Homoworld

di Rosa Olga Nardelli

Ti svegli col suono della radiosveglia che dedica canzoni a coppie dello stesso sesso. Non appena ti siedi per fare colazione, il tuo sguardo cade sulla scatola dei cereali che raffigura i benefici delle vitamine e dei minerali contenuti attraverso una famiglia che corre in un campo di grano: due padri, il loro figlio e un setter irlandese. Accendi la televisione e trovi una trasmissione in cui parlano dei nuovi ritrovati cosmetici per le drag queen.

Esci per andare a lavoro, incroci alcuni vicini che ti salutano: Melissa e Iris e più avanti Giovanni e Michele. Non appena sali sulla metro, guardi la pubblicità che hai intorno per passare il tempo: la più conveniente assicurazione di viaggio per le coppie omosessuali, la pubblicità del reggiseno: “Fatevi avanti, ragazze”.

Alla fermata successiva sale un uomo e qualcosa ti fa sospettare che anche lui sia eterosessuale. Lui incrocia il tuo sguardo e ti fa un sorriso come segno di averti riconosciuto. Tu pensi: “Allora sei anche tu etero, ma forse nessun altro qui lo ha notato”! Ridi tra te e te e ti diverti dell’esclusività del contatto.

Arrivi a lavoro, una tizia dell’amministrazione sta mostrando delle fotografie delle vacanze che ha appena fatto con la sua fidanzata a Lesbo. Non appena ti avvicini al gruppo, ti viene chiesto: “Dove hai trascorso le tue ultime vacanze?”. Tu ammetti che eri a Corfù, una destinazione ben nota per le vacanze eterosessuali, e ti chiedono con chi ci sei stata. Alla fine della giornata, le persone vanno per un drink al gay bar più vicino. Alcuni portano i rispettivi partner. Tu inviteresti il tuo, sapendo che potrebbero esserci in giro dei colleghi? Colleghi di cui non conosci le opinioni sull’eterosessualità. Oppure vai per un paio d’ore e poi vai via? Senza davvero altre valide alternative, decidi di andare dritta a casa. Non appena prendi la decisione, ti arriva un sms del tuo fidanzato che dice di incontrarvi alla fermata della metro sotto casa, visto che anche lui sta rientrando. Tu sorridi e un collega che non conosci bene cattura il tuo sguardo e ti dice: “È un messaggio della tua ragazza? Come si chiama?”. Che fai? Menti o dici di essere troppo impegnata per una relazione? Ti chiedi quale sarebbe la loro risposta se uscissi allo scoperto: accettazione completa; totale mancanza di interesse e cambio di argomento a causa dell’imbarazzo; oppure potrebbero immaginare che adesso hanno la facoltà di farti delle domande personali visto che “alcuni dei loro migliori amici sono eterosessuali” e anche loro sono stati in un bar per etero e non hanno alcun problema, tipo: “Quindi da quando sai di essere etero?” “Che peccato, non avrei mai detto fossi etero” “I tuoi genitori lo sanno?” “Il sesso è meglio?”

Alla fine raggiungi la fermata della metro di fronte casa e, come promesso, il tuo fidanzato è lì che ti aspetta. Senti un senso di sollievo nel vederlo e realizzi quanto sei stanca. Ma lo accogli baciandolo davanti a tutte le persone che ci sono intorno? Non appena ti incammini verso casa e percorri una strada tranquilla, cominciate a prendervi per mano, contenti del contatto. All’improvviso, un gruppo di giovani gira l’angolo e voi li lasciate passare. Avranno visto che vi tenevate per mano? Andranno a dire qualcosa in giro per deridervi? O peggio ancora, potrebbe degenerare in violenza? Subito affrettate il passo, arrivate dietro la porta di casa e ve la chiudete alle spalle insieme a un senso di sicurezza.

Decidete di ordinare una pizza. Il tuo compagno è in cucina quando suona il campanello e non realizza che tu hai già aperto. Ti dice che va lui ad aprire e tu noti che l’uomo della pizza sta cercando di nascondere una risata alla vista del tuo fidanzato che entra nell’ingresso dietro di te.

Vi sedete sul divano e accendete la TV. Niente incontra il vostro gusto:

Rai 1: il film “Quando Giovanni incontra Enrico”. 

Rai 2: una rassegna della versione contemporanea di Romeo e Dario.

Rai 3: i video più divertenti sui matrimoni omosessuali.

Canale 5: il Grande Fratello, con la puntata in cui il concorrente etero esce allo scoperto.

Italia 1: il miglior sesso gay. 

Decidi allora di sfogliare una copia dell’unico giornale per etero che ti sei ricordata di prendere l’ultima volta che sei stata in centro, visto che non puoi prenderlo nel tuo quartiere. Resti sorpresa dalla notizia di una manifestazione di baci dopo che a una coppia etero era stato chiesto di lasciare la sala d’attesa dell’aeroporto a seguito di una manifestazione pubblica di affetto.

Comunque, resti delusa quando leggi che la legge 29 ancora una volta non è stata votata dal parlamento, nel timore che, qualora le relazioni etero venissero riconosciute almeno nelle scuole, potrebbero portare le giovani adolescenti a voler sperimentare uomini più grandi, o i ragazzi donne più grandi. “Questo paese ha bisogno di mantenere alti i valori omosessuali che lo fortificano”.

Decidi di non leggere più il giornale e prendi il libro che hai appena comprato con tanto entusiasmo perché il protagonista era etero. Alla fine, scopri che il personaggio era una mediocre rappresentazione di tutti i clichès eterosessuali.

La fine di un altro giorno nell’Homoworld.

Homoworld è un testo ideato da Butler nel 2004, è la storia di una persona eterosessuale che vive in un mondo dove la maggioranza della gente è omosessuale. 

Tratto da “Educare alla diversità a scuola – scuola secondaria di primo e di secondo grado”, opuscoli tratti dal progetto omonimo, destinato alle scuole di ogni ordine e grado. Commissionati all’Istituto A. T. Beck –Terapia cognitivo-comportamentale di Roma da parte dell’UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali.

11 ottobre, Coming out day

di Rosa Olga Nardelli

“Come si fa a dirlo: non avrei conosciuto mio figlio”

“Occorre piangere e studiare”

“Ha permesso a me, genitore, di conoscere una parte del mondo di cui non conoscevo proprio l’esistenza”

In occasione dell’11 ottobre – Coming Out Day prendiamo in prestito le parole dei genitori che fanno parte dell’Associazione AGEDO (Associazione GEnitori Di Omosessuali – www.agedo.roma.it) per ricordare l’importanza del coming out: un atto di amore nei confronti di sé stessi e delle persone che ci amano.

Ma perché proprio l’11 ottobre?

Il primo Coming Out Day si è tenuto per la prima volta nel 1988 negli USA, su suggerimento di uno psicologo e di un attivista LGBT, con l’obiettivo di aumentare e rafforzare la coscienza e la consapevolezza all’interno della comunità LGBT. La data scelta, l’11 ottobre, ricorda la marcia per i diritti di gay e lesbiche, svoltasi a Washington l’anno precedente.

Coming out o outing?

di Rosa Olga Nardelli

Nei giornali, nei social, in tv sentiamo sempre più spesso parlare di omosessualità e bisessualità: si discute di diritti civili (vedere le recenti discussioni in Parlamento sulla legge Zan contro l’omofobia) e di matrimonio egualitario, in un clima più o meno civile e da parte di persone più o meno esperte; ci sono libri, film e serie tv che affrontano l’argomento (solo per fare degli esempi: il libro appena uscito “Caccia all’omo” di Simone Alliva, il film premio Oscar “Chiamami col tuo nome” (tratto dall’omonimo libro di André Aciman), la seguitissima webserie “Skam”); ci sono i progetti nelle scuola che parlano di prevenzione al bullismo omofobico; tanti personaggi pubblici hanno dichiarato la propria omosessualità e bisessualità (vedi ad esempio l‘articolo da noi pubblicato).

Se ne parla molto di più che in passato, fortunatamente, ma non sempre si conosce veramente l’argomento, tanto che spesso se ne parla in maniera poco appropriata, mescolando i termini e i significati.

In particolare, ci soffermiamo oggi su due parole che vengono spesso confuse e il cui uso non è sempre corretto, poiché fanno riferimento a due costrutti molto diversi: coming out e outing.

Il termine coming out è la contrazione di coming out of the closet, letteralmente uscire dal ripostiglio, dall’armadio, ovvero uscire allo scoperto: nel mondo LGBT l’espressione coming out significa dichiarare volontariamente al mondo il proprio orientamento, vuol dire prendersi la responsabilità di dire agli altri di essere omosessuale, bisessuale o – udite, udite – eterosessuale. Ebbene sì: anche dichiarare il proprio orientamento eterosessuale è fare coming out, ma nel nostro articolo ci concentreremo sul coming out di una persona omosessuale o bisessuale.

L’omosessualità – e la bisessualità – viene definita dagli studiosi come uno stigma nascondibile, nel senso che è la persona stessa a decidere se rivelare o meno il proprio orientamento, a differenza, ad esempio, del colore della pelle: questo, se da un lato consente un atteggiamento protettivo nei propri confronti (es. se sento di essere in pericolo, posso decidere di non rivelare il mio orientamento), dall’altro crea una situazione di continua negoziazione sociale e la persona vive continuamente la questione della visibilità. “Lo dico? Non lo dico? A chi lo dico? Come lo dico? A chi posso dirlo? Come la prenderà? Mi rifiuteranno?”, in un vortice di domande automatiche e di velocissime considerazioni, ci si trova a cercare di anticipare le conseguenze di ciò che si sta per dire, a cercare di frugare nelle reazioni altrui, probabilmente con un velo di preoccupazione addosso. In sostanza, il coming out è un processo continuo, che non ha mai fine, lo si fa coi genitori e alle riunioni di famiglia, con gli amici e coi compagni di classe, sul luogo di lavoro, in albergo e quando si prenotano i posti per congiunti ad un concerto, con l’agente immobiliare, quando si racconta delle proprie vacanze o di un incidente in casa: la risposta ad una domanda all’apparenza banale (“dove sei stato questo weekend?”) può diventare un momento critico, in cui è necessario decidere cosa raccontare di sé e della propria vita. Per questo motivo, il continuo affollarsi di queste domande in testa viene definito rumore bianco, ovvero uno stress sempre presente, un’ansia anticipatoria collegata a minority stress (vedi l’articolo sull’omofobia interiorizzata).

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Se guardiamo l’altro lato della medaglia, però, possiamo definire il coming out come un atto di amore nei confronti di sé stessi, perché in questo modo non lasciamo che il giudizio degli altri condizioni il nostro giudizio su di noi, perché l’omofobia interiorizzata non ci renda prigionieri di noi stessi, perché possiamo avere sempre meno paura di dire: io sono lesbica, sono gay, sono bisessuale.

Tutt’altro discorso va fatto per l’outing.

L’outing è la rivelazione pubblica dell’omosessualità/bisessualità da parte di terzi senza il consenso della persona interessata; il termine proviene da out, traduzione dell’avverbio fuori, nel senso di buttar fuori dall’armadio e venne coniato dal Time a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90. In Italiano spesso il termine outing viene impropriamente confuso con coming out, ma si tratta di una confusione piuttosto grave, dal momento che possiamo definire l’outing come una vera e propria forma di bullismo omofobico.

L’outing dell’omosessualità (o bisessualità) di una persona viene fatto, solitamente, senza che lei ne sia consenziente o contro la sua volontà, diventando, di fatto, una violenza: tale esposizione può rivelarsi potenzialmente pericolosa, poiché quella persona non vuole o non è in grado di affrontare le conseguenze, oltre a rappresentare una violazione delle sue decisioni.

Coming out e outing sono due atti molto potenti ma, dal momento che l’orientamento sessuale è una dimensione nucleare dell’individuo, hanno strettamente a che fare con la dimensione di consapevolezza.

Facciamo un esempio, inerente il contesto scolastico: un ragazzo può decidere di fare coming out, di dichiararsi omosessuale, per varie ragioni (es. affermare la propria identità, come atto di coraggio, per condividere le proprie esperienze coi pari, etc.) e in tal caso si assume, consapevolmente, la responsabilità delle sue azioni e del suo gesto, che a volte può essere anche liberatorio. Diverso è se subisce outing da parte dei compagni: in questo caso, quel ragazzo può, ad esempio, non essere pronto a dirlo agli altri, può aver paura di essere preso in giro o che la notizia arrivi agli insegnanti e alla propria famiglia, può essere in difficoltà con il proprio orientamento e, di conseguenza, sentirsi confuso, può sentire gli occhi puntati addosso come un “sei sbagliato”, e così via. 

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Se diciamo che sono le parole a dare forma al pensiero, non possiamo ignorare la differenza sostanziale che esiste tra coming out e outing. Questo è il motivo per cui utilizzare un linguaggio corretto e adeguato, con consapevolezza dei significati che le parole hanno e delle implicazioni che portano con sé, è sempre un’ottima idea. Per lo stesso motivo, inoltre, è importante incoraggiare il coming out dei ragazzi ed evitare accuratamente l’outing, poiché anche quello fatto più “in buona fede” e con le migliori intenzioni, può diventare un boomerang e rivelarsi una pessima idea.

Diamo spazio ai ragazzi, rispettiamo i loro tempi e le loro modalità, diamogli il rispetto che meritano in quanto artefici della loro vita e delle loro scelte: solo in questo modo favoriremo l’autenticità della comunicazione e la condivisione vera degli affetti, diventando alleati e non nemici.

E se siamo delle persone LGBT che vogliono fare coming out? Ecco cosa possiamo fare:

  • prendiamoci tempo e spazio per conoscerci, per informarci, per capirci e ascoltarci meglio;
  • prepariamoci a varie reazioni, non tutto va come nei film, nel bene e nel male: i nostri amici o famigliari possono sorprenderci accogliendoci e ascoltandoci, oppure possono avere reazioni aggressive. Consideriamo sempre che, magari, anche loro hanno paura di ciò che sta accadendo o che non hanno gli strumenti per far fronte a questa rivelazione;
  • cerchiamo, eventualmente, sostegno: che sia di un amico o di un esperto o di una associazione, che sia un supporto o un semplice consiglio, parlarne con qualcuno è sempre un’utile soluzione.

Tiziano, Michael, Ellen: l’importanza di essere visibili

di Rosa Olga Nardelli

Tiziano è un ragazzo di Latina, vive la sua adolescenza a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90. Ha una vita normale: famiglia semplice – mamma casalinga, papà geometra, un fratello più piccolo – e una tastiera Bontempi regalatagli per Natale. Deve fare i conti con la bulimia, tanto da arrivare a pesare 111 kg, e con i compagni che lo prendono in giro per questo. Ne esce grazie alla musica e imparando a suonare pianoforte, chitarra classica, batteria, intanto studia canto e canta in un coro gospel.

Michael nasce nel 1983 a Beirut, in Libano, e ad un anno di vita si trasferisce a Parigi a causa della guerra civile per approdare, infine, a Londra più o meno quando ha 9 anni. Col tempo impara a parlare inglese, francese, italiano, poi cinese, spagnolo e arabo, È figlio di una famiglia agiata, frequenta i migliori college, si destreggia tra la musica – compone canzoni sin da piccolo, spaziando dall’opera alla musica leggera – e la dislessia, che lo fa penare a scuola. 

Storie banali, sembrerebbe, con in comune la passione per la musica che li solleva da ciò che li rende “diversi” agli occhi degli altri, ovvero la bulimia e la dislessia. 

Eppure hanno ancora qualcosa che li lega: oggi sono due superstar internazionali della musica pop, Tiziano Ferro e Michael Holbrook Penniman Jr., in arte Mika

Poi c’è Ellen, canadese, figlia di un graphic designer e di una insegnante. Deve frequentare tre scuole diverse prima di diplomarsi nel 2005. È vegana, atea e si definisce una femminista. Comincia a recitare in piccoli ruoli a 11 anni, si fa prendere tantissimo da questa passione, fino a farne un lavoro vero e proprio. Diventa una star internazionale con X-Men e con Juno, per poi impegnarsi anche come attivista: parliamo dell’attrice Ellen Page.

In comune con Tiziano e Michael ha l’orientamento sessuale: sono tutti e tre omosessuali. E sono famosissimi tra gli adolescenti di tutto il mondo.

Che importanza ha, per un ragazzino o una ragazzina della periferia d’Italia, sapere che queste superstar, lontane anni luce da lui/lei, sono omosessuali? La risposta è fin troppo semplice, quasi banale: sono personaggi famosi e visibili e fanno sentire quel ragazzino e quella ragazzina meno soli.

Il vissuto di un adolescente che sta scoprendo la propria omosessualità, spesso, è quello di sentirsi l’unico al mondo: “in una fase in cui gli adolescenti imparano a socializzare, gli adolescenti omosessuali e bisessuali imparano a nascondersi” (Herek, 2016).

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Questa solitudine l’abbiamo letta nella testimonianza di Diego: “Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me”. Lo abbiamo sentito da Giacomo: “al mondo, ne ero certo, omosessuali eravamo solo io e Renato Zero! Immaginatevi lo stupore quando quest’ultimo negò di esserlo: rimanevo solo io…”. E proprio alle parole di Giacomo ci affidiamo per comprendere lo stato d’animo che un adolescente si porta dietro: non importa se si è adolescenti nel 2020 o nel 1980, non importa se si vive a Londra, a Latina o a Spilimbergo: se “uno famoso” nega la propria omosessualità la solitudine che quella ragazzina o quel ragazzino provano è dirompente e disarmante. Giacomo lo definisce “il terrore”.

Conosciamo ormai le conseguenze a cui questa solitudine può portare, ma forse è il caso di soffermarsi sui benefici della visibilità di persone famose come Mika, Tiziano Ferro ed Ellen Page, ma anche di persone comuni come Diego e Giacomo.

Il coming out di un personaggio famoso contribuisce a normalizzare il costrutto di omosessualità nella rappresentazione della società. Non bastano le storie di fantasia lette nei romanzi o viste nei film; gli adolescenti hanno bisogno di persone vere, vogliono specchiarsi nei loro volti e riconoscersi nelle loro storie, hanno bisogno di raccontarsi che le persone con orientamento omosessuale esistono e vivono nel loro stesso mondo. Tanto meglio se poi, a raccontare la propria storia di coming out, ci sono anche le persone che li circondano: Giacomo che fa il grafico, Diego che lavora come operaio, l’insegnante di inglese, l’allenatore di rugby, la propria pediatra, l’elettricista che ha aggiustato il frigo, l’imprenditrice per la quale lavora il papà, la parrucchiera dietro casa, il libraio, il programmatore che ha sistemato il pc, la direttrice della banda della scuola, Il campione dell’Eredità, il commesso del negozio di scarpe, l’avvocata che sta parlando in TV, e via dicendo.

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Il concetto di visibilità, dunque, diventa un concetto molto importante, poiché è il risultato del processo di accettazione di sé (coming out) che permette ad una persona omosessuale (o bisessuale) di vivere la propria identità alla luce del sole. Ha a che fare con il sentirsi liberi di dire cose che, in altro modo, sarebbero difficili da dire, per esempio di essere andati al cinema con il proprio fidanzato, o raccontare di aver fatto delle splendide vacanze a Parigi con la propria compagna. E ha anche a che fare con la possibilità di denunciare episodi spiacevoli: ad esempio di venire costantemente prese in giro a scuola per essersi prese per mano in classe, o di essere stati aggrediti per aver partecipato ad un Pride ed avere un arcobaleno disegnato sulla maglietta.

Quindi, cosa possiamo fare? Possiamo raccontare le storie di coming out ai ragazzi. Facciamogli conoscere i tanti Ellen, Diego e Michael in tutti i campi, non solo in quello della musica o dello spettacolo. Tante persone, donne e uomini, che vivono una vita “banale” (con le dovute virgolette, nell’accezione di “quotidiana, comune”) e che sono più vicine di ciò che si pensa.

Raccontiamo agli adolescenti di storie belle e brutte, di coming out lisci come l’olio e di rivelazioni che hanno sfasciato intere famiglie; di vite vissute alla luce del sole e di altre che hanno dovuto affrontare continui pregiudizi e discriminazioni sul lavoro e nel privato, di storie a lieto fine e di altre conclusesi tristemente. Raccontiamogli del suicidio del “ragazzo coi pantaloni rosa”, che è arrivato a tanto perché non ne poteva più di essere offeso e deriso a scuola; diciamo loro che ci sono educatori che, poiché dichiaratamente omosessuali, hanno dovuto abbandonare il loro lavoro pur avendo studiato anni per svolgerlo perché alcuni genitori non li volevano accanto ai propri figli; ma raccontiamo loro anche di coloro che si sono presi carico della storia propria ed altrui e sono diventati attivisti, impegnandosi ogni giorno nelle battaglie per i diritti, e poi parliamo loro di quel dirigente scolastico che non ha cancellato la scritta “preside gay” sui muri della scuola dove lavora, perché per lui essere gay non è un’offesa e perché voleva lasciare un insegnamento ai suoi studenti.

Passiamo loro il messaggio che l’orientamento sessuale è una caratteristica dell’individuo, come il colore marrone degli occhi, il saper risolvere i problemi matematici, il fatto di odiare i peperoni, la passione per la Nutella invece che per la marmellata, o la predilezione per stendere i calzini accoppiati per colore invece che sparpagliati sullo stendino.

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Ma chi me lo fa fare?

di Diego Fratus*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo con questo articolo e quello di martedì 16 giugno ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Ripercorrere dopo così tanti anni i corridoi delle mie scuole medie mi ha fatto uno strano effetto: mi è sembrato tutto così piccolo, dai corridoi alle classi, persino l’aula magna stessa; probabilmente perché sono passati più di dieci anni e, forse, anche perché sono molto diverso dal ragazzino che li frequentava a quel tempo.

Sono ormai più di cinque anni che frequento nuovamente le aule con il progetto “A Scuola Per Conoscerci” come volontario, portando la mia storia e la mia esperienza di omosessuale dichiarato a ragazzi che di “mondo gay” hanno in mente solo i personaggi della TV; e in mezzo a un sacco di domande, sia semplici che complicate, ce n’è una che quasi sempre mi viene fatta: “Perché sei qua?” oppure “Perché fai il volontario?”, e se vogliamo “Perché scrivo questo articolo?”. Una domanda semplice che richiede una risposta lunga perché essa racchiude sia il passato che, volendo, il futuro.

Ho sempre saputo di essere gay, eppure per anni l’ho negato a me stesso, perché mi faceva sentire diverso dagli altri attorno a me. Mi credevo l’unico al mondo, l’unico in chissà quanti chilometri (Internet non era diffuso come ora) e mi chiedevo costantemente perché dovesse capitare proprio a me.

In un certo senso l’essere un ragazzo sempre attaccato al computer e, quando divenne possibile, sempre connesso online, mi aiutò, perché mi permise, grazie alla protezione di uno schermo, di aprirmi sentendomi al sicuro con un gruppo di persone che consideravo quasi una famiglia alternativa e mi fece conoscere il primo ragazzo apertamente gay che capì come mi sentissi e, a modo suo, mi guidò verso l’accettarmi.

Questa esperienza mi diede coraggio e decisi di fare coming out con alcuni compagni di classe, cosa che andò bene e in seguito, mi dichiarai anche coi miei genitori. Anche con mia madre andò bene e anzi, il nostro rapporto migliorò ulteriormente, mentre con mio padre, col quale avevo già un rapporto instabile, ci fu un momento di scontro per poi semplicemente non parlarne più.

Qua c’è un primo indizio sul perché sono attivista: nessuno dovrebbe sentirsi solo, abbandonato, isolato dal mondo, per l’essere semplicemente se stesso, per una parte importante di se stessi, che ricordiamo è scientificamente provato sia naturale.

Lo sono diventato con l’obiettivo di poter aiutare qualcuno, anche un solo ragazzo a sentirsi “normale”, accettato da chi lo circonda, conscio ci sia qualcuno che lo capisca e sia pronto a supportarlo nel suo percorso; ma ancor di più per sensibilizzare chi sta attorno a quel ragazzo a stargli vicino, perché le più grandi soddisfazioni me le hanno date le persone che più avevo paura potessero rifiutarmi, quando mi hanno accettato dandomi una pacca sulla spalla dicendomi “E quindi? Qual è il problema?”

Quando iniziai ad uscire dalla mia bolla online mi resi conto che i luoghi (sicuri) per conoscere qualcuno erano pochi, difficilmente raggiungibili e/o non adatti al chiacchierare, e poi, timido com’ero, era impossibile spingermi a muovermi da solo. Così mi addentrai nel magico mondo delle app per incontri, tristemente il mezzo principale per noi per conoscere altre persone. Qui conobbi altri ragazzi omosessuali, mi feci delle nuove amicizie, e incontrai il mio primo moroso che non stesse a chilometri di distanza.

Questo racchiude un altro indizio. Siamo portati a pensare la vita affettiva sia una parte piccola della nostra persona ma, in realtà, è enorme: conoscere altri ragazzi gay è parecchio complicato, principalmente perché siamo in pochi a essere a nostro agio a vivere la nostra sessualità alla luce del sole; i locali sono pochi e non è raro ci siano casi di bullismo e/o aggressioni, oltre ovviamente all’esposizione pubblica.

A quel punto un ragazzo giovane cosa fa? Si rivolge ai siti e alle app, con i loro ovvi difetti e limiti, dati dal filtro di uno schermo o dall’assenza di empatia.

Nel 2016 andai al mio primo Pride a Treviso e, nonostante avessi un’idea di cosa fosse e una conoscenza teorica di cosa significasse, soprattutto storicamente, in realtà solo una volta in mezzo ne ho capito il reale contenuto. In un periodo in cui ancora non ero del tutto sicuro di me stesso, in cui non mi sentivo sicuro della mia sessualità camminando per strada da solo, mi sono sentito al sicuro.

Ero in mezzo a persone che mi capivano, in mezzo a persone che condividevano un percorso simile al mio, e soprattutto, a persone che mi, che ci, supportavano: omo ed etero, uomini e donne, giovani e anziani, single e famiglie, tutti per ricordare al mondo che siamo tutte persone uguali e meritevoli dello stesso rispetto e degli stessi diritti. Che ognuno dovrebbe poter camminare per le strade di qualsiasi città tenendo per mano chiunque si voglia. Quella sensazione di sicurezza che dovrebbe essere presente sempre.

Arriviamo così al mio reale inizio come attivista, ossia quando mi fu proposto di partecipare come volontario al progetto scuole. Mentalmente ripercorsi la storia che vi ho brevemente raccontato e accettai, senza davvero sapere a cosa andavo incontro, pensando non sarei durato perché, beh, non sempre sono bravo a parlare di me.

E invece è stata, ed è tutt’ora, una delle migliori esperienze io abbia mai fatto. Ero convinto che il mio contributo non sarebbe servito, che mi sarei trovato davanti a classi disinteressate, un po’ come quelle assemblee che facevo io in aula magna dove l’unico pensiero era “Quando suona la campanella?”.

Invece ho, quasi sempre, trovato ragazzi che mi hanno ripetutamente stupito per la loro curiosità e profondità, che non mi sarei aspettato da ragazzi così giovani. Soprattutto mi sono stupito di me stesso, di come io mi sia trovato a rianalizzare pezzi della mia vita che credevo ormai chiari, per poterli raccontare. Il trovarmi davanti a ragazzi onestamente curiosi di capire le mie ragioni, il perché fossi lì, mi ha messo davanti a domande che non mi ero fatto o alle quali non avevo ancora dato una risposta.

In definitiva, “Chi me lo fa fare?”

Me lo fa fare il ragazzino che alle elementari si sentiva solo al mondo.
Me lo fa fare l’adolescente, quello che fingeva gli piacessero le ragazze, e che nascondeva al mondo un’intera fetta del proprio essere, anche alle persone a lui vicine.

Me lo fa fare l’adulto che vede attorno a se una situazione che, nonostante sia migliorata molto, può ancora migliorare.

E scrivere questo articolo mi ha portato a pormi una domanda: “Chi è per me un attivista?”.
La prima immagine che potrebbe venire in mente è probabilmente la piazza piena di manifestanti, magari a chi conosce un po’ la storia viene in mente la nascita del movimento di attivismo LGBT a Stonewall, eppure io credo che ora abbia assunto un “sapore” diverso la parola.

Le piazze sono ancora necessarie ma serve altrettanto che le piccole cose non siano più fatte nell’ombra. “Che lo facciano a casa loro!”: questa frase rappresenta quello che deve essere apertamente combattuto. Siamo attivisti quando abbracciamo un amico senza quella paura del “magari ci vedono e pensano male”, quando teniamo per mano un amico o il partner per le strade di un paesino, quando su una panchina appoggiamo la nostra testa sulla sua spalla o quando condividiamo un panino per poi darci un bacio fugace, col sorriso sulle labbra.

Possiamo essere tutti attivisti, gay o etero, rendendo “normale” l’amare chiunque si voglia amare. Rendiamo il mondo un po’ più colorato, e che “l’arcobaleno sia sempre con voi”!

*Mi chiamo Diego, prendo tutto così seriamente da non far altro che scherzarci sopra. Metallaro, food lover, nerd quanto basta, un pizzico di ipocondria e una vagonata di ansia. A modo mio provo a capire il mondo e cerco sempre una strada per, magari, renderlo un po’ più bello. Ma in fondo c’è già la pizza, può esserlo di più?

E da quel giorno decisi che non avrei mai più avuto paura

di Giacomo Deperu*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo oggi e martedì ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Il terrore. A questo penso quando ricordo gli anni della mia adolescenza. Scoprire il mondo significava nascondermi dal mondo; solo pochi, lunghissimi anni dopo lessi “Il processo” di Kafka e riuscii a dare una collocazione a ciò che mi era accaduto.

Come molti omosessuali, anch’io ho imparato di essere “finocchio” dalle battute dei compagni a scuola, dagli sguardi dei ragazzi al bar in osteria. Dagli atteggiamenti colpevoli di tanti adulti.
Non sapevo ancora cosa fosse la sessualità ma già sapevo che l’omosessualità, la mia omosessualità, era il male.

Terrorizzato, perché le prese in giro, le aggressioni verbali del gruppo dei bulli, specialmente in quell’incubo con le ruote che era la corriera del ritorno dopo scuola, temevo mi esponessero all’umiliazione di dover rivelare la mia omosessualità alla mia famiglia. Che successivamente, una volta imposta, accetterà abbastanza bene la mia omosessualità, ma solo quando tutto il percorso di elaborazione ed accettazione era ormai avvenuto nel più completo abbandono. In anni dolorosissimi.

Erano gli anni ‘80, Boy George mi aveva affascinato dalla copertina del 45 giri “Do you really want to hurt me?”
Molti di voi si staranno chiedendo: cos’è un 45 giri? E questo mi fa sentire vecchio. Ma sentivo che io e Boy George eravamo “di famiglia”: quale lo capii solo dopo. Ed era la famiglia dei diseredati, non dei “culattoni”.

Avevo appena 14 anni quando, in cucina con mia mamma e mio fratello, diedero alla radio la notizia che un virus uccideva gli omosessuali. Mia madre ci disse di fare silenzio per ascoltare meglio la notizia e, simulando indifferenza, cominciai a morire dentro. “Morirò” pensai, perché sono omosessuale. Ero talmente ingenuo che le dinamiche sessuali legate al contagio mi sfuggivano totalmente e non bastava perciò la mia verginità a farmi star tranquillo. Non c’era Google al quale fare domande in segreto, non c’era Grindr sul quale fare due chiacchiere e quattro scopate. “Morirò” pensavo, e così scopriranno che sono “finocchio”: l’outing concepito peggio della morte. Sembrava non esserci fine al terrore kafkiano.

Nella compagnia di amici del paese lo avevano capito tutti che ero gay. Fra di loro sono sicuro però che non usassero termini così eleganti per descrivermi.
Il paese se non ti ammazza ti adotta e questa forse è stata l’unica fortuna. Ma non esisteva internet, non avevo contatto col cosiddetto “mondo gay” che non sapevo nemmeno esistesse: al mondo, ne ero certo, omosessuali eravamo solo io e Renato Zero! Immaginatevi lo stupore quando quest’ultimo negò di esserlo: rimanevo solo io…

Riuscii a limonare qualche ragazza di tanto in tanto, quel po’ che bastava a darmi una parvenza eterosessuale per stare in società. Ma crescendo, sapevo che mi attendeva l’incubo di dover affrontare il rapporto sessuale con una donna: non ci sarei mai riuscito, ne ero certo. E quel giorno mi sarei ammazzato per la vergogna.
“Quel giorno” divenni abile a spostarlo sempre più in là e, fortunatamente per me, sfortunatamente per i miei amici etero, le occasioni in paese non erano poi molte.

Avrei proseguito la mia vita così, credo. O forse sarei davvero arrivato a porvi fine tragicamente. Ma un giorno, due sconsiderate ragazze lesbiche venute dalla città, spinte da chissà quale folle idea di poter fare soldi nell’osteria di un minuscolo paese, rilevarono il più famoso dei bar vicino casa. Ovviamente, i loro amici pordenonesi, molti dei quali gay e lesbiche, presero l’abitudine di venirle a trovare e io, con la scusa di arrotondare qualche spicciolo la sera, mi ritrovai a lavorare in quello che ai miei occhi appariva come un “bar gay” a duecento metri da casa in un paese di 800 anime! Incredibile: la montagna che andava da Maometto. E la mia vita cambiò.

Appena maggiorenne non resistetti alla corte di un bellissimo vicino di casa, trentenne (all’epoca mi sembrava così adulto, oggi potrei avere un figlio di 30 anni…) che tutte le sere veniva a bere il caffè al bar: una sera volle mostrarmi i suoi gatti a casa… oggi gli darei un pugno sul naso solo per la banalità della scusa, eppure mi innamorai come una pera cotta e fu il mio primo bacio ad un uomo. Niente altro che un bacio, che cambiò la mia vita.
La mattina successiva, da solo nel mio letto, aprii gli occhi e li richiusi subito come a cercare dentro di me il turbamento per “quell’atto immondo” compiuto la sera prima: avevo baciato un maschio. Ma dentro di me trovai solo pace.

E da quel giorno decisi che non avrei mai più avuto paura.

Tanto che quando mia madre, vedendomi dalla finestra di casa scendere dall’auto del mio moroso in piena notte, mi attese arrabbiata in cucina e cominciò ad attaccarmi io, con una calma che non sapevo di avere, la fermai e le dissi: “Io ci ho messo anni ad accettare me stesso da solo ed ora sto bene. Se adesso tu ci stai male, è un problema solo tuo e te lo devi risolvere tu”. E andai a dormire. Non si permise mai più di usare quel tono con me.

Poi l’amore del bel trentenne finì presto, imparai le delusioni che tutti provano, forse però senza la palestra di un’adolescenza passata a nascondermi invece che a sperimentare affettività e sessualità. Altri uomini passavano nella mia vita ed uno in particolare mi volle davvero tanto bene. Un mentore per me, si prese cura della mia inettitudine al mondo e mi insegnò a vivere. E a scopare anche, lo facevamo spesso e volentieri, io inesperto ma nel pieno dei miei vent’anni, con l’entusiasmo di chi aveva scoperto un giocattolo nuovo. E lo si faceva, senza preservativo, tanto quel virus che anni prima avevo sentito che uccideva i gay e che adesso aveva un nome, e aveva ucciso Freddie Mercury, era roba da Londra o New York. O Philadelphia. Cosa rischiavo io, ragazzino di periferia?

Fu così che nel sapere che questo importante compagno di tante avventure, all’improvviso, stava morendo di AIDS senza che io avessi mai saputo nulla della sua sieropositività, arrivò una doccia fredda. Avevo davvero rischiato molto ma non gliene ho mai fatto una colpa: eravamo entrambi vittime dell’ignoranza, della paura, dell’abbandono a noi stessi al quale ci condannava questa società. Eravamo diseredati e perciò lui era la mia famiglia. Come Boy George. E a 25 anni dalla sua morte, lo ricordo ancora con immenso affetto e gratitudine.

Nel 1995 sentii parlare del primo “Gay Pride” a Bologna: sentivo che era un evento storico e che non potevo mancare! Soprattutto mosso dagli ormoni e dall’idea dei tanti ragazzi che avrei potuto incontrare, lo ammetto. Ma la sera al Cassero, sede dell’Arcigay bolognese all’epoca ancora nella medievale Porta Saragozza, mentre attendevamo che iniziasse la festa, assistetti ad un dibattito dove questo donnone biondo e riccioluto diceva cose che, parola dopo parola, mi aprivano la testa per ficcarci dentro cose nuove e visioni innovative: seppi poco dopo che era Marcella Di Folco, presidente del Movimento Identità Transessuale e prima donna transessuale al mondo a ricoprire una carica pubblica (consigliera al Comune di Bologna). Quel simbolo di intelligenza e coraggio mi incantò e ancora oggi penso che la sua voce e le sue idee furono forse la mia prima, vera esperienza politica e da attivista. 

Fu poi nel 1996 che incontrai un compaesano che conoscevo solo di vista. Coetanei, elementari e medie nella stessa scuola, ricordavo di averlo visto verso gli 8 anni a ricreazione in cortile e di aver pensato, per la prima volta in vita mia di un altro maschio: “Che bello che è!”.
Ci conoscemmo però in una discoteca gay a Vicenza! Lui, bellissimo e padre di una splendida bimba di 3 anni, credo mi scelse più per disperazione che per il mio fascino. Ma fu così che mi regalò un’esperienza di vita che ci ha visti crescere insieme per 21 anni fino al 2017.

E insieme, nel 2010, posammo per la campagna contro l’omofobia “Civiltà prodotto tipico friulano”: io e lui ci scambiavamo un semplice bacio seduti ad una tavola imbandita, fra vino, prosciutto di San Daniele e Montasio. Un bacio che rivendicava la nostra esistenza alla luce del sole, probabilmente il primo bacio omosessuale in una campagna pubblica nella storia d’Italia. I due manifesti (c’era anche la versione al femminile) scatenarono lo scandalo ma costrinsero, famiglia per famiglia, a discutere del tema dell’omosessualità in ogni casa della nostra regione. Cambiandola per sempre.
Quelle immagini, pubblicate su ogni rivista e quotidiano italiano, vennero in seguito citate come una delle migliori campagne contro l’omofobia per la rivista Wired, richieste dall’Università della California per una pubblicazione universitaria, esposte in una mostra sui temi lgbt in Polonia ed utilizzate per settimane come immagine profilo di tantissimi utenti Facebook in tutta Italia e anche in giro per l’Europa.

Quel ragazzino spaventato aveva definitivamente sconfitto il terrore della sua adolescenza e, a testa alta, si mostrava orgoglioso negli stessi luoghi che lo avevano tanto discriminato.

*Giacomo Deperu, sardo-carnico, nato a Tolmezzo (UD) nel 1969 e dal 1975 cresciuto a Spilimbergo (Pn), vive oggi a Pordenone ed è titolare dello STUDIODEPERU – Grafica e comunicazione a Fiume Veneto (Pn).
Per anni attivista in Arcigay Friuli, ha ricoperto in associazione la carica di vicepresidente prima e presidente poi, dal 2009 al 2015 e di Consigliere nazionale Arcigay dal 2011 al 2015.

L’omofobia interiorizzata

di Rosa Olga Nardelli

C’è un fenomeno strano che riguarda le persone che sono abituate ad essere prese in giro, etichettate, discriminate: ad un certo punto iniziano a pensare che ciò che si dice di loro sia vero. Talmente vero che iniziano a crederci, a fare in modo che tutti ci credano, a fare in modo di cambiare per evitare di essere ancora sottoposti a quella tortura.

È un fenomeno molto comune tra le persone LGBT e in letteratura è stato utilizzato il termine di omofobia interiorizzata.

Definiamo: per omofobia interiorizzata si intende l’adesione più o meno consapevole da parte di persone omosessuali ai pregiudizi e agli atteggiamenti discriminatori di cui essi stessi sono vittime. In sostanza, deriva dall’accettazione passiva di tutti i sentimenti negativi, i comportamenti, le opinioni, i pregiudizi tipici della cultura omofoba. L’omofobia interiorizzata è in grado di condizionare notevolmente il funzionamento psicologico di persone gay e lesbiche, arrivando fino a voler negare e contrastare la propria omosessualità, o addirittura a nutrire sentimenti negativi nei confronti di altre persone omosessuali.

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Nei suoi studi, lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi (2014) individua le precise caratteristiche associate all’omofobia interiorizzata:

  • scarsa accettazione di sé, che può arrivare all’odio di sé,
  • sentimenti di incertezza, inferiorità e vergogna,
  • incapacità di comunicare agli altri la propria omosessualità,
  • convinzione di essere rifiutati a causa del proprio orientamento,
  • identificazione con gli stereotipi denigratori.

Anche il bullismo omofobico fa leva sull’omofobia interiorizzata della vittima. Un ragazzo omosessuale che prova vergogna, senso di colpa, forte ansia e fatica ad accettare serenamente il proprio orientamento sessuale, può essere una facile vittima di bullismo omofobico. Quel ragazzo, infatti, potrebbe non avere il coraggio di denunciare i propri aggressori, non solo per paura di ripercussioni, ma anche per evitare di mettere ancora di più al centro dell’attenzione pubblica la propria omosessualità, vera o presunta, la propria diversità.

Allargando il nostro campo, possiamo dire che l’omofobia interiorizzata non è un concetto a sé stante ma, assieme allo stigma percepito (la sensazione di essere percepiti come omosessuali, e quindi di essere socialmente rifiutati), fa parte del concetto più ampio di minority stress, ovvero l’insieme dei disagi che si provano per il fatto di appartenere ad una minoranza.

Il pregiudizio e la discriminazione sono una grossa fonte di stress per le persone LGBT, e i fatti di cronaca ci hanno abituati a confrontarci con episodi talvolta molto violenti e traumatici. In un certo senso, si può infatti affermare che l’omofobia gode di una maggiore accettazione sociale rispetto ad altre forme di discriminazione e razzismo. Le persone omosessuali, a differenza di altre minoranze (es. etniche, religiose, etc.), non sempre possono contare sul sostegno sociale e familiare: accade sempre più di frequente che gli episodi di omofobia avvengano in casa, oppure vengano appoggiate dai familiari stessi, che colludono con quella violenza e ne sono altrettanto responsabili.

Cosa può fare un adulto per contrastare il fenomeno dell’omofobia interiorizzata?

La prima cosa da fare, sicuramente, è ascoltare. Poi parlare, e infine ascoltare ancora.

Innanzitutto proviamo ad ascoltare di più riguardo a questi temi: informarsi e conoscere è il modo più immediato per uscire dal pregiudizio. Ascoltare opinioni autorevoli a riguardo, imparare concetti e termini nuovi, sapere cos’è l’identità sessuale e come si forma, ci aiuta a capire bene di cosa si sta parlando, fa ordine nella confusione nostra e dei nostri ragazzi. 

Poi parliamo di questi temi: a cena, nei viaggi in macchina, durante il pranzo di Pasqua o di Ferragosto, la sera sul divano. In questo modo prendiamo dimestichezza noi con l’argomento, ma anche i nostri figli si abituano ad un dialogo più aperto e comprensivo. Non sempre serve che loro siano presenti: parliamone anche semplicemente con i nostri compagni, mariti, mogli, genitori, amici, così da contagiare anche gli altri.

Infine, torniamo ad ascoltare i ragazzi, disponendoci diversamente ad un ascolto più attento e concentrato su di loro. Cosa ci portano? Quali sono le loro preoccupazioni? Di cosa vogliono parlare con noi? Di cosa non riescono a parlare con gli altri? C’è qualcosa per la quale provano vergogna?

Solo se noi, gli adulti di oggi, saremo aperti al dialogo e al confronto potremo “coltivare” degli adulti consapevoli e privi di pregiudizi. 

17 maggio – giornata mondiale contro l’omofobia

di Rosa Olga Nardelli

Il 17 maggio del 1990 l’omosessualità viene definitivamente cancellata dalla lista delle malattie mentali, portando a compimento una vera e propria rivoluzione, arrivata dopo anni di battaglie da parte della comunità LGBT. Per questo motivo in questa data viene celebrata la Giornata internazionale contro l’omofobia, proprio a ricordare non solo la svolta, ma anche le innumerevoli persone che ne sono state vittime e che continuano ad esserlo. 

In un certo senso, celebrare questo passaggio rappresenta una rottura con la storia recente, non solo della medicina, perché ha di fatto portato ad un cambio di prospettiva importante per la vita delle persone. Fino a pochi anni fa, infatti, l’omosessualità era considerata una malattia come le altre anche da parte della comunità medica, tanto che sono state concepite le cosiddette terapie riparative.

Sebbene condannata da tempo, solo tra gli anni ’50 e ’60 l’omosessualità viene inserita all’interno dei manuali diagnostici condivisi dalla comunità scientifica e medica: nel 1952 viene classificata all’interno dei “disturbi sociopatici di personalità”; nel 1968 il DSM II (Manuale Diagnostico Statistico che raccoglie e classifica i disturbi mentali e psicopatologici, e che viene utilizzato da psichiatri, psicologi e medici sia nella pratica clinica che nell’ambito della ricerca) considera l’omosessualità una deviazione sessuale, al pari della pedofilia. Bisogna aspettare gli anni ’70 perché l’omosessualità venga rimossa come categoria diagnostica, fino ad arrivare ad una vera e propria derubricazione proprio nel 1990, quando la medicina dichiarò apertamente la propria posizione: l’orientamento sessuale è una caratteristica dell’individuo che si esprime nella relazione con l’altro ed è connessa ai bisogni di sicurezza e sociali quali i bisogni di amore, affetto ed intimità; l’orientamento sessuale prevede tre varianti naturali – eterosessualità, omosessualità, bisessualità.

Nel frattempo, in quei decenni avevano preso piede anche le terapie riparative, chiamate anche terapie di conversione o di ri-orientamento sessuale: metodi che avevano come obiettivo quello di modificare l’orientamento sessuale di una persona, una sorta di “riprogrammazione” dell’orientamento da omosessuale/bisessuale a eterosessuale, tanto da modificarne anche i desideri sessuali. Le terapie riparative consistevano, sostanzialmente, nel “curare un difetto di mascolinità” che si credeva avesse origine da una relazione disfunzionale con le figure genitoriali e le tecniche più comunemente utilizzate riguardavano: la terapia dell’avversione (associando una sensazione spiacevole e/o disgustosa – es. scariche elettriche, nausea e vomito – ad immagini omoerotiche), l’esorcismo, le punizioni corporali, l’assunzione di farmaci inibenti il desiderio sessuale o che modificano la secrezione ormonale (ovvero la castrazione chimica), la modificazione del comportamento, l’astinenza sessuale, il confinamento sociale.

Nel 1969 i moti di Stonewall hanno dato origine al movimento LGBT, aumentando la visibilità delle persone e portando alla luce la questione: questo incentivò un movimento scientifico ed etico, tanto da arrivare all’evidenza scientifica odierna per cui le terapie riparative non solo non sono più riconosciute dalla comunità scientifica, bensì sono considerate inefficaci, dannose e altamente pericolose

Ma, come abbiamo già esposto in precedenza, non si può pensare di cambiare l’orientamento sessuale e non si può curare l’omosessualità, perché l’orientamento è una caratteristica naturale dell’essere umano e l’omosessualità e la bisessualità non sono delle malattie, come ormai ampiamente testimoniato da una innumerevole quantità di studi scientifici. Bisogna, dunque, aspettare il 17 maggio del 1990 perché avvenga il cambiamento e perché l’intera comunità scientifica si renda conto dell’errore commesso.

Successivamente, nel 2004 l’Unione Europea prende posizione e si impegna a lottare apertamente contro ogni forma di discriminazione legata al genere e all’orientamento sessuale, istituendo la Giornata Mondiale contro l’Omofobia-Bifobia-Transfobia (per essere precisi, dal momento che riguarda persone omosessuali, bisessuali e transessuali). Varie nazioni europee, nel corso degli anni, hanno compiuto notevoli sforzi per l’integrazione e per combattere la discriminazione, sebbene nel mondo la strada sia ancora lunga da percorrere perché questa rivoluzione culturale possa dirsi veramente riuscita: in ben 7 paesi al mondo, al momento, vige la pena di morte per il “reato” di omosessualità, in altri 5 ne è contemplata la possibilità; 26 stati impongono sanzioni per le relazioni omosessuali, che vanno dai 10 anni all’ergastolo; in 32 stati esistono leggi che limitano la libertà di espressione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, compresa la “propaganda dell’omosessualità” (Fonte: rapporto ILGA 2019 – https://ilga.org/state-sponsored-homophobia-report).

In Italia e nel mondo ogni anno le associazioni si impegnano per parlare di questi temi, raccontare esperienze, aprire discussioni a riguardo. E anche quest’anno accadrà, tra dirette Facebook e Instagram, di incontrare i membri di queste associazioni alle prese con la lotta all’omofobia: forse quest’anno più che mai sarà visibile e utile raccontare cos’è il bullismo omofobico e come possiamo farvi fronte, ascoltare le storie di coloro che ci sono passati, confrontarsi con esperti e attivisti, discutere sulla questione dei diritti civili. Al coro delle associazioni, per la prima volta quest’anno, si sono unite anche alcune scuole che hanno chiesto ai loro docenti di parlare di questa giornata e di dedicare del tempo nel corso delle loro lezioni con gli alunni.

Dunque, domenica 17 maggio ci diamo appuntamento sulle varie piattaforme e nei vari siti per celebrare questa importante ricorrenza, apriamo le orecchie e la mente a questo spazio, perché non è mai abbastanza parlare di diritti e di lotta alle discriminazioni.