In attesa di fare… la bibliotecaria

di Lea Del Negro*

Ci penso ogni tanto alla mia adolescenza, ma non la rimpiango. Se esistesse la macchina del tempo non tornei negli anni Ottanta a Pordenone, per vedermi con il fiocco di pizzo bianco in testa ad imitare Madonna e le scarpe finte Timberland. Non sono mai stata un’adolescente tormentata, ma ripensando a me stessa mi sento cogliere da una certa tenerezza mista ad imbarazzo. A quella ragazza sono di certo mancati dei modelli importanti, una figura di riferimento carismatica: mi piacevano tutte le cose che ora mi fanno storcere il naso, come la musica di Eros Ramazzotti tanto per dare un’idea.

Lo ricordo come un periodo di transizione, sereno, ma di preparazione ad altro. Sarà che ho frequentato la Ragioneria, che mi faceva abbastanza schifo, solo per corrispondere alle aspettative dei miei genitori. Ecco, io l’adolescenza, il periodo delle scuole superiori, l’ho trascorso in attesa di fare altro, di avere un po’ di indipendenza, soprattutto di pensiero. Poi finalmente finite le superiori sono potuta andare all’Università (Lettere) ed è cambiato tutto. Dopo anni in trincea senza grandi aspettative ero al posto giusto nel momento giusto. Gli anni opachi delle superiori si sono allontanati: è stato come mettere gli occhiali dopo un periodo di miopia e vedere tutto brillante.  Agli incontri di presentazione i docenti come prima cosa ci avevano avvertito che stavamo scegliendo una facoltà anacronistica, con pochi sbocchi lavorativi, fatta eccezione per l’insegnamento. Questo mi aveva motivata ancor di più: che sfida riuscire a vivere di letteratura.

Ma come ero giunta a quella scelta? I libri erano importanti per me?  Sono cresciuta con loro, desiderandoli, ma senza mai averne un accesso diretto. Da piccola in casa ne avevo alcuni che leggevo ossessivamente (Heidi, Senza famiglia, Piccole donne, le fiabe di Andersen ecc.), ma erano altri tempi e le biblioteche non erano accessibili ai piccoli come lo sono ora. Non che fosse vietato andarci, ma  …. la mia biblioteca cittadina era immersa nel grigiore delle proprie scaffalature. Il mio primo ingresso si era risolto in una grande delusione, soprattutto perché nessuno al bancone del prestito aveva colto il mio spaesamento, aiutandomi a cercare qualcosa che potesse piacermi. Sono tornata in quel grigiore solo molti anni dopo, da universitaria, già in grado di muovermi autonomamente per le sale, ma della mia prima esperienza mi è rimasto un rimpianto, un qualcosa di irrisolto che ora invece ho risolto benissimo. Se parliamo invece di librerie non era abitudine dei miei genitori portarmici, tanto che molti dei libri che possedevo mi erano stati regalati.

I colori della Biblioteca di Lea

Mi piaceva follemente leggere, ma lo facevo in modo bulimico e senza selezionare, andava bene tutto quello che trovavo. Per me era lo stesso passare dagli Harmony di mia nonna, agli Agatha Christie delle mie cugine, leggendo, se non avevo altro, il giornale di mia madre e non stavo a sottilizzare se fosse Confidenze o Grand Hotel. Bramavo le storie, volevo leggere. A pensarci ha un senso, alla luce della professione che ho scelto. 

All’Università ho recuperato tutti gli arretrati e ho letto, letto e letto senza averne mai abbastanza, persino delle cose pesanti e noiose che ora non avrei più la forza di affrontare. Terminati gli studi, prestando volontariato presso una piccola biblioteca di quartiere ho incontrato quella che ora è una delle mie migliori amiche e che già all’epoca aveva le idee molto chiare sulla sua futura professione. Lei voleva fare la bibliotecaria. Che idea stupenda la sua! Non poteva adattarsi anche a me? Non me ne sono mai pentita.

Lea in biblioteca

Questo lavoro mi ha dato tantissimo e mi mantiene in contatto con le persone e con le storie. Posso dire di essermi anche riappropriata della mia adolescenza e la sento più vicina ora che allora; la vedo ogni giorno nei volti dei miei giovani utenti, quelli che chiedono un consiglio e quelli che non vogliono che io rompa loro le scatole. La mia biblioteca deve essere associata al colore e non al grigiore e soprattutto deve essere associata al calore, perché nessun giovane utente possa entrare e sentirsi respinto. Tra gli scaffali ci sono oltre 18.000 storie che aspettano di venir lette e sono tutte alla ricerca di un lettore. Io sono un po’ la prescelta a far nascere questi incontri. Il panorama editoriale per ragazzi al momento è ricco e composito e io mi ci perdo dentro: sono i libri che avrei voluto che qualcuno mi consigliasse all’epoca! Non importa, nonostante il ritardo, quelle storie sono anche per me, c’è sempre tempo per migliorarsi, apprendere e conoscere. C’è sempre tempo per leggere.

Negli ultimi tempi, con un’amica conosciuta in biblioteca, ho anche aperto un blog; scriviamo dei libri che ci sono piaciuti, quindi anche nel tempo libero cerco di fare quello che faccio al lavoro, promuovere la lettura. Ho questa assurda e incrollabile convinzione che il mondo potrebbe essere un posto migliore se si leggesse di più, perché entrare in diverse trame e storie stimola l’empatia. Leggendo riesci a comprendere anche le ragioni degli altri e quando questo accade l’altro non è più ALTRO. Immagino di essere ancora un’idealista. Se è un difetto spero di non perderlo mai.

Torno indietro con il pensiero alla me adolescente e mi sorrido da una distanza siderale. Mi piace quello che sono diventata e ho ancora margine per un miglioramento, un’ottima motivazione per affrontare ogni giornata.

Dimenticavo…ora ascolto gli AC/DC. 😊

* Impiegata dal 2000 in qualità di bibliotecaria presso un Ente locale. Organizzatrice per conto del proprio Comune  della rassegna “Prata d’autore” (che ha ospitato, tra gli altri, autori come Ilaria Tuti, Enrico Galiano, Andrea Maggi, Matteo Bussola, Francesco Vidotto e Sara Rattaro. Dal 2005 insieme a Stefania Baccichetto cura un blog che si occupa di libri per adulti e ragazzi (Duettriciquasiperfette).

La mia stanza

di Giorgio Zanier*

Era un martedì del lontano Febbraio del 1978, tutto il pomeriggio l’avevo trascorso a bussare le porte delle case per recitare la filastrocca in cambio di  qualche uovo e poche monete. Un’usanza che a Carnevale io e i miei compagni di scuola ripetevamo religiosamente ogni anno nel pomeriggio del martedì grasso. Anche quel giorno andò tutto come previsto. Un travestimento per il pomeriggio e uno per il ballo in maschera che si sarebbe tenuto alla sera nella sala parrocchiale del paese . 

Del resto in quell’epoca la Tv era a un canale solo e gli eroi da imitare erano davvero pochi: Tarzan, Zorro, Topolino e pochi altri. Così con un abito da Zorro (tassativamente fatto in casa) nel pomeriggio e un abito da vecchia adattato alla maschera acquistata per la sera, anche quell’anno avremmo rinnovato la sfida tra amici: presentarci con due travestimenti diversi per poi decretare il vincitore in colui che veniva riconosciuto per ultimo. 

Cosi anche quella sera di mi presentai al ballo in maschera con l’intento di non farmi riconoscere, fino a quando improvvisamente notai la presenza di un gruppo musicale. Essendo una serata danzante mascherata ci stava. Del resto anche d’estate durante la sagra del paese vi erano sempre gruppi musicali a animare le serate. Quel martedì grasso invece vi era qualcosa di completamente differente che attirò la mia attenzione. Si perché questa volta a differenza di tutte le altre alla batteria sedeva un bambino della mia età. 

Quando realizzai il tutto rimasi completamente pietrificato. Fino a quel momento avevo pensato che i batteristi fossero sempre stati adulti per cui anche se volevo suonare la batteria nel corso dei miei 11 anni sapevo che avrei avuto comunque tempo per farlo e anche l’organista della chiesa, il mio primo mentore, mi ripeteva spesso che una volta più grandicello (ritornello che non sopportavo dato che l’avevo sentito pronunciare centinaia di volte anche in famiglia) avrei potuto imparare a suonare la batteria. 

Fu proprio lui, mentre accompagnavo le sue esercitazioni con il mio tamburellare sulle sedie, a farmi esordire in pubblico alcuni anni prima durante una celebrazione liturgica grazie a una batteria presa in prestito dall’oratorio del paese vicino. Fu sempre lui a dirmi di suonare con le mani quando preso dall’emozione della mia prima esibizione in pubblico , fui incapace di tenere le bacchette in mano perché tremavo come una foglia per la paura di sbagliare. E fu sempre lui a esortare i miei genitori a inscrivermi al lontano conservatorio di Udine così da cominciare a sviluppare il mio talento che emergeva da tutte le parti ma che purtroppo non sembrava interessare molto, probabilmente perché collocato in una realtà piccola come un paesino di provincia in cui gli aspetti principali riguardavano l’emigrazione e la coltivazione della terra. 

Del resto anche io ero figlio di emigranti ed erano i tempi in cui vi erano pochissime possibilità… di scuole di musica nemmeno l’ombra, solo calcio giovanile e qualche sporadico gruppo scout ancora in fase embrionale…  D’informazione online, oggi diventata fonte di apprendimento per tutte le categorie, nemmeno parlarne. Così, quando quella sera vidi quel bambino, tutte le mie certezze e le mie credenze andarono in frantumi. Corsi di corsa a casa a dire a mio padre di venire a vedere quel bambino che era come me e che quindi avrei potuto anche io iniziare in qualche modo. 

Ma vuoi per le difficoltà di quel momento, la stanchezza del lavoro e altri due figli a cui pensare, ben presto la mia richiesta, come era già successo alla precedente proposta del conservatorio, cadde immediatamente nel dimenticatoio. Cos,ì tolti i vestiti (il carnevale in quel momento era come se non esistesse più) e rimessi gli abiti normali, mi precipitai di corsa a vedere quel bambino. Fortunatamente casa mia era poco distante dalla sala parocchiale per cui fui molto rapido nel prendere una delle poche sedie rimaste e sedermi in un angolo in cui riuscivo a vedere il palco. Non mi mossi più da lì per almeno 3 ore, rapito dal mio sogno che vedevo realizzarsi in qualcun ‘altro.

Già da due anni l’organista se ne era andato, trasferito per lavoro da un’altra parte, e io vivevo la mia passione per la musica immerso in un mio mondo che, nell’ambiente, soprattutto scolastico (tranne qualche apparizione nelle recite alle elementari con un fustino del Dash), non era per nulla recepito. Tuttavia fu proprio quella sera che iniziò tutto per me perché, il giorno dopo, i genitori di quel bambino, vedendomi cosi attento e appassionato, vennero a casa mia e parlando con i miei genitori dissero loro che dovevano assolutamente spingermi allo studio dello strumento. Ricordo bene quel periodo, soldi a casa non ne giravano molti per cui tutti temevano che la mia fosse solo una passione adolescenziale passeggera utile solo a indebolire il bilancio familiare, visti il costo degli strumenti musicali e la difficoltà di reperire un maestro che mi desse i primi rudimenti.

Visto con il senno di poi, quello in realtà fu il primo passo di un percorso lungo 40 anni, fatto sì di sacrifici, ma anche di grandi soddisfazioni e di dischi registrati, Tour e collaborazioni importanti con musicisti di una certa caratura, conoscenze e momenti rilevanti come qualsiasi professione svolta ad ottimi livelli comporta.

Dall’adolescenza fino al professionismo, la musica è stata soprattutto “la mia stanza.” Quel luogo in cui rifugiarmi quando mi sentivo incompreso o invaso da un qualsiasi tipo di ordine autoritario (nel periodo scolastico erano frequenti)  che alle volte  in quella fase di vita tendevo a contrastare perché lo vivevo come un obbligo limitante. Una stanza tutta per me in cui non permettevo a nessuno di entrare.

Scoperta la mia passione rinforzata dall’interesse del  mio primo mentore che poi mi abbandonò per cause di forza maggiore, non mi sono mai arreso pur di  arrivare ad ottenere ciò che desideravo. Ho superato tantissime difficoltà: per studiare lo strumento ho trascorso molte ore in treno per raggiungere gli insegnanti delle grandi città in Italia e all’estero, ma tutto poi è stato ripagato con grandi risultati, anche inaspettati, e soddisfazioni immense. Ricordo ad esempio quando da bambino vedevo il Festival di Sanremo ed ero pronto con il mio fustino ad accompagnare le canzoni ogni sera per tutta la durata del Festival. La sera poi a letto addormentandomi mi dicevo: “Un giorno salirò anche io in quel palco!”  

Così quando nel 1997 partecipai alla 47° edizione del Festival di Sanremo, come una “rullata” mi fecero eco i miei ricordi di bambino e iniziai ad unire i puntini. Quella che era stata la mia stanza per molto tempo, crescendo l’ho ampliata: ho aperto le finestre e ci ho iniziato a far entrare qualcuno, perché senza gli altri non si va da nessuna parte. Se da soli possiamo muoverci, insieme si può andare più lontano, per cui dopo aver ben sviluppato il muscolo della solitudine ho iniziato ad aprirmi al mondo: avevo capito chi ero e cosa volevo fare nella mia vita. 

Giorgio Zanier

E’ vero che prima ho dovuto imparare a mie spese che risalire la corrente è dura, soprattutto quando non sai di essere un salmone e l’ambiente esterno (probabilmente anche in buona fede) ti fa credere di essere un pesce rosso. Ma è anche grazie a questo che oggi, in qualità d’insegnante e formatore, sono in grado di trasmettere ai miei studenti e alle persone con cui vengo a contatto il desiderio di superare i limiti apparenti. 

Ritengo siano di fondamentale importanza, sia per riuscire a crearsi una professione sia per alimentare la propria Felicità, imparare ad ascoltare se stessi e gli altri e dedicare tempo a scoprire chi siamo e che talenti abbiamo. Per usare una metafora, si può paragonare il coltivare il proprio talento  al tentativo di accendere un fuoco. All’inizio per farlo ardere occorre alimentarlo con la legna circostante (famiglia-scuola-ambiente di vita) e poi, una volta acceso, si potrà andare a prenderne in un ambiente esterno. Io penso che, anche se all’inizio non ne siamo consapevoli, ciascuno di noi nasca con un Talento, un’abilità recondita, grazie alla quale c’è un ambito in cui ciò che fa riesce naturale . 

Quando arrivò la mia prima batteria a casa mi ci sedetti dietro e iniziai a suonare come se l’avessi sempre fatto. Anche nelle mie prime serate, fatte all’età di 13-14 anni, ripetevo naturalmente i ritmi imparati nei dischi o che mi ero immaginato in testa. Fin da bambino, io battevo su una superficie con tutto ciò che mi capitava sottomano e farlo mi faceva entrare nella “mia stanza.”

Se in questo momento, rivedendo tutti i miei trascorsi, mi chiedessi come viva oggi la professione del musicista, direi che sono cambiate moltissime cose sia nella mia vita professionale che personale e non ho mai vissuto la mia professione come un lavoro ma piuttosto come una gioia, un privilegio. 

Attualmente il mio principale interesse ruota attorno al tipo di vita che voglio vivere: preferisco mettere a disposizione quanto ho appreso per fare in modo che i miei studenti valorizzino le loro capacità, evitando così di entrare nel paradigma da me sperimentato in gioventù e che è ben rappresentato nel libro “L’aquila che si credeva un pollo.” 

Scoprire fin da subito la propria passione e le proprie capacità offre la possibilità d’imparare a conoscere noi e il mondo circostante soprattutto in età adolescenziale, perché permette di forgiare il proprio carattere, sperimentare il potere della disciplina personale e conoscere le proprie possibilità. Vivere il proprio Talento è un opportunità che la vita ci offre  per comprendere il nostro scopo ed iniziare a viverlo per sé e gli altri, anche per questo lo dobbiamo imparare a coltivare. Come insegna Confucio, scegliere il lavoro che amiamo significherà non lavorare nemmeno un giorno per tutta la vita.

*Collaboro professionalmente nel campo della didattica musicale con il CDM Centro Didattico MusicaTeatroDanza di Rovereto (Tn) suono in diversi progetti musicali e mi occupo di formazione attraverso corsi e seminari. Sono autore della collana didattica per batteristi Custom Learning e del Libro “Crea la colonna sonora della tua vita” dedicato a tutti coloro che desiderano migliorare la propria vita attraverso lo sviluppo del proprio talento.

Generazione 32bit

Di Sara Verardo*

Diciamoci la verità: noi gamer, con il Coronavirus o senza, passavamo già tante ore davanti agli schermi e abbiamo affrontato così tante apocalissi zombie e nucleari che sapremmo esattamente cosa fare.
In questo momento i videogiochi sono diventati una terapia per la quarantena, tanto che c’è stato addirittura un boom nel mercato videoludico. E pensare che qualche mese fa i videogiochi erano considerati una dipendenza, un disordine.

Ma partiamo dall’inizio…
Per me i videogiochi sono stati fedeli compagni da sempre, alcuni li ricordo con malinconia, altri sono come mondi nuovi da scoprire.
L’incontro col mondo dei pixel è avvenuto da bambina, quando mi sono trasferita con la mia famiglia in un nuovo quartiere e ho fatto amicizia con un mio coetaneo con cui passavo i pomeriggi a giocare all’aperto, ma spesso anche per avere il “potere illimitato” sulla sua PS1. 

È da quando avevo 12 anni, invece, che il mondo che veniva definito “nerd” mi iniziò a interessare moltissimo. A casa abbiamo sempre avuto un computer e quando si premeva il pulsante “on” partiva il ronzio delle ventole, i vari “bip-bop” di avvio del sistema e il modem che faceva decisamente troppo rumore per il poco servizio che offriva: sembrava di stare in un’astronave.
Ricordo mio papà che passava i pomeriggi davanti al computer mezzo smontato, da cui uscivano cavi e schede che lui pazientemente mi indicava, spiegandomi la loro funzione, quasi come un chirurgo che analizza il corpo umano.

La passione è nata anche da mio cugino che, quando doveva “badare a me”, mi piazzava davanti ai videogiochi, in particolare davanti ai livelli di Doom; insomma, la tecnologia era il vizio di famiglia.

Mi ricordo ancora quando ho avuto la fortuna di costruire il mio primo pc assemblato, sembrava di costruire Frankenstein. E poi finalmente l’accensione, funzionava tutto: si poteva fare!

Il mondo fuori qualche volta non sembrava capire la mia passione “stai troppe ore lì”, “non preferisci la compagnia dei tuoi coetanei?” o “ti fa male alla vista”, la verità era che portavo già gli occhiali e i ragazzi della mia stessa età non usavano solo parole come ‘quattrocchi’ o ‘nerd’ per sfottermi, quindi il gioco ‘coetanei’ non rientrava nel mio passatempo ideale.
Col tempo poi ho scoperto che esistevano altre persone come me, quasi sempre ragazzi, con cui condividevamo trucchi, riviste per pc (beato internet) e giornate a casa l’uno dell’altro (l’online era davvero per pochi eletti ancora): improvvisamente quel senso di solitudine si era attutito. 

Poi, come tante belle storie, i personaggi a un certo punto si salutano o prendono strade diverse e anche coi videogiochi funziona così: ieri conducevi eserciti in battaglia, oggi sei il sindaco di una metropoli e domani magari un mago Khajiiti.
Il videogioco ti permette di essere chiunque tu voglia, senza pregiudizi, senza commenti indesiderati e con l’immaginazione come tuo unico limite, un po’ come fanno in modo più “passivo” libri e film, ma mica puoi andare a cavallo o brandire un’ascia in quelli!
Anche il senso di appagamento è una componente molto forte che crea un legame con il gioco, ad esempio quando costruisci qualcosa, quando ottiene delle ricompense alla fine di un livello o ancora la scritta cubitale “victory” alla fine di una partita.

Chiaramente i libri e i film non possono offenderti dandoti del ‘noob’ oppure insultando i tuoi parenti fino al 6° grado nel più creativo dei modi, ma d’altronde non può esserci male senza bene, Sith senza Jedi, orda senza alleanza.

Scomodando vecchie citazioni, io ho un sogno: ovvero quello di poter vedere il mondo videoludico come un collante che crea ponti tra nazioni, generazioni, genere e qualsiasi altra sfaccettatura che ci contraddistingue, partendo soprattutto dalla connessione tra visibilità e videogiochi: gli esports.
C’è infatti il rischio che un altro mondo sportivo diventi esclusivamente maschile, quando invece le ragazze che giocano esistono, non sono ‘maschi mancati’ e devono avere la stessa opportunità di giocare e di non essere sempre il player2.
Ben venga la collaborazione tanto quanto è benvenuta la competitività, la sfida e la forza di fare squadra per un unico obiettivo. 

Il mondo dei videogiochi ha imparato col tempo a rispecchiare sempre più la società in cui viviamo, e non solo tramite le tecnologie, ma anche tramite la percezione sociale; basti pensare a come negli anni ’90 certi personaggi venivano ‘scoperti’ LGBT solo con trame nascoste, dichiarazioni velate dei creatori o supposizioni della comunità dei fan, quando ora sono invece aspetti molto più visibili e che fanno parte della stessa trama del gioco.
Con questo non dico che non fanno più scalpore, perché purtroppo i pregiudizi non spariscono con in mano un gamepad, ma danno una cosa molto importante: la visibilità.

Anche la stessa violenza, tanto criticata nel mondo del gaming, è un aspetto tanto controverso e su cui ognuno ha la propria opinione, ma che personalmente credo si possa distinguere tra: “giochi adatti a un pubblico minore” e “giochi non adatti a un pubblico minore”, proprio perché l’adulto fa la sua parte nella decisione per chi non ha l’età di decidere per sé.

I videogiochi sono un passatempo, uno sfogo, un’avventura, un rifugio, fanno emozionare e fanno anche schifo qualche volta, ma non dovrebbero mai essere un mezzo per identificare e colpevolizzare un adolescente o un adulto perché, appunto, gioca.

Il mio invito è, se non avete mai giocato, di provarci almeno una volta, o guardate giocare qualcuno e magari chiedere di essere coinvolti: ritornate per un momento al “facciamo finta che”.

*“Sono Sara, studio all’università di Udine, da sempre appassionata di tecnologia, robe geek, sci-fi, film fantasy, videogames, minimalismo e divanismo. attivista Arcigay dal 2011, sostenitrice di uguaglianza di genere su ogni fronte, soprattutto quelle dei pelati; la leggenda narra che le mie battute potranno creare una futura glaciazione.”