Annoiati davanti al nulla, impotenti davanti a tutto

di Sara Feltrin

Poche settimane fa su Teen&20 scrivevo un articolo, La guerra dentro, nel quale descrivevo il forte malessere e la profonda sofferenza che caratterizza la gran parte degli adolescenti di oggi, chiusi e bloccati dentro le mura domestiche, come pettirossi in gabba, rossi dalla rabbia.

La guerra, ora, è scoppiata davvero. 

Le manifestazioni con cui i giovani hanno provato a farsi sentire e urlare a gran voce nelle piazze o fuori della scuola, vestiti a strati con berretto, guanti e una coperta stesa a terra come clochard lungo la strada, sono state parecchie. Telegiornali e notiziari ne hanno parlato molto, li hanno intervistati, ma nulla è cambiato. I continui DPCM tentennano tra salvare il mondo da una pandemia mondiale e l’Italia da un collasso economico, lasciando aperti fino a sera i centri commerciali per i regali di Natale, ma le scuole perennemente chiuse. 

Risale a pochi giorni fa (5 dicembre 2020) la vicenda presso il Pincio di Roma in cui centinaia di giovani, gran parte minorenni, si sono raccolti, un sabato pomeriggio, per assistere ad una rissa tra due ragazze. Una di loro, però, non si è presentata ma ciò nonostante la rissa è esplosa lo stesso, tra gruppi di ragazzini guidati da rabbia e sete di vendetta. La diretta e inevitabile conseguenza è stato quindi un grande affollamento di centinaia di giovani arrabbiati che, senza l’utilizzo di mascherine, si è ribellato nel centro di Roma. Ma i pugni, incitamenti, aggressioni, e violenze scagliate uno contro l’altro, nonostante l’intervento delle Forze dell’Ordine in tenuta anti sommossa, non sono bastati a frenare la rivolta. 

E su Tik Tok, Telegram e WhatsApp, circola già il messaggio “Confermata al 100% la rissa il prossimo sabato” ma sta volta i pugni e calci non basteranno e le armi della “rivincita” saranno lame e coltelli. 

Ci impressioniamo di tanta violenza, maleducazione, vandalismo e intemperanza. Questo, alla fine, colpisce. L’attenzione è diretta alle conseguenze più che alle cause e si cerca un modo per frenarli e disarmarli con tute antisommossa quando invece dovremmo fermarci ad ascoltarli, con le parole. Perchè mettersi ancora contro di loro non fa altro che aumentare la distanza, e più saranno lontani e più loro urleranno.

I numeri parlano chiaro: dallo scorso anno il numero degli atti vandalici provocato da ragazzi nella fascia adolescenziale è aumentato dal 16% al 22%; le risse ora sono al 24%, l’utilizzo di armi o oggetti pericolosi all’8% e l’aggressività su persone al 35% (Osservatorio Nazionale Adolescenza).

I nostri non sono più ragazzi e adolescenti che si ribellano per trovare dei limiti o dei confini per la definizione di sè; sono ragazzi demotivati, arrabbiati; sono adolescenti stufi di ribellarsi e che quindi, lottano. Lottano (o meglio, lottavano) a scuola dove attenzione e concentrazione sembrano capacità irraggiungibili e una buona comunicazione con insegnanti e compagni una grande utopia. Lottano nelle strade contro una società che li giudica e li considera un peso anziché una ricchezza. Lottano infine nelle piazze, unico luogo in cui ritrovare la voce e le urla dei coetanei arrabbiati e sconfortati come loro per scagliarsi insieme contro un mondo che non dà opportunità e sa di amaro. Ma lottano soprattutto in casa e in camera in particolare, contro se stessi. Mancano obiettivi, tante volte mancano perfino i sogni, mancano figure solide, mancano punti di riferimento verso le quali dirigere la rotta, manca la rotta e manca la motivazione che lascia spazio alla noia. E la noia di un vuoto, soprattutto in un’età in cui istinti e ormoni prendono il sopravvento, porta a frustrazione e percezione di scarsa autoefficacia (non faccio quindi non imparo quindi evito di fare per non fallire). Mettiamoci un futuro senza certezze del domani, una pandemia in corso che limita gli spostamenti bloccando i contatti fondamentali e la ricetta è pronta. 

Così, abbandonati alla noia e all’angoscia, l’unica strada rimane quella dell’esplorare l’oltre, una pseudo realtà fatta di adrenalina e autoefficacia che restituisce sensazioni di libertà, coraggio, competenza e vita. Ed ecco che spesso si ricorre all’alcol, alla droga, alla violenza, ai killer selfie, ai knockout, alle challenges virali spesso mortali, sfide ricche di sensazioni fortissime, devianze nate non più per raggiungere dei limiti ma per scavalcarli.

E’ una guerra spietata quella che sentono dentro e ce lo stanno dimostrando in tutti i modi, arrivando a volte persino al suicidio.

Ora tocca a noi ascoltarli, senza giudicarli e senza pretendere da loro chi vorremmo che fossero, ma accettiamoli, comprendiamoli e aiutiamoli con tutti gli sforzi che stanno facendo per crescere in un mondo così astioso come l’attuale. Hanno bisogno di noi, figure di riferimento, autorità competenti e persone da stimare che possono insegnare loro come sconfiggere lo sconforto e la frustrazione, per recuperare i sogni perduti e per poter credere che dopo ci sarà qualcosa di buono per cui valga la pena lottare ma soprattutto, per cui valga la pena vivere

Ora tocca a noi.

Vento dell’est, 

la nebbia è là, 

qualcosa di strano tra poco accadrà. 

Troppo difficile capire cos’è, 

ma penso che un ospite arrivi per me. 

                                                                  Walt Disney,  Saving Mr Banks

“Sono arrabbiato!!!”

di Francesca Del Rizzo

Questo articolo fa parte di un dittico che ho pensato di dedicare alla rabbia ed alla sua espressione: esso ne costituisce la seconda parte, dedicata all’espressione dell’emozione, ed è idealmente completato dall’articolo “Arrabbiarsi” che trovate qui. Non distinguerò in questa occasione fra la rabbia dell’adulto e quella dell’adolescente, a questa distinzione, infatti dedicherò un ulteriore dittico, che Teen&20 pubblicherà in futuro.

Quando ti arrabbi, ritorna a te stesso e prenditi molta cura della tua rabbia. Quando qualcuno ti fa soffrire, ritorna a te stesso e prenditi cura del tuo dolore, della tua collera.

Thich Nhat Nanh

Nell’articolo “Arrabbiarsi” ho sostenuto come la rabbia sia una emozione sempre legittima, un’emozione che ci segnala che qualcosa di profondamente nostro, qualcosa che fa parte della nostra identità, è stato toccato, violato, negato. Ho cercato quindi di invitare ad un atteggiamento non giudicante, ma di ascolto nei suoi e nei nostri confronti, affinché essa diventi fonte di informazione su di noi e sugli altri e spinta all’azione efficace ed utile. Ho sostenuto inoltre che se la rabbia è sempre legittima, certo non lo sono tutte le sue espressioni. La rabbia, infatti, può essere espressa in molti modi diversi.

Basquiat – Untitled

C’è la scenata del bambino cui è negato un gioco: una protesta verbale e fisica che lo coinvolge tutto e che può travolgere anche il suo ambiente. C’è l’aggressività di un uomo geloso che sospetta continuamente che la compagna lo tradisca ed usa la forza fisica per farle paura e dominarla. C’è la vendetta per un tradimento subito consumata freddamente nel tempo, come viene raccontato nel film She Devil. C’è la freddezza, l’acrimonia dei gesti di due fratelli così diversi da non riuscire a comprendersi ma solo a disprezzarsi. C’è la calma ed indefettibile determinazione che ha spinto Gandhi a lottare pacificamente contro il dominio degli Inglesi, o Mandela a combattere e testimoniare con la sua intera esistenza contro il regime dell’Apartheid.

Nelson Mandela

Cos’è che fa sì che le persone possano scegliere modi tanto diversi di esprimere la propria rabbia?

Prendiamo in esame la storia di ognuno di noi: fin da piccoli, ed al di là di ogni nostro consapevole sforzo, siamo attentissimi a cogliere le emozioni che muovono le nostre figure di riferimento, vediamo “come fanno” quando sono tristi, arrabbiate, felici e poi proviamo anche noi a fare la stessa cosa. Questi nostri tentativi innescano nell’ambiente che ci circonda ulteriori eventi: veniamo visti, consolati, accolti, sgridati, puniti, ignorati, ridicolizzati, squalificati? Se spieghiamo cosa sentiamo, veniamo ascoltati o ciò che diciamo viene minimizzato e banalizzato? Se diamo in escandescenze, otteniamo una risposta ferma, oppure uno sguardo di paura, un atteggiamento remissivo, altrettanta aggressività?

Nella nostra danza interattiva con gli altri ogni episodio “lascia il segno”, costituisce un precedente cui potranno seguire repliche ulteriori che ci confermeranno, o meno, che sì, quando mi arrabbio e protesto vengo visto, e se protesto ancora di più vengo accontentato, oppure no, vengo sculacciato e questo mi mortifica, oppure no, non mi mortifica, mi fa sentire vulnerabile ed allora mi arrabbio ancora di più… ed alzo ancora il tiro…

Le traiettorie possibili sono numerose e complesse, e si complicano ulteriormente con l’ampliarsi dei possibili esempi e delle possibili occasioni in cui le nostre azioni innescano ulteriori azioni da parte delle persone che ci circondano, ma ciò che accomuna tutte queste situazioni è che ciò che noi facciamo è più o meno consapevolmente canalizzato da ciò che, sulla base dell’esperienza che abbiamo già fatto, anticipiamo succederà poi e dal significato che ha per noi quel che succederà.

Detto in altri termini, i modi in cui esprimiamo le nostre emozioni radicano nella nostra esperienza. Essa ci ha offerto delle possibilità – e non altre – rispetto alle quali abbiamo avuto dei riscontri – e non altri. Se una persona non ha mai visto esprimere la rabbia con aggressività, forse non proverà mai a percorrere quella strada, una strada che, semplicemente, per lei non esiste. Ma questo vale anche per chi non ha mai visto esprimere la rabbia con un ragionamento che può essere acceso, forse, ma anche aperto al confronto. Ognuno di noi parte da alcune possibilità di azione di cui ha fatto esperienza per averle viste e poi provate in prima persona.

Siamo quindi vittime degli eventi che hanno punteggiato le nostre vite o del nostro modo di viverli?

Certo che no, possiamo sempre riflettere sui nostri atteggiamenti, comprenderne le ragioni, elaborare modalità di azione alternative modificando la traiettoria che la nostra storia ha avuto. Ed in questo tentativo di fare cose diverse, nuove, che ci sembrano avere più senso, credo possa essere utile porci una domanda: chi è l’Altro per noi?

Basquiat – Three delegates

Considerando e ripercorrendo le nostre possibili storie abbiamo infatti visto come sempre, negli scenari che immaginavamo, fossero presenti anche altre persone.

Ci arrabbiamo infatti sempre con(tro) l’Altro, qualcuno, a volte qualcosa, perché la rabbia è un’emozione che nasce nelle relazioni. Ce la prendiamo con chi riteniamo intenzionalmente responsabile dell’evento che ci ha fatto soffrire: una persona, un’istituzione, Dio, il destino, noi stessi … e vorremmo punirlo per quella sofferenza, fare in modo che quel qualcuno, o qualcosa, soffrisse almeno quanto noi, quasi che questa seconda sofferenza saldasse un conto rimasto aperto.

Non c’è una logica in questa sorta di immaginario ribilanciamento di un equilibrio rotto, ma tant’è, questo è ciò che contemporaneamente sentiamo e pensiamo quando siamo arrabbiati. Se poi scegliamo anche di dare corpo, dare il nostro corpo, a questo sentire, esprimendolo in azioni aggressive o violente, dipende anche da chi è per noi quell’Altro che ci ha fatto male.

Lo viviamo e lo percepiamo come un Nemico, come qualcuno che vuole il nostro male? Oppure come un Indifferente, un essere lontano e potente che non si cura di noi ma brama solo di raggiungere i suoi obiettivi calpestandoci noncurante nel suo pesante cammino? Ci appare come un Manipolatore o uno Sfruttatore che nega i nostri bisogni ed i nostri diritti ed è solo interessato a sfruttarci per i suoi fini? O lo vediamo invece come un essere umano confuso e sofferente, a sua volta arrabbiato o in difficoltà, che non ha compreso fino in fondo quello che stava facendo nei nostri confronti?

Mustaki – Knowledge

Queste letture così varie – che naturalmente possono condurre ad azioni molto diverse fra loro – possono essere appropriate, utili ed opportune in situazioni e contesti differenti. Pertanto, se ci concediamo il tempo di chiedere davvero a noi stessi chi è per noi quell’altro che ci fa stare così male, ci diamo la possibilità di uscire dalle traiettorie che la nostra storia può aver consolidato. Ed infine, se ci concediamo di provare a comprendere cosa quella persona, dal suo punto di vista, sta veramente cercando di fare con noi, possiamo provare a capire cosa noi vogliamo fare con lei, quale direzione imprimere alla nostra relazione. Se vogliamo giocare al “gioco” della guerra, a quello della vendetta, a quello del confronto o della testimonianza. O a molti altri possibili “giochi”.

Ecco, mi sembra però che questo ragionamento possa fare pensare al lettore che a me sia indifferente, alla fine, quale gioco la persona arrabbiata scelga di fare. Non è così. Dal mio punto di vista, come ho dichiarato fin dall’inizio di questo articolo, ci sono “giochi” che, seppur possibili, non sono legittimi. Sono tutti quelli in cui l’Altro smette di essere, agli occhi di chi è arrabbiato, persona tanto quanto lui, o lei, e diventa invece meno-che-persona, cosa. Non sono legittime le espressioni della rabbia che violano l’altro nel suo valore, nella sua integrità, nella sua libertà, nei suoi diritti. Non sono legittime, insomma, e sempre dal mio punto di vista, tutte le espressioni di rabbia che ripetono simmetricamente quei processi di negazione, svalutazione, oppressione, che di quella stessa rabbia sono stati l’origine.

Arrabbiarsi

di Francesca Del Rizzo

Questo articolo fa parte di un dittico che ho pensato di dedicare alla rabbia ed alla sua espressione: esso ne costituisce la prima parte, dedicata all’emozione in sé, ed è idealmente completato da “Sono arrabbiato!!” che invece si focalizza sull’espressione della rabbia. Non distinguerò in questa occasione fra la rabbia dell’adulto e quella dell’adolescente, a questa distinzione, infatti dedicherò un ulteriore dittico, che Teen&20 pubblicherà in futuro.

A volte, pensando all’emozione della rabbia, mi scopro ad immaginarla, esercizio che chiedo spesso di fare alle persone che vengono in studio da me. Non immagino però la mia, di rabbia, ma la rabbia in generale, la rabbia come emozione, appunto. E non la vedo accesa, energica, ribollente, non immagino qualcosa di rosso e potente e dinamico, ma mi scopro a vederla un po’ spenta, sconsolata, debole ed al contempo livida, incupita, che mi guarda di traverso. Insomma, non mi fa paura, ma un po’ tristezza e pena. Perché la considero una delle emozioni più incomprese e maltrattate.

Il vocabolario della Treccani così la definisce: “Irritazione violenta prodotta dal senso della propria impotenza o da un’improvvisa delusione o contrarietà, e che esplode in azioni e in parole incontrollate e scomposte. Quindi anche furia bestiale, violenza non controllata e moderata dalla ragione. In altri casi indica un’irritazione grave e profonda ma contenuta, interna. In senso attenuato può significare impazienza stizzosa e seccata, disappunto vivo e dispettoso per essere costretto a fare ciò che non si vuole o per non aver ottenuto ciò che si voleva.”

In questa definizione possiamo apprezzare come, nell’uso comune della lingua, nella parola rabbia confluiscano sia l’emozione, il sentire, che il comportamento rabbioso. Troviamo anche l’irragionevolezza, la mancanza di controllo e la violenza. Se questa è la costellazione di significati legata all’emozione della rabbia, è a mio avviso piuttosto comprensibile perché essa possa essere incompresa e maltrattata.

Se infatti la rabbia viene vista come sinonimo di comportamento aggressivo, incontrollato, scomposto, irrazionale è piuttosto prevedibile che le persone la temano, sia quando ne sono vittime che quando ne sono protagoniste, e cerchino di evitarla, controllarla, a volte negarla, anche a se stesse.

Ho conosciuto persone che affermavano di non arrabbiarsi mai… alcune di loro semplicemente si arrabbiavano raramente, altre si arrabbiavano, invece, e molto, ma non se ne rendevano conto, non se ne potevano rendere conto, perché, nel loro mondo di significati, essere arrabbiate equivaleva a sbagliare, mancare di rispetto all’altro, perdere le relazioni, soffrire e fare soffrire.

Ed allora la rabbia che, naturalmente, ogni tanto, avrebbe avuto occasione di accendersi, rimaneva silente, presente ma sottotraccia, come brace sotto la cenere. E semplicemente non arrivava a coscienza, ma agiva comunque, proprio come la brace che, coperta dalla cenere, non manifesta il suo colore, ma scalda con il suo calore.

Ma la rabbia non è l’espressione della rabbia. Vorrei distinguere questi due piani e riservare alla parola “rabbia” il riferimento allo stato emotivo, al vissuto, a quello che sentiamo dentro di noi quando siamo arrabbiati. Al contempo preferirei chiamare “espressione della rabbia” tutto ciò che facciamo per dire al mondo, ed a noi stessi, che siamo arrabbiati. Penso che questa distinzione sia utile perché ci permette di separare l’emozione, che quando sorge ha una sua profonda ed assoluta legittimità, dai modi in cui la esprimiamo, che invece non sono tutti legittimi, equivalenti, utili.

Mustaki – mind and fusion

Quando sentiamo rabbia è perché il mondo (una persona, una situazione, un’istituzione, un evento, noi stessi) ha fatto qualcosa che ha negato una parte di noi. Un bimbo può arrabbiarsi tantissimo quando la mamma si rifiuta di permettergli di giocare con il martello del suo papà; uno studente perché un insegnante lo ha valutato in modo, secondo lui, ingiusto; un adolescente perché i genitori non lo lasciano stare fuori fino a mattina il sabato sera ed i genitori perché il figlio non rispetta il loro divieto di usare il cellulare a tavola. Il problema, per quel bambino, non è il martello ma lo stop al suo desiderio di esplorare. E per lo studente non è solo il voto a fare male, ma il naufragio, di fronte al roccioso “arbitrio” dell’insegnante, della possibilità di determinare, con il proprio impegno e la propria prestazione, il risultato di una verifica. All’adolescente che si sente grande, viene sbattuto in faccia che non lo è, ed ai genitori, che vivono come un riconoscimento del loro ruolo il rispetto delle regole che impongono, quel riconoscimento viene negato.

Dal loro punto di vista, tutti stanno soffrendo perché è stata loro negata la possibilità di fare qualcosa che è diretta conseguenza del modo in cui essi concepiscono la loro identità. Si arrabbiano, insomma, perché hanno sentito minacciato qualcosa di profondamente nucleare. E di fronte a questa minaccia gridano, attraverso l’emozione della rabbia, un sonoro no.

Potremmo quindi immaginare la rabbia come una spia di allarme che si accende sulla plancia di comando e segnala che qualcosa di grave ed importante sta succedendo, per cui è necessario mobilitare le nostre energie per risolvere il problema.

Essa è infatti una emozione potente, forte, che prepara all’azione, al fare. Quando siamo arrabbiati non sentiamo fatica né dolore, il nostro pensiero è completamente calamitato da quella spia accesa. Tutto il resto sparisce.

Ed allora talvolta accade che, appunto, facciamo cose in modo impulsivo, “incontrollato”, noncuranti delle reali conseguenze. Questa tuttavia non è più rabbia, ma espressione della rabbia, espressione che può essere meno legittima, corretta, utile. Perché ci sono molti modi di esprimere la rabbia e non sono equivalenti. E noi possiamo scegliere.

Purtroppo però una sorta di psicologia del senso comune, di cui è imbevuto anche il nostro linguaggio, tende a dipingere la rabbia come un demone che si impossessa di noi e rispetto al quale noi siamo passivi (ed allora è chiaro che il nostro sforzo deve concentrarsi sull’evitare di arrabbiarsi…). Consideriamo ad esempio le espressioni: accecato dalla rabbia, divorato dalla rabbia, dominato dalla rabbia. Come se con questa emozione (ma con le emozioni in generale) non fosse possibile un rapporto diverso da quello della dominazione: o la persona domina le emozioni o ne è dominata.

Sono profondamente convinta non solo che esistano altre strade, ma che nemmeno sia sensato puntare al “dominio” della rabbia per evitare di esserne dominati. Questa emozione è importante, quando arriva ci dice che ci sta accadendo qualcosa che merita la nostra completa attenzione, ci parla di noi, delle cose che per noi sono importanti e che, in qualche modo, avvertiamo in pericolo, è preziosa e possiamo ascoltarla, dialogare con lei per comprendere cosa ci sta accadendo. È preziosa Se non la giudichiamo sbagliata a prescindere, se non ci spaventiamo ma la frequentiamo, impariamo a conoscerla, ad abitarla, se mettiamo a servizio di questa potente molla per l’azione la nostra capacità di riflettere, comprendere ed anticipare scenari, se, insomma, ci concediamo di arrabbiarci e di scegliere come esprimere la nostra rabbia, nel rispetto di noi stessi e degli altri.