli raccontare. Il trovarmi davanti a ragazzi onestamente curiosi di capire le mie ragioni, il perché fossi lì, mi ha messo davanti a domande che non mi ero fatto o alle quali non avevo ancora dato una risposta.

In definitiva, “Chi me lo fa fare?”

Me lo fa fare il ragazzino che alle elementari si sentiva solo al mondo.
Me lo fa fare l’adolescente, quello che fingeva gli piacessero le ragazze, e che nascondeva al mondo un’intera fetta del proprio essere, anche alle persone a lui vicine.

Me lo fa fare l’adulto che vede attorno a se una situazione che, nonostante sia migliorata molto, può ancora migliorare.

E scrivere questo articolo mi ha portato a pormi una domanda: “Chi è per me un attivista?”.
La prima immagine che potrebbe venire in mente è probabilmente la piazza piena di manifestanti, magari a chi conosce un po’ la storia viene in mente la nascita del movimento di attivismo LGBT a Stonewall, eppure io credo che ora abbia assunto un “sapore” diverso la parola.

Le piazze sono ancora necessarie ma serve altrettanto che le piccole cose non siano più fatte nell’ombra. “Che lo facciano a casa loro!”: questa frase rappresenta quello che deve essere apertamente combattuto. Siamo attivisti quando abbracciamo un amico senza quella paura del “magari ci vedono e pensano male”, quando teniamo per mano un amico o il partner per le strade di un paesino, quando su una panchina appoggiamo la nostra testa sulla sua spalla o quando condividiamo un panino per poi darci un bacio fugace, col sorriso sulle labbra.

Possiamo essere tutti attivisti, gay o etero, rendendo “normale” l’amare chiunque si voglia amare. Rendiamo il mondo un po’ più colorato, e che “l’arcobaleno sia sempre con voi”!

*Mi chiamo Diego, prendo tutto così seriamente da non far altro che scherzarci sopra. Metallaro, food lover, nerd quanto basta, un pizzico di ipocondria e una vagonata di ansia. A modo mio provo a capire il mondo e cerco sempre una strada per, magari, renderlo un po’ più bello. Ma in fondo c’è già la pizza, può esserlo di più?

L’omofobia non va in quarantena

di Rosa Olga Nardelli

Succede che arriva il Coronavirus e che siamo tutti in lockdown forzato per giorni.

Succede che i giorni di quarantena si trasformano in settimane, e poi in mesi. 

Succede che le scuole sono chiuse e si resta tutti in casa, adulti e ragazzi, non si può uscire.

Ma cosa succede se la casa, il luogo più sicuro del mondo per un adolescente, finisce per essere un luogo di angherie? Se la propria famiglia, le persone più care al mondo, finiscono per essere i propri aguzzini?

Questa riflessione parte da un dato: nelle ultime settimane c’è stato un boom di richieste di aiuto da parte di adolescenti LGBT alle chat amiche o agli sportelli di ascolto: sono centinaia i ragazzi e le ragazze che hanno denunciato anonimamente soprusi e violenze alle associazioni del territorio che si occupano di questi temi. L’orco è in casa, il suo alleato principale è il silenzio e sopravvivere negando la propria identità, col passare dei giorni, diventa sempre più difficile.

Il fenomeno delle violenze omofobiche all’interno del proprio nucleo familiare è precedente alla quarantena, anche perché il contesto familiare, assieme a quello scolastico, è sempre stato segnalato come uno dei contesti principali di violenza verso le persone LGBT. La convivenza forzata, però, ha visto un aggravarsi del problema e un esacerbarsi degli episodi di violenza.

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La prima forma di violenza riguarda proprio la negazione della propria identità.

Accade spesso che i ragazzi, dopo aver fatto coming out e aver ricevuto un sonoro ceffone (reale o verbale che sia), decidano di ritrattare le proprie affermazioni, o di dire di essersi sbagliati, di aver agito sull’onda delle emozioni ma “no, non è vero che sono lesbica, Vittoria è solo una mia amica”. Questo genere di violenza, subdola e pervasiva, ha un impatto grave sulla salute degli adolescenti LGBT, perché li priva di qualcosa di fondamentale: la fiducia. La fiducia nei confronti delle persone care, di coloro che li hanno cresciuti e ai quali si sono affidati per questioni piccole e grandi della vita. Una fiducia che successivamente è difficile da ripristinare, poiché resta la paura che quello sguardo ricevuto – d’odio, di delusione o di sofferenza che sia – possa ripresentarsi e trasformarsi in qualcosa di ancora più crudele, più spietato, sicuramente più intollerabile.

Un’altra forma di violenza sono le punizioni.

Nel momento in cui una persona LGBT inizia ad esprimere sé stessa, la propria sensibilità, le proprie preferenze sessuali, le punizioni più comuni riguardano restrizioni e le proibizioni: non chattare con alcuni amici, non guardare certe serie, non frequentare determinati siti. Naturalmente, spesso la minaccia di confisca di dispositivi, tablet e cellulari è accompagnata anche dai ricatti, che possono essere di natura economica (nella misura in cui la persona dipende economicamente dai genitori) e affettiva (“mi hai deluso”, “non parlo con te”, “non dirlo alla nonna sennò ne muore”).

Obiettivo da parte della famiglia è quello di controllare e di evitare che queste “distrazioni” possano incidere sulle condotte dei ragazzi e delle ragazze, invitandoli prepotentemente a non avere contatti con l’esterno. Anche in questo caso, l’impatto è deflagrante e porta direttamente verso l’isolamento e la solitudine. Tutti noi, di fronte all’obbligo di rispettare i decreti governativi e la quarantena, abbiamo avvertito la necessità di tenerci in contatto con le persone a noi care, amici e conoscenti, che ci alleviano lo stress di restare a casa e di veder ridurre le nostre attività lavorative e ricreative. E’ fondamentale per ognuno rimanere collegati e avere la certezza di trovare supporto nei momenti di sconforto, di non essere soli, di condividere i propri pensieri con gli altri. Ecco, tutto questo per un adolescente LGBT non è scontato, anzi diventa qualcosa a cui può solo anelare e, non riuscendo ad alleviare questa solitudine, diventa fonte di grande sofferenza.

Infine, la forma di violenza più tangibile ed identificabile, la violenza fisica, che può manifestarsi in svariate forme: dallo schiaffo al pestaggio vero e proprio, dalla violenza sessuale a scopo correttivo alle torture (una delle forme più diffuse, che si manifesta spesso con l’obbligo di terapie riparative o con l’esorcismo), dal tentativo di omicidio all’istigazione al suicidio. E tutto questo non è per nulla facile da denunciare, se si vive a stretto contatto con coloro che perpetrano tali forme di violenza.

Spesso gli adolescenti LGBT arrivano ad acconsentire e permettere che queste brutalità accadano, vuoi per una forma di omofobia interiorizzata che li porta a sentirsi in dovere di espiare delle colpe, vuoi per la paura che queste conseguenze siano peggiori della situazione di partenza. Ci sono vari fattori che portano un ragazzo o una ragazza a non denunciare, tutti governati proprio dalla paura: di mettere in pericolo sé stessi o altri membri della propria famiglia (magari un fratello che li sostiene) o altre persone (ad esempio un amico con cui si sono confidati); di mettere a repentaglio la stabilità e il clima familiare; di essere sbattuti fuori di casa; di essere rinnegati, derisi o non creduti dagli altri (familiari, funzionari di polizia, amici, etc.); di vedere la necessità di intraprendere vie legali economicamente impegnative. In sostanza, la paura di perdere tutto, o quantomeno una parte di sé e della propria identità.

Per far fronte a questi problemi, le associazioni di volontariato hanno fatto fronte comune e hanno rinforzato la rete delle chat amiche o degli sportelli di ascolto, allo scopo di aiutare quegli adolescenti che decidono di chiedere aiuto. Ci sono alcuni aspetti che è fondamentale sottolineare rispetto alle chat e agli sportelli:

  • garantiscono rigorosamente l’anonimato di coloro che li contattano;
  • sono sostenuti da personale qualificato – psicologi, educatori, avvocati, assistenti sociali – che, spesso in forma di volontariato, forniscono aiuto telefonico e pratico;
  • forniscono uno spazio neutrale di ascolto aperto e privo di giudizio;
  • prevedono la presenza di qualcuno che ci è già passato attraverso quell’inferno, adolescenti di un tempo e adulti di oggi che, più o meno a fatica, sono in grado di raccontare che da quelle situazioni si può uscire.

È fondamentale per tutti combattere il senso di spaesamento e di solitudine che questa pandemia mondiale ha portato con sé, coltivando i legami e le relazioni, appoggiandosi a chi ci è vicino, facendo riferimento ai nostri cari. E questo deve essere ancora più valido per coloro che sono considerate categorie fragili, delicate, come gli adolescenti in generale e, nello specifico, i giovani LGBT in difficoltà.

Il bullismo omofobico

di Rosa Olga Nardelli

Questo articolo è l’ideale prosecuzione dell’articolo “L’identità sessuale”.

Sempre più spesso si sente parlare di bullismo, di omofobia, di intolleranza ma il più delle volte lo consideriamo come qualcosa di assolutamente distante da noi o qualcosa che non ci riguarda; in realtà è qualcosa che ci riguarda sempre o, comunque, che ci prende in causa o come diretti interessati o come coloro che assistono o ne hanno una diretta azione.

Per definizione, il bullismo omofobico comprende tutti gli atti di prepotenza e abuso (offese verbali, discriminazioni, minacce e aggressioni verbali e fisiche) che si fondano sull’omofobia, rivolti a persone percepite come omosessuali, bisessuali o atipiche rispetto al ruolo di genere. Il bullismo omo-bi-transfobico colpisce ogni persona che venga percepita o rappresentata come “fuori” dai modelli di genere normativi. Il bullismo omo-bi-transfobico tocca principalmente l’identità di genere e il ruolo di genere.

Può presentarsi sotto diverse forme. La più frequente è quella verbale: insultare qualcuno chiamandolo “ricchione”, “frocio”, “checca”; prendere in giro per atteggiamenti ritenuti troppo effemminati (per un maschio) o troppo mascolini (per una ragazza); fare telefonate di scherno o insulti; minacciare. È diffusa anche una forma fisica di bullismo: aggressioni di diversa entità (spintoni, pugni, calci); danni ai suoi oggetti personali; umiliazioni fisiche a sfondo sessuale, che possono sfociare anche in violenze sessuali di gruppo.

Queste forme dirette di bullismo sono piuttosto semplici da individuare (sebbene la vergogna che l’adolescente prova può già portarlo a nasconderne i segni); vi sono però delle forme meno dirette, meno esplicite (forma psicologica): escludere qualcuno da un gruppo, isolarlo; farlo sentire a disagio; diffondere pettegolezzi rispetto la sua condotta sessuale o il suo orientamento (es. scritte sui muri o sulla lavagna, bigliettini, etc.); cyber-bullismo (es. mandare foto o sms inappropriati a qualcuno, creare un blog o una pagina facebook di scherno.

Cosa rende specifico il bullismo omofobico?

  • Difficoltà a chiedere aiuto agli adulti (con vissuti di ansia e vergogna);
  • difficoltà di sostegno e protezione tra i pari (“se difendo il mio amico o se dico di essere un suo amico, anch’io verrò considerato omosessuale”);
  • coinvolgimento diretto o indiretto di insegnanti e genitori con possibili pregiudizi derivanti da un clima di omofobia diffuso in un dato contesto (es. atteggiamenti di sottostima delle difficoltà, negazione dell’accaduto, atteggiamento espulsivo di allontanamento, propositi di cura);
  • appoggio della società, alimentato dal clima di omofobia;
  • effetti negativi sull’identità stessa della persona poiché va ad intaccare il sé psicologico e sessuale.

Quali possono essere gli effetti emotivi e comportamentali del bullismo omofobico?

  • Scarsa autostima;
  • ritiro ed isolamento sociale;
  • assenteismo e ritiro scolastico, con conseguenze sulla prestazione scolastica;
  • uso di sostanze e/o comportamenti sessuali a rischio;
  • problemi di salute mentale (disturbi d’ansia, depressione, autolesionismo, suicidio).

Anche un “semplice” insulto omofobo, come “frocio”, “lesbica”, etc. che avviene davanti ad un insegnante che non interviene può mettere in moto un pericoloso circolo vizioso: da un lato l’adolescente si sente ferito per l’insulto e potenzialmente esposto ad altri atti di bullismo, ma soprattutto sperimenta un senso di abbandono da parte delle istituzioni che dovrebbero tutelarlo; dall’altro lato, i bulli si sentiranno ancora legittimati nei loro comportamenti poiché rimasti impuniti.

L’identità sessuale

di Rosa Olga Nardelli

Questo articolo è l’ideale premessa per l’articolo “Il bullismo omofobico”.

L’identità sessuale costituisce un tassello fondamentale della propria identità, al pari, per esempio, della professione, del luogo in cui si vive, delle proprie origini, ecc… Nel definire una persona, nel definire noi stessi, chi siamo, non possiamo prescindere anche dalla nostra identità sessuale.

Da un punto di vista scientifico, l’identità sessuale è un costrutto multidimensionale, cioè è costituito da più aspetti:

  • L’identità biologica, ovvero il sesso biologico di un individuo, definito al momento del concepimento.
  • L’identità di genere, ovvero come io mi rapporto a me stesso. È la personale percezione di sentirsi appartenere al genere maschile o al genere femminile. Nella maggior parte delle persone l’identità di genere coincide con l’identità biologica; nei casi di disforia di genere, invece, non c’è corrispondenza tra il sesso biologico e l’identità di genere e la persona prova disagio e malessere nella propria identità biologica.
  • Il ruolo di genere, ovvero come io mi rapporto alla società e come la società si rapporta a me. È la manifestazione pubblica dell’identità di genere, ed è costituita da tutte le credenze ed aspettative inerenti a ciò che viene considerato adeguato per una femmina e per un maschio. Il ruolo di genere è strettamente collegato al contesto sociale, culturale, storico-geografico in cui una persona si muove.
  • L’orientamento sessuale, ovvero come mi rapporto ad un’altra persona. Si definisce orientamento sessuale un modello stabile di attrazione emotiva, romantica e/o sessuale verso un’altra persona; a seconda del sesso biologico dell’altro avremo tre orientamenti sessuali: eterosessuale, bisessuale, omosessuale (American Psychological Association, 2008). È una caratteristica propria dell’individuo che si esprime nella relazione con l’altro ed è connessa ai bisogni di sicurezza e sociali quali i bisogni di amore, affetto ed intimità.

La definizione di identità sessuale apre una riflessione sulle dinamiche sociali e culturali che riguardano il corpo e la sfera dell’affettività. Il genere e, di conseguenza, ciò che significa “essere uomo” e “essere donna” viene costruito socialmente e culturalmente in un dato tempo e in un determinato spazio, quindi, come tale, assume significati diversi a seconda del contesto. Nella vita quotidiana gesti e azioni avvengono in un quadro normativo rigido che produce i corpi sessuati ed esclude la devianza dalla norma. La cultura occidentale è costruita intorno ad un modello definito “eteronormativo” della relazione tra i generi, in una logica binaria che regola rigidamente le aspettative e tutto ciò che si ritiene adeguato per i maschi e per le femmine rispetto ai comportamenti, alle scelte, al corpo, alla sessualità e alla riproduzione.

Questo modello possiamo considerarlo alla base tanto del sessismo quanto dell’omofobia, atteggiamenti entrambi che concorrono a legittimare e giustificare la violenza. Inoltre, questa premessa ci è utile anche per capire le radici del bullismo omofobico e il motivo per il quale è necessario prevenirlo e arginarlo.