E da quel giorno decisi che non avrei mai più avuto paura

di Giacomo Deperu*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo oggi e martedì ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Il terrore. A questo penso quando ricordo gli anni della mia adolescenza. Scoprire il mondo significava nascondermi dal mondo; solo pochi, lunghissimi anni dopo lessi “Il processo” di Kafka e riuscii a dare una collocazione a ciò che mi era accaduto.

Come molti omosessuali, anch’io ho imparato di essere “finocchio” dalle battute dei compagni a scuola, dagli sguardi dei ragazzi al bar in osteria. Dagli atteggiamenti colpevoli di tanti adulti.
Non sapevo ancora cosa fosse la sessualità ma già sapevo che l’omosessualità, la mia omosessualità, era il male.

Terrorizzato, perché le prese in giro, le aggressioni verbali del gruppo dei bulli, specialmente in quell’incubo con le ruote che era la corriera del ritorno dopo scuola, temevo mi esponessero all’umiliazione di dover rivelare la mia omosessualità alla mia famiglia. Che successivamente, una volta imposta, accetterà abbastanza bene la mia omosessualità, ma solo quando tutto il percorso di elaborazione ed accettazione era ormai avvenuto nel più completo abbandono. In anni dolorosissimi.

Erano gli anni ‘80, Boy George mi aveva affascinato dalla copertina del 45 giri “Do you really want to hurt me?”
Molti di voi si staranno chiedendo: cos’è un 45 giri? E questo mi fa sentire vecchio. Ma sentivo che io e Boy George eravamo “di famiglia”: quale lo capii solo dopo. Ed era la famiglia dei diseredati, non dei “culattoni”.

Avevo appena 14 anni quando, in cucina con mia mamma e mio fratello, diedero alla radio la notizia che un virus uccideva gli omosessuali. Mia madre ci disse di fare silenzio per ascoltare meglio la notizia e, simulando indifferenza, cominciai a morire dentro. “Morirò” pensai, perché sono omosessuale. Ero talmente ingenuo che le dinamiche sessuali legate al contagio mi sfuggivano totalmente e non bastava perciò la mia verginità a farmi star tranquillo. Non c’era Google al quale fare domande in segreto, non c’era Grindr sul quale fare due chiacchiere e quattro scopate. “Morirò” pensavo, e così scopriranno che sono “finocchio”: l’outing concepito peggio della morte. Sembrava non esserci fine al terrore kafkiano.

Nella compagnia di amici del paese lo avevano capito tutti che ero gay. Fra di loro sono sicuro però che non usassero termini così eleganti per descrivermi.
Il paese se non ti ammazza ti adotta e questa forse è stata l’unica fortuna. Ma non esisteva internet, non avevo contatto col cosiddetto “mondo gay” che non sapevo nemmeno esistesse: al mondo, ne ero certo, omosessuali eravamo solo io e Renato Zero! Immaginatevi lo stupore quando quest’ultimo negò di esserlo: rimanevo solo io…

Riuscii a limonare qualche ragazza di tanto in tanto, quel po’ che bastava a darmi una parvenza eterosessuale per stare in società. Ma crescendo, sapevo che mi attendeva l’incubo di dover affrontare il rapporto sessuale con una donna: non ci sarei mai riuscito, ne ero certo. E quel giorno mi sarei ammazzato per la vergogna.
“Quel giorno” divenni abile a spostarlo sempre più in là e, fortunatamente per me, sfortunatamente per i miei amici etero, le occasioni in paese non erano poi molte.

Avrei proseguito la mia vita così, credo. O forse sarei davvero arrivato a porvi fine tragicamente. Ma un giorno, due sconsiderate ragazze lesbiche venute dalla città, spinte da chissà quale folle idea di poter fare soldi nell’osteria di un minuscolo paese, rilevarono il più famoso dei bar vicino casa. Ovviamente, i loro amici pordenonesi, molti dei quali gay e lesbiche, presero l’abitudine di venirle a trovare e io, con la scusa di arrotondare qualche spicciolo la sera, mi ritrovai a lavorare in quello che ai miei occhi appariva come un “bar gay” a duecento metri da casa in un paese di 800 anime! Incredibile: la montagna che andava da Maometto. E la mia vita cambiò.

Appena maggiorenne non resistetti alla corte di un bellissimo vicino di casa, trentenne (all’epoca mi sembrava così adulto, oggi potrei avere un figlio di 30 anni…) che tutte le sere veniva a bere il caffè al bar: una sera volle mostrarmi i suoi gatti a casa… oggi gli darei un pugno sul naso solo per la banalità della scusa, eppure mi innamorai come una pera cotta e fu il mio primo bacio ad un uomo. Niente altro che un bacio, che cambiò la mia vita.
La mattina successiva, da solo nel mio letto, aprii gli occhi e li richiusi subito come a cercare dentro di me il turbamento per “quell’atto immondo” compiuto la sera prima: avevo baciato un maschio. Ma dentro di me trovai solo pace.

E da quel giorno decisi che non avrei mai più avuto paura.

Tanto che quando mia madre, vedendomi dalla finestra di casa scendere dall’auto del mio moroso in piena notte, mi attese arrabbiata in cucina e cominciò ad attaccarmi io, con una calma che non sapevo di avere, la fermai e le dissi: “Io ci ho messo anni ad accettare me stesso da solo ed ora sto bene. Se adesso tu ci stai male, è un problema solo tuo e te lo devi risolvere tu”. E andai a dormire. Non si permise mai più di usare quel tono con me.

Poi l’amore del bel trentenne finì presto, imparai le delusioni che tutti provano, forse però senza la palestra di un’adolescenza passata a nascondermi invece che a sperimentare affettività e sessualità. Altri uomini passavano nella mia vita ed uno in particolare mi volle davvero tanto bene. Un mentore per me, si prese cura della mia inettitudine al mondo e mi insegnò a vivere. E a scopare anche, lo facevamo spesso e volentieri, io inesperto ma nel pieno dei miei vent’anni, con l’entusiasmo di chi aveva scoperto un giocattolo nuovo. E lo si faceva, senza preservativo, tanto quel virus che anni prima avevo sentito che uccideva i gay e che adesso aveva un nome, e aveva ucciso Freddie Mercury, era roba da Londra o New York. O Philadelphia. Cosa rischiavo io, ragazzino di periferia?

Fu così che nel sapere che questo importante compagno di tante avventure, all’improvviso, stava morendo di AIDS senza che io avessi mai saputo nulla della sua sieropositività, arrivò una doccia fredda. Avevo davvero rischiato molto ma non gliene ho mai fatto una colpa: eravamo entrambi vittime dell’ignoranza, della paura, dell’abbandono a noi stessi al quale ci condannava questa società. Eravamo diseredati e perciò lui era la mia famiglia. Come Boy George. E a 25 anni dalla sua morte, lo ricordo ancora con immenso affetto e gratitudine.

Nel 1995 sentii parlare del primo “Gay Pride” a Bologna: sentivo che era un evento storico e che non potevo mancare! Soprattutto mosso dagli ormoni e dall’idea dei tanti ragazzi che avrei potuto incontrare, lo ammetto. Ma la sera al Cassero, sede dell’Arcigay bolognese all’epoca ancora nella medievale Porta Saragozza, mentre attendevamo che iniziasse la festa, assistetti ad un dibattito dove questo donnone biondo e riccioluto diceva cose che, parola dopo parola, mi aprivano la testa per ficcarci dentro cose nuove e visioni innovative: seppi poco dopo che era Marcella Di Folco, presidente del Movimento Identità Transessuale e prima donna transessuale al mondo a ricoprire una carica pubblica (consigliera al Comune di Bologna). Quel simbolo di intelligenza e coraggio mi incantò e ancora oggi penso che la sua voce e le sue idee furono forse la mia prima, vera esperienza politica e da attivista. 

Fu poi nel 1996 che incontrai un compaesano che conoscevo solo di vista. Coetanei, elementari e medie nella stessa scuola, ricordavo di averlo visto verso gli 8 anni a ricreazione in cortile e di aver pensato, per la prima volta in vita mia di un altro maschio: “Che bello che è!”.
Ci conoscemmo però in una discoteca gay a Vicenza! Lui, bellissimo e padre di una splendida bimba di 3 anni, credo mi scelse più per disperazione che per il mio fascino. Ma fu così che mi regalò un’esperienza di vita che ci ha visti crescere insieme per 21 anni fino al 2017.

E insieme, nel 2010, posammo per la campagna contro l’omofobia “Civiltà prodotto tipico friulano”: io e lui ci scambiavamo un semplice bacio seduti ad una tavola imbandita, fra vino, prosciutto di San Daniele e Montasio. Un bacio che rivendicava la nostra esistenza alla luce del sole, probabilmente il primo bacio omosessuale in una campagna pubblica nella storia d’Italia. I due manifesti (c’era anche la versione al femminile) scatenarono lo scandalo ma costrinsero, famiglia per famiglia, a discutere del tema dell’omosessualità in ogni casa della nostra regione. Cambiandola per sempre.
Quelle immagini, pubblicate su ogni rivista e quotidiano italiano, vennero in seguito citate come una delle migliori campagne contro l’omofobia per la rivista Wired, richieste dall’Università della California per una pubblicazione universitaria, esposte in una mostra sui temi lgbt in Polonia ed utilizzate per settimane come immagine profilo di tantissimi utenti Facebook in tutta Italia e anche in giro per l’Europa.

Quel ragazzino spaventato aveva definitivamente sconfitto il terrore della sua adolescenza e, a testa alta, si mostrava orgoglioso negli stessi luoghi che lo avevano tanto discriminato.

*Giacomo Deperu, sardo-carnico, nato a Tolmezzo (UD) nel 1969 e dal 1975 cresciuto a Spilimbergo (Pn), vive oggi a Pordenone ed è titolare dello STUDIODEPERU – Grafica e comunicazione a Fiume Veneto (Pn).
Per anni attivista in Arcigay Friuli, ha ricoperto in associazione la carica di vicepresidente prima e presidente poi, dal 2009 al 2015 e di Consigliere nazionale Arcigay dal 2011 al 2015.

L’omofobia non va in quarantena

di Rosa Olga Nardelli

Succede che arriva il Coronavirus e che siamo tutti in lockdown forzato per giorni.

Succede che i giorni di quarantena si trasformano in settimane, e poi in mesi. 

Succede che le scuole sono chiuse e si resta tutti in casa, adulti e ragazzi, non si può uscire.

Ma cosa succede se la casa, il luogo più sicuro del mondo per un adolescente, finisce per essere un luogo di angherie? Se la propria famiglia, le persone più care al mondo, finiscono per essere i propri aguzzini?

Questa riflessione parte da un dato: nelle ultime settimane c’è stato un boom di richieste di aiuto da parte di adolescenti LGBT alle chat amiche o agli sportelli di ascolto: sono centinaia i ragazzi e le ragazze che hanno denunciato anonimamente soprusi e violenze alle associazioni del territorio che si occupano di questi temi. L’orco è in casa, il suo alleato principale è il silenzio e sopravvivere negando la propria identità, col passare dei giorni, diventa sempre più difficile.

Il fenomeno delle violenze omofobiche all’interno del proprio nucleo familiare è precedente alla quarantena, anche perché il contesto familiare, assieme a quello scolastico, è sempre stato segnalato come uno dei contesti principali di violenza verso le persone LGBT. La convivenza forzata, però, ha visto un aggravarsi del problema e un esacerbarsi degli episodi di violenza.

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La prima forma di violenza riguarda proprio la negazione della propria identità.

Accade spesso che i ragazzi, dopo aver fatto coming out e aver ricevuto un sonoro ceffone (reale o verbale che sia), decidano di ritrattare le proprie affermazioni, o di dire di essersi sbagliati, di aver agito sull’onda delle emozioni ma “no, non è vero che sono lesbica, Vittoria è solo una mia amica”. Questo genere di violenza, subdola e pervasiva, ha un impatto grave sulla salute degli adolescenti LGBT, perché li priva di qualcosa di fondamentale: la fiducia. La fiducia nei confronti delle persone care, di coloro che li hanno cresciuti e ai quali si sono affidati per questioni piccole e grandi della vita. Una fiducia che successivamente è difficile da ripristinare, poiché resta la paura che quello sguardo ricevuto – d’odio, di delusione o di sofferenza che sia – possa ripresentarsi e trasformarsi in qualcosa di ancora più crudele, più spietato, sicuramente più intollerabile.

Un’altra forma di violenza sono le punizioni.

Nel momento in cui una persona LGBT inizia ad esprimere sé stessa, la propria sensibilità, le proprie preferenze sessuali, le punizioni più comuni riguardano restrizioni e le proibizioni: non chattare con alcuni amici, non guardare certe serie, non frequentare determinati siti. Naturalmente, spesso la minaccia di confisca di dispositivi, tablet e cellulari è accompagnata anche dai ricatti, che possono essere di natura economica (nella misura in cui la persona dipende economicamente dai genitori) e affettiva (“mi hai deluso”, “non parlo con te”, “non dirlo alla nonna sennò ne muore”).

Obiettivo da parte della famiglia è quello di controllare e di evitare che queste “distrazioni” possano incidere sulle condotte dei ragazzi e delle ragazze, invitandoli prepotentemente a non avere contatti con l’esterno. Anche in questo caso, l’impatto è deflagrante e porta direttamente verso l’isolamento e la solitudine. Tutti noi, di fronte all’obbligo di rispettare i decreti governativi e la quarantena, abbiamo avvertito la necessità di tenerci in contatto con le persone a noi care, amici e conoscenti, che ci alleviano lo stress di restare a casa e di veder ridurre le nostre attività lavorative e ricreative. E’ fondamentale per ognuno rimanere collegati e avere la certezza di trovare supporto nei momenti di sconforto, di non essere soli, di condividere i propri pensieri con gli altri. Ecco, tutto questo per un adolescente LGBT non è scontato, anzi diventa qualcosa a cui può solo anelare e, non riuscendo ad alleviare questa solitudine, diventa fonte di grande sofferenza.

Infine, la forma di violenza più tangibile ed identificabile, la violenza fisica, che può manifestarsi in svariate forme: dallo schiaffo al pestaggio vero e proprio, dalla violenza sessuale a scopo correttivo alle torture (una delle forme più diffuse, che si manifesta spesso con l’obbligo di terapie riparative o con l’esorcismo), dal tentativo di omicidio all’istigazione al suicidio. E tutto questo non è per nulla facile da denunciare, se si vive a stretto contatto con coloro che perpetrano tali forme di violenza.

Spesso gli adolescenti LGBT arrivano ad acconsentire e permettere che queste brutalità accadano, vuoi per una forma di omofobia interiorizzata che li porta a sentirsi in dovere di espiare delle colpe, vuoi per la paura che queste conseguenze siano peggiori della situazione di partenza. Ci sono vari fattori che portano un ragazzo o una ragazza a non denunciare, tutti governati proprio dalla paura: di mettere in pericolo sé stessi o altri membri della propria famiglia (magari un fratello che li sostiene) o altre persone (ad esempio un amico con cui si sono confidati); di mettere a repentaglio la stabilità e il clima familiare; di essere sbattuti fuori di casa; di essere rinnegati, derisi o non creduti dagli altri (familiari, funzionari di polizia, amici, etc.); di vedere la necessità di intraprendere vie legali economicamente impegnative. In sostanza, la paura di perdere tutto, o quantomeno una parte di sé e della propria identità.

Per far fronte a questi problemi, le associazioni di volontariato hanno fatto fronte comune e hanno rinforzato la rete delle chat amiche o degli sportelli di ascolto, allo scopo di aiutare quegli adolescenti che decidono di chiedere aiuto. Ci sono alcuni aspetti che è fondamentale sottolineare rispetto alle chat e agli sportelli:

  • garantiscono rigorosamente l’anonimato di coloro che li contattano;
  • sono sostenuti da personale qualificato – psicologi, educatori, avvocati, assistenti sociali – che, spesso in forma di volontariato, forniscono aiuto telefonico e pratico;
  • forniscono uno spazio neutrale di ascolto aperto e privo di giudizio;
  • prevedono la presenza di qualcuno che ci è già passato attraverso quell’inferno, adolescenti di un tempo e adulti di oggi che, più o meno a fatica, sono in grado di raccontare che da quelle situazioni si può uscire.

È fondamentale per tutti combattere il senso di spaesamento e di solitudine che questa pandemia mondiale ha portato con sé, coltivando i legami e le relazioni, appoggiandosi a chi ci è vicino, facendo riferimento ai nostri cari. E questo deve essere ancora più valido per coloro che sono considerate categorie fragili, delicate, come gli adolescenti in generale e, nello specifico, i giovani LGBT in difficoltà.