La guerra dentro

di Sara Feltrin

Zona rossa, zona gialla o zona arancione. Bar e ristoranti tornano a chiudere le serrande, i negozi hanno le ore contate e le scuole perennemente in ballo tra lezioni in presenza e lezioni online. Non si parla d’altro ormai, il Covid-19 è tornato al centro di ogni comunicazione, protagonista indiscusso delle nostre giornate. Ci troviamo di nuovo costretti a seguire delle direttive che limitano inevitabilmente il ciclo delle nostre giornate, cambiano le abitudini e non siamo più liberi. Oltre agli effetti più strettamente pratici e concreti, la pandemia sta portando ad una serie di conseguenze psichiche importanti e i più recenti studi lo dimostrano: ansia, panico, fobie, depressione e angoscia risalgono come un deja-vu, ma non è un deja-vu. E’ la seconda ondata della pandemia e coinvolge tutto il mondo, grandi e piccini. Ma gli adolescenti? Quella miriade di ragazzi e ragazze che in questo delicatissimo momento storico, stanno costruendo le fondamenta per il loro futuro e le basi della loro personalità. Quella fetta di popolazione che vive nel limbo tra la fanciullezza e l’età adulta, tra l’abbandono di un mondo, quello infantile, non più adatto alle loro esigenze e il lancio verso un mondo ignoto, quello dell’età adulta, in cui vengono proiettati bisogni, aspettative, sogni e desideri. Loro dunque, dove li abbiamo lasciati? Un pò come con i banchi con le rotelle, ci si è concentrati così tanto sulla didattica scolastica, sulle lezioni in presenza oppure online, su una parte del tutto, che si è perso il focus della una visione più generale e delle vere priorità che caratterizzano il mondo adolescenziale, che non è solo la scuola. DAD (Didattica A Distanza) o DDI (Didattica Digitale Integrata), qualsiasi acronimo il Ministero voglia utilizzare, il principio però, non è la didattica fine a se stessa, perchè la scuola non è solo didattica, ma anche rapporti sociali, relazioni, confronti, fuori e dentro la scuola, l’esporsi al mondo con tutta una serie di atteggiamenti, comportamenti, stili personali, modi di vestire, truccarsi e comunicare, che solo l’esperienza sul campo può offrire. Uscire di casa, andare a scuola, andare a basket o a musica, significa proprio questo: vivere quella linfa vitale e quegli istinti che devono essere vissuti, toccati, conosciuti, per poter costruire la propria identità, creare la propria strada, con la tenacia e l’autoefficacia formatesi durante queste fondamentali esperienze di vita che danno forma e senso alla loro esistenza. 

Tutto questo è stato spostato sulla rete ormai da un pò, soprattutto con l’incremento dei social network e di tutte quelle piattaforme che portano alla creazione di un’identità digitale e, con essa, una fitta rete di relazioni digitali che favoriscono costanti confronti e ricerca di conferme. Come si fa quindi, a fare esperienza online, dove ogni situazione e ogni relazione viene creata e gestita ad hoc, su misura di un proprio avatar che difficilmente rispecchia l’identità della vita reale, ma un’identità ideale e immaginaria spesso irrealizzabile nella realtà. Come si fa a fare esperienza dietro uno schermo, dove emozioni e sentimenti vengono digitalizzati o scansionati in jpg o, meglio ancora, in pdf così tutti possono leggerli e nessuno può modificarli. Tanti sono i sentimenti che non riescono ad esprimersi, perchè per poterlo fare hanno bisogno di essere compresi e contenuti con empatia, condivisione, contatto e presenza

E ora, con la pandemia, dove qualsiasi forma di contatto o presenza è vietata, tutto questo si è amplificato a dismisura, ingigantendo il bisogno di uscire, di vedere gli amici, di mostrarsi al mondo e di essere liberi. Più di tutti quindi, in questa pandemia, ci stanno rimettendo loro, i bambini di ieri e gli adulti di domani, che si trovano bloccati e rassegnati a schiacciare impulsi e desideri sotto un cuscino.  

Rassegnazione, frustrazione, delusione e tristezza: queste sono le emozioni che prevalgono; di rabbia ce n’è poca, perchè la rabbia nasce quando c’è un fuoco dentro che brucia, un’energia vitale che arde per un desiderio o un obiettivo che in qualche modo ci viene ostacolato, e ci si arrabbia, sii reagisce, si lotta. Ma oggi, per la gran parte dei nostri adolescenti quel fuoco dentro si è trasformato in una piccola fiaccola alimentata da una lieve speranza che “le cose passino in fretta e che si sistemi tutto al meglio”. E più le delusioni procedono, più quel fuoco rischia di spegnersi, come si spengono impulsi e istinti, essenza vitale del corpo umano (e non solo adolescenziale). E’ facile capire, quindi, come la curiosità, l’intraprendenza e la motivazione inizino a mancare e come dall’essere attivi si passi all’essere passivi verso il mondo, il mondo esterno, ma soprattutto il mondo interno.  

D’altronde come fa un ragazzo, oggi come oggi, ad immaginarsi un futuro? o semplicemente a proiettarsi, tra qualche anno, in vesti di chi vorrebbe essere? Il futuro, lo indica il nome stesso, non è mai stato certo per nessuno, però, costruirlo in un presente più o meno chiaro e ricco di opportunità di crescita è ben diverso dal costruirlo in un presente di totale confusione e incertezza: in questo momento è difficilissimo per i nostri giovani definirsi, percepire i loro bisogni e desideri. Se somministrassimo loro un tema di italiano con la classica consegna “descriviti e racconta di te” penso che non potremo proporgli un lavoro più arduo e angosciante. 

Occorre quindi aiutarli a trovare la motivazione e la voglia di investire su se stessi, oggi più che mai; aiutarli ad avere massimo contatto con la loro sofferenza, la loro delusione e la rabbia nascosta dietro un profondo senso di frustrazione e rassegnazione. Dobbiamo aiutarli ad esprimersi, ad urlare, a pretendere e lottare per il loro futuro, per un ritorno alla vita reale molto diversa e, per certi aspetti anche spaventosa, della realtà digitale. Compiere questo passaggio, abbandonare il Sè virtuale/ideale e rientrare nelle vesti del complesso Sè reale, non sarà affatto semplice. Come non sarà semplice riprendere contatto con quelle relazioni difficili che il digitale ci consentiva di dimenticare. 

Cari adulti, cari mamma e papà: il Covid e le restrizioni che esso porta con sé  non devono diventare dei muri insormontabili, ma opportunità di relazione, di stare assieme, con noi stessi e in famiglia. Coltivare tempo e spazio di vita reale anziché connessi ai social o alla rete. Il mondo dei vostri figli è prevalentemente tecnologico oramai e non possiamo eliminare questa componente importante dalla loro vita, essendo quello l’unico contatto col mondo esterno, potete però insegnargli e guidarli ad un utilizzo consapevole e limitato di dispositivi elettronici, smartphone e tablet. Comunicate con la loro lingua tecnologica, partecipate alla loro vita digitale ma insegnategli a utilizzare lo smartphone per chiamare o scrivere agli amici, usare il pc per le videolezioni e lo studio; aiutateli ad allontanarsi dalla costante ossessione dei social network, dalle lunghe attese dei like, dei feedback rinforzanti che non fanno altro che alimentare il loro precario fatto spesso di incertezze e timori. Ascoltate i loro bisogni, le loro necessità, aiutateli a riprendere in mano le loro passioni e i loro interessi perchè le risposte non si trovano dietro uno schermo ma dentro di loro, dentro di voi insieme a loro, nelle scelte che fanno, nella vita che conducono e negli spazi che vivono. 

Infine, cari ragazzi, care ragazze: avete tutta la ragione per essere delusi e frustrati dalla realtà che vi si pone davanti, però il futuro siete voi e il futuro, per cambiare, ha bisogno di un fuoco che arde e che lotta per perseguire obiettivi e desideri. E noi, come adulti, vi aiuteremo ad accendere quel fuoco e quell’energia vitale per pianificare gli anni che verranno, senza gli sbagli delle generazioni passate e con la resilienza di chi ha saputo reggere una guerra dentro e la tenacia di chi ha saputo pazientare e vincere. 

Covid-19 parte 2

di Sara Feltrin

Ripartiamo da ciò che abbiamo imparato, dalla nostra vulnerabilità.

Parla chiaro il nuovo DPCM del 24 ottobre 2020 e parla di un pericoloso picco di contagi che potrebbe compromettere ancor di più la salute degli italiani e del popolo mondiale. Così, via libera a restrizioni, coprifuoco e indicazioni strettamente consigliate. Così, il nuovo decreto ci pone davanti a quell’immaginario tanto temuto quanto forse non preso troppo sul serio, che il Virus sarebbe tornato a seminare panico, terrore, paura, sconforto, senso di fallimento collettivo ma soprattutto, quel senso di vulnerabilità a cui a fatica ci eravamo abituati e che presto abbiamo abbandonato. 

D’altronde, era inevitabile.

Il Virus che a marzo ci aveva messo alle strette, portando ognuno di noi ad interrogarci sui nostri bisogni e stili di vita per riordinare priorità e trovare un compromesso tra noi e gli altri, è tornato a porci davanti a quello stesso specchio che ora riconosciamo bene ma, come qualche mese fa, facciamo fatica a guardarlo e guardarci dentro.

Così, ricominciamo.

Ricominciamo a fare spazio in casa, ordine nella mente e ridimensionare le nostre abitudini. Ricominciamo a fare i conti con la nostra fragilità e la nostra vulnerabilità di esseri umani, non onnipotenti, che inevitabilmente trascinano con sé l’ansia di un futuro incerto e l’angoscia di un senso di sé costretto e bloccato nella propria autonomia, libertà e indipendenza, tasselli fondamentali per la realizzazione personale. 

L’epidemia ci ha bloccati di nuovo, ma questa volta noi abbiamo qualche carta in più: è un panorama che abbiamo già vissuto, dal quale qualcosa abbiamo imparato e dal quale possiamo ripartire. Non affrettandoci a supermercati e farmacie ma prendendo contatto con noi stessi prima di tutto, e con chi ci sta vicino. 

La pandemia da Covid-19 ci ha insegnato tante cose: 

  • Ci ha insegnato che la collettività, la collaborazione e il senso di comunità sono fondamentali e che i piccoli gesti possono diventare i grandi cambiamenti.
  • Ci ha insegnato la possibilità di poter lavorare e studiare da casa, imparando a gestire orari e responsabilità in autonomia e (per chi più, per chi meno) indipendenza, migliorando la flessibilità al cambiamento.
  • Ci ha insegnato a fermarci: non più succubi delle incombenze a rincorrere affannosamente il tempo ma guidarlo e gestirlo in base ai nostri bisogni. 
  • Ci ha insegnato a stare in famiglia: che non è più una dimensione così scontata ma è parte di noi, del nostro passato, presente e futuro. Riscoprire noi stessi nel nucleo familiare e il rispetto per gli altri, la loro presenza, i compromessi, le attese, l’ascolto, il dialogo, i litigi, le discussioni e il fare la pace. 
  • Ci ha insegnato a fare amicizia con l’incertezza: accettare che non abbiamo sempre tutto sotto controllo e che l’incertezza del quotidiano fa parte della vita, dell’essere umano e come tale, possiamo imparare ad affrontarlo con serenità.
  • Ci ha insegnato, nonostante tutto, a coltivare le relazioni a distanza perchè gli amici, i colleghi e tutte quelle persone che quotidianamente diamo per scontate, possono mancare come l’acqua e, come l’acqua, ne abbiamo bisogno, perchè ci danno quel senso di appartenenza e comprensione che non sempre possiamo trovare a casa. 
  • Ci ha insegnato, soprattutto, a prenderci cura di noi stessi, a dare spazio a quelle passioni e a quegli interessi che forse avevamo messo da parte perchè già troppo saturi di impegni.   

Quindi, caro Virus, sarai anche potente e pericoloso, ma non ci spaventi, perchè possiamo ripartire da quello che ci hai tolto e da quello che ci hai dato, con la consapevolezza acquisita durante questi mesi e la speranza che il futuro che vogliamo ci sta attendendo immune e di certo non smetterà di lottare.

Recensioni 2: I ragazzi della Nickel

di Francesca Del Rizzo

«Era l’estate del 2014 quando ho letto un’inchiesta sulla Arthur G. Dozier School. Era una storia della quale si era scritto molto, soprattutto sui quotidiani della Florida settentrionale, ma questa era la prima volta che ne sentivo parlare. Stavano riaprendo le tombe senza nome per cercare di capire chi vi fosse sepolto. Leggendo le storie dei sopravvissuti, soprattutto bianchi anche se la maggior parte degli studenti in quella scuola era afroamericana, mi sono chiesto che tipo di storia avrei potuto ricavare dalla parte nera del college. Ho scelto di fare iniziare il libro nel 1963 perché era il culmine delle leggi Jim Crow e della segregazione e discriminazione nel Sud, ma era anche il momento in cui i movimenti per i diritti civili stavano acquistando forza», racconta lo scrittore Colson Whitehead ad Alessandra Tedesco che lo intervista per il Sole24ore.

Colson Whitehead

La Arthur G. Dozier School (vedi ad esempio qui) era una “scuola di correzione” alla quale venivano mandati i ragazzi, bianchi o neri, che avevano guai con la legge o con i servizi sociali. Ed è a questa sorta di inferno in terra che Whitehead si ispira per trarne una storia intensa e straziante, che scrive con una maestria che gli vale il suo secondo Pulitzer per la fiction e che ammalia noi lettori che, una volta aperto il libro, non riusciamo a chiuderlo più, fino alla sua fine.

La narrazione si concentra attorno alle figure di due ragazzi: Elwood Curtis, ragazzo nero che aspira a frequentare il college grazie alle sue capacità ed alla sua determinazione, e Turner, già ospite della Nickel (questo è il nome dell’istituto di correzione del romanzo) quando Elwood vi viene mandato. Sì, perché Elwood ha la sfortuna di accettare un passaggio in un’auto rubata che verrà fermata dalla polizia e quindi, pur essendo assolutamente estraneo al furto, verrà considerato complice del ladro.

Elwood affronta quell’inferno di crudeltà e violenza con la dirittura etica e morale che gli è propria e che in lui trova forza e legittimazione grazie allo studio dei discorsi di Martin Luther King, discorsi che Elwood ascoltava grazie al giradischi della nonna: “Non possedevano un televisore, ma i discorsi del Dottor King erano una cronaca così vivida – contenente tutto ciò che i neri erano stati e sarebbero diventati – che quel disco era quasi interessante quanto la TV. forse addirittura migliore, più maestoso, come l’imponente schermo del Davis Drive-In, dove Elwood era stato due volte. Gli mostrava tutto: gli africani perseguitati dal peccato bianco della schiavitù, i neri umiliati e tenuti sottomessi con la segregazione, e quella luminosa immagine del futuro quando tutti i luoghi chiusi alla sua razza sarebbero stati aperti.”

“Elwood si atteneva ad un codice, e il Dottor King dava a quel codice forma, espressione e significato.”

“Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.”

Martin Luther King

La Nickel cerca in tutti i modi di piegare Elwood, di azzerare la sua speranza, la sua fede nel bene, ma non ci riesce. Eppure non ci può essere lieto fine in quel mondo. L’epilogo però è narrativamente magistrale e non si può proprio parlarne per non rovinarlo: deve essere letto, parola dopo parola.

Dopo L’età dei sogni, Come Teen&20 proponiamo I ragazzi della Nickel come lettura per ragazzi ed adulti non solo perché tratta di un tema a noi caro, quello delle discriminazioni razziali, e non solo perché si tratta di un libro meraviglioso dal punto di vista letterario, ma anche perché è una storia che parla di relazioni e con chiarezza indica la differenza fra le relazioni di oppressione, caratterizzate dall’uso del potere, della violenza e della paura e le relazioni vere, quelle dove le persone si guardano negli occhi e si riconoscono, si rispettano, si stimano e sono disposte a rischiare l’una per l’altra e per il valore che ha per loro la loro stessa relazione.

Ma è anche un libro che parla di come si possa resistere all’esercizio del potere e di come non ci siano scusanti alla responsabilità individuale, anche all’interno di sistemi ed organizzazioni violenti ed opprimenti.

Naturalmente Whitehead, nero americano, ha in mente la società statunitense quando scrive, ad Alessandra Tedesco dichiara infatti: “L’America è estremamente razzista. Chi non ha votato Obama alle ultime elezioni è stato contento di aver portato un razzista, misogino e demagogo alla Casa Bianca e tutta questa gente odiosa stava solo aspettando qualcuno che desse loro il permesso di agire. Ora i crimini di odio, i crimini razzisti e gli episodi di antisemitismo sono cresciuti rispetto a prima. Trump ha permesso alla gente di tirare fuori il peggio di sé, allo stesso modo in cui lui ha concesso a sé stesso di esprimere il peggio di sé”.

L’episodio recente di Beatrice Ion, di cui anche noi abbiamo parlato in un recente articolo, così come infiniti altri che accadono ogni giorno nel nostro paese, ci dice che non possiamo dichiararci esenti e che non dobbiamo mai smettere di tenere aperto questo file, per noi e per i nostri ragazzi.

Recensioni 1: L’età dei sogni

di Francesca Del Rizzo in collaborazione con “Due lettrici quasi perfette”

L’omicidio di George Floyd e il movimento Black Lives Matter ci stanno facendo riflettere – perché davvero non è mai abbastanza – sulla persistenza di pensieri, atteggiamenti, comportamenti, delitti razzisti anche in questo XXI secolo di ipermodernità.

In molte occasioni su questo sito abbiamo avuto modo di illustrare atteggiamenti discriminatori nei confronti, in particolare, delle persone con orientamento non-eterosessuale. Ora è venuto il momento di rivolgere il nostro sguardo al problema della discriminazione razziale, almeno cominciamo e almeno ci proviamo. E proviamo a farlo grazie alla collaborazione di Lea e Stefi, le nostre due amiche autrici del blog “Due lettrici quasi perfette”.

Instancabili lettrici e persone attente e competenti, raccolgono nel loro blog una quantità importante di recensioni fra cui abbiamo trovato particolarmente interessante in questo momento quella che riguarda il libro L’età dei sogni di Annelise Heurtier, un libro adatto anche per adolescenti che anche di adolescenti racconta.

Esso si ispira infatti a ciò che è accaduto nel 1957 ai “nove di Little Rock”, i nove ragazzi neri che per primi furono ammessi al liceo pubblico – bianco – di Little Rock in virtù dei loro meriti scolastici. Per far rispettare il loro diritto ad entrare a scuola il presidente Eisenhower dovette inviare l’esercito, ma, nonostante questa protezione, i ragazzi e le loro famiglie continuarono ad essere oggetto di aggressioni e discriminazioni. Trovate qui un articolo che racconta questa storia e che può essere fonte di ulteriori informazioni, oltre che di documentazione fotografica.

Questa è la trama del libro: Settembre 1957, Grace e Molly hanno 15 anni e sono alla vigilia di un anno scolastico importante. La prima è la reginetta della scuola, con una famiglia benestante alle spalle e gli amici che l’adorano; la seconda è tra i nove studenti neri ammessi per la prima volta nella storia degli Stati Uniti a frequentare un liceo di bianchi. Entrambe hanno qualcosa da imparare l’una dall’altra: Grace dovrà superare le barriere del conformismo e cominciare a pensare con la propria testa, Molly dovrà accettare la mano tesa da parte di chi pensava provasse solo odio nei suoi confronti. 

La figura di Molly è proprio ispirata a quella di Melba Pattillo, una delle ragazze nere dei nove di Little Rock. Lea ci racconta che Molly “si trova ad  accettare quell’anno in un liceo di bianchi senza stare troppo a rifletterci, ma  quella decisione stravolgerà per sempre la sua vita.  Pagherà il prezzo che viene richiesto a tutti quelli che hanno il coraggio di aprire la pista e spianare la strada agli altri. E’ un cammino di solitudine, senza vera  riconoscenza da parte di nessuno. Alla fine è così che funziona: c’è chi sacrifica e quello che ne riceve in cambio, nel caso più fortunato, è l’ indifferenza.” 

i nove di Little Rock

La figura di Grace rappresenta invece l’opposto di Molly: è la classica “reginetta della scuola. A lei interessano i vestiti e i ragazzi (uno in particolare) e per nulla le questioni inerenti la razza”. Succede però che “Assistere a tutte le umiliazioni a cui è soggetta giornalmente Mary, porta Grace a farsi delle domande, a chiedersi perché le cose debbano andare in  quel modo. All’inizio è solo un interrogarsi, un fastidio indistinto che a poco a poco la porta ad una presa di posizione. Le conseguenze non tarderanno ad arrivare. Il libro non ci risparmia la sofferenza che nasce dall’assistere a queste gravi ingiustizie e infligge al lettore una grande, grandissima amarezza, appena mitigata dalla speranza. L’autrice è riuscita a scrivere un romanzo potente, senza sbavature, mai moralista o didascalico.” 

Immergersi nella Storia, anche recente, attraverso le storie delle persone che l’hanno fatta o attraversata – anche quando sono figure solo ispirate ai protagonisti reali – ci permette di partecipare a ciò che è stato, di sentirne il peso, perché ci identifichiamo con quelle persone, arriviamo a viverne le emozioni, le fatiche, le paure e le speranze. Facciamo esperienza con loro, ed i grandi Eventi non sono più solo una pagina di Wikipedia o “qualcosa di cui ho sentito parlare”, ma possono diventare parte di noi, parte del nostro patrimonio di vita.

Possiamo così conoscere e sentire vicino e prossimo, ciò che sembra lontano e distante. La discriminazione, in tutte le sue forme, è frutto di mancanza di conoscenza che genera paura che genera distanza che genera mancanza di conoscenza in un circolo vizioso e perverso.

Noi di Teen&20 ringraziamo Lea per questa recensione che ci introduce ad uno strumento utile a ricucire la distanza ed invitiamo tutti coloro che ci leggono a fare propria anche la storia di Molly e Grace. A conoscere, non temere, avvicinare.

Notte prima degli esami

di Sara Feltrin

Antonello Venditti

Scriveva così Antonello Venditti nel 1984 quando ancora la notte prima degli esami era fatta di serate con amici, una pizza con i compagni di classe tra grandi risate e qualche beffa ai professori, ma anche lunghi pianti, prime follie d’amore e, per alcuni, l’ultima sfida scolastica.

Notti insonni in preda all’ansia e all’immaginazione che non smetteva di pensare all’ultimo giorno di scuola, ai banchi occupati da quei compagni di scuola che forse mai, come in quel momento, rappresentavano solidi pilastri di un’identità collettiva e unita, elementi di conforto di un vissuto che, in quei giorni prima degli esami, solo loro avrebbero potuto capire: la maturità. O meglio, l’attesa per la maturità. Sì, perché la maturità mica arriva con la prova di italiano o di matematica, né tantomeno all’esame orale; anche perché insomma, agli esami ci si abitua prima o poi. E’ ciò che la maturità nasconde implicitamente che angoscia più di tutto: la maturità quella vera, quella che arriva quando non sai che arriva. Ma la senti perchè è lì, lì dietro l’angolo ad aspettarti. E sai che, da quel momento, tutto cambia. Tutto cambia: la scuola lascia spazio all’università o per altri al lavoro, i compagni di classe chissà, ognuno prende la propria strada, amori che vanno e amori che vengono, mamma e papà pronti a consegnare “le chiavi” per l’autonomia, responsabilità che aumentano, insomma: si diventa grandi. Volenti o nolenti, è ora di crescere. Tutto cambia e l’angoscia del futuro sale alle stelle. 

Ecco che, nella notte prima degli esami, il pensiero di rivedere per l’ultima volta i propri compagni di banco all’interno di quella classe che, come un’amica fedele, ha saputo contenere per anni gioie e dolori, la mamma e il suo abbraccio di conforto, il papà e la mano sulla spalla, diventano cure di sollievo, fondamenti sui quali costruire la propria identità, il proprio futuro, la propria vita.  

Ma non siamo nel 1984, siamo nel 2020 e l’immagine che salta in mente se pensiamo a esami di stato 2020 è, più o meno, questa:  

con un grande punto di domanda.  Seguito dall’ordinanza del Miur (O.M. del 16 maggio 2020) che cita: 

Esami del primo ciclo: L’esame di Stato delle studentesse e degli studenti coincide, quest’anno, con la valutazione finale da parte del Consiglio di Classe e terrà conto anche di un elaborato prodotto dall’alunno, su un argomento concordato con gli insegnanti.

Esami del secondo ciclo: Gli Esami del secondo ciclo avranno inizio il 17 giugno alle ore 8.30. Previsto, per quest’anno, il solo colloquio orale. I crediti e il voto finale si baseranno sul percorso realmente fatto dagli studenti.

Il Covid-19 ha destabilizzato tutto, ha anticipato senza alcun preavviso quel tutto cambia angosciante già di per sé. Nessuno era pronto e nessuno si sarebbe aspettato un colpo di scena così drastico. 

I nostri ragazzi e i nostri nuovi maturandi si prestano a lanciarsi in una nuova missione verso un territorio da mesi abbandonato e rivisitato in vesti diverse: non più l’ennesimo ritrovo tra compagni e professori, la lotta del prendersi i posti migliori tra i banchi e la forte sensazione di condividere insieme un’esperienza collettiva unica, ma un ritrovarsi con i professori allineati dietro dei banchi resi insipidi dal disinfettante e una mascherina che non lascia trasparire nemmeno l’accenno ad un sorriso amichevole di un rassicurante tranquillo, andrà tutto bene. E’ una maturità insolita che non ha dato la possibilità o meglio, l’opportunità, di vivere quell’esperienza unica, tra ansia e adrenalina, che ha contagiato i maturandi degli anni passati. Il lockdown ha impedito i momenti, forse più significativi, che colorano l’immaginario degli adolescenti in questo momento di crescita difficile e delicato: l’ultima gita scolastica, l’ultima settimana di scuola appesantita dalle interrogazioni di recupero ma alleggerita dal calore del sole di giugno che apre le porte all’estate, agli ultimi giorni di autogestione, al suono dell’ultima campanella, agli ultimi scambi di sguardi celati e agli ultimi baci segreti durante la ricreazione, fanno il saldo di tutte quelle esperienze d’oro che per mesi hanno fantasticato e sognato all’interno delle loro stanze, tra videochiamate e social network. Hanno fatto i conti con loro stessi, con ciò che vorrebbero e non vorrebbero, con ciò che avrebbero fatto appena usciti dal lockdown, una considerazione su qualche amicizia persa e per alcuni un maggiore apprezzamento all’ambiente di casa.

La scuola non rappresenta più solo il luogo in cui imparare e sperimentare il successo scolastico e prestazionale, ma è diventata il luogo in cui più di ogni altro, si lotta alla valorizzazione e al successo personale e affettivo. E’ diventata una seconda casa in cui ognuno investe in tante relazioni affettive e, come succede a casa, se queste relazioni sono sane e positive allora favoriranno maggiormente partecipazione e apprendimento; al contrario, se queste relazioni dovessero rivelarsi mendaci e deludenti, allora tutto il palco crolla: ascolto, partecipazione, apprendimento, relazioni e, di conseguenza, valorizzazione personale. 

Un momento in cui, per gli adolescenti del giorno d’oggi la ricerca al rispecchiamento (condivisione di sentimenti ed emozioni), all’essere cioè riconosciuti, ammirati e valorizzati si rivolge prevalentemente nella cerchia dei coetanei che molto spesso vengono percepiti, a scapito degli adulti, più competenti nel riconoscere e valorizzare le loro modalità espressive e creative (Matteo Lancini, Adolescenti navigati).

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha letteralmente sradicato i nostri ragazzi fuori del loro habitat naturale (la scuola, le piazze, il cinema o qualche centro commerciale) impedendogli vicinanze, fisiche ed emotive, fondamentali per la crescita, la costruzione della loro identità, per quel famoso diventare grandi che la prova di maturità, questa maturità ancor di più, sembra imporre.

Penso principalmente ai maturandi o coloro che dovranno salutare la loro scuola per affrontare, a settembre, il critico passaggio alle scuole medie o ancor più determinante, all’università o al lavoro. In questo momento in cui l’incertezza regna sovrana, trovare un luogo di attracco quanto più sicuro e fermo non è per niente semplice. “Sto cambiando io, stanno cambiando le mie idee, sta cambiando il mondo là fuori e non c‘è niente di fermo.” 

Con i test di ammissione e gli open day delle università rimandati, è diventato ancora più difficile prendere decisioni; e l’insicurezza del futuro, di questo futuro post Covid-19, porterebbe anche lo studente più deciso e convinto a mettere in discussione le proprie priorità e le proprie scelte. D’altronde come può un adolescente che sta crescendo e cambiando, vedersi proiettato verso una realtà che sta cambiando a sua volta? Come è possibile pensare ai prossimi mesi, o per i più caparbi al prossimo anno, quando oggi non sappiamo nemmeno se programmare le ferie delle prossime settimane? Beh, una cosa è certa: potranno raccontare ai loro nipoti di essere stati dei veri e propri sopravvissuti ad una delle più grandi epidemie mondiali degli ultimi secoli, ma soprattutto, potranno vantare l’onore di aver affrontato una delle più grandi sfide personali.

E da quel giorno decisi che non avrei mai più avuto paura

di Giacomo Deperu*

Introduzione a cura di Rosa Olga Nardelli

Le vite degli altri: attivisti di ieri e di oggi

Ascoltare le esperienze degli altri, leggere il percorso che ha portato una persona diventare quella che è oggi, ripercorrere come in un film gli eventi personali e affiancarli a quelli storici, permette di avvicinarci a quelle storie come fossimo degli spettatori. Come se fossimo a teatro e ci emozionassimo ad entrare nelle vite degli altri.
Questa emozione ci consente di abbassare la guardia e di sentirci meno minacciati dal “nuovo” che l’altro rappresenta: entrare in contatto con l’altro, soprattutto se lo sentiamo lontano da noi, ci fornisce un modo alternativo di costruire le storie e ci dà la possibilità di dare nuovi significati a ciò che ritenevamo scontato e, talvolta, precostituito. Ci consente di smettere di avere paura. Il passo successivo è la caduta di stereotipi e pregiudizi, dal momento che siamo più predisposti ad ascoltare.
Le storie che vi proponiamo oggi e martedì ci raccontano le vite di due attivisti lgbt (e non solo): Giacomo, attivista di ieri che non ha mai smesso di esserlo; e Diego, attivista di oggi, che in un certo senso riprende il lavoro di Giacomo e lo mette a disposizione di altri. Entrambi impegnati per la stessa causa, ovvero produrre un cambiamento e camminare a testa alta.

Il terrore. A questo penso quando ricordo gli anni della mia adolescenza. Scoprire il mondo significava nascondermi dal mondo; solo pochi, lunghissimi anni dopo lessi “Il processo” di Kafka e riuscii a dare una collocazione a ciò che mi era accaduto.

Come molti omosessuali, anch’io ho imparato di essere “finocchio” dalle battute dei compagni a scuola, dagli sguardi dei ragazzi al bar in osteria. Dagli atteggiamenti colpevoli di tanti adulti.
Non sapevo ancora cosa fosse la sessualità ma già sapevo che l’omosessualità, la mia omosessualità, era il male.

Terrorizzato, perché le prese in giro, le aggressioni verbali del gruppo dei bulli, specialmente in quell’incubo con le ruote che era la corriera del ritorno dopo scuola, temevo mi esponessero all’umiliazione di dover rivelare la mia omosessualità alla mia famiglia. Che successivamente, una volta imposta, accetterà abbastanza bene la mia omosessualità, ma solo quando tutto il percorso di elaborazione ed accettazione era ormai avvenuto nel più completo abbandono. In anni dolorosissimi.

Erano gli anni ‘80, Boy George mi aveva affascinato dalla copertina del 45 giri “Do you really want to hurt me?”
Molti di voi si staranno chiedendo: cos’è un 45 giri? E questo mi fa sentire vecchio. Ma sentivo che io e Boy George eravamo “di famiglia”: quale lo capii solo dopo. Ed era la famiglia dei diseredati, non dei “culattoni”.

Avevo appena 14 anni quando, in cucina con mia mamma e mio fratello, diedero alla radio la notizia che un virus uccideva gli omosessuali. Mia madre ci disse di fare silenzio per ascoltare meglio la notizia e, simulando indifferenza, cominciai a morire dentro. “Morirò” pensai, perché sono omosessuale. Ero talmente ingenuo che le dinamiche sessuali legate al contagio mi sfuggivano totalmente e non bastava perciò la mia verginità a farmi star tranquillo. Non c’era Google al quale fare domande in segreto, non c’era Grindr sul quale fare due chiacchiere e quattro scopate. “Morirò” pensavo, e così scopriranno che sono “finocchio”: l’outing concepito peggio della morte. Sembrava non esserci fine al terrore kafkiano.

Nella compagnia di amici del paese lo avevano capito tutti che ero gay. Fra di loro sono sicuro però che non usassero termini così eleganti per descrivermi.
Il paese se non ti ammazza ti adotta e questa forse è stata l’unica fortuna. Ma non esisteva internet, non avevo contatto col cosiddetto “mondo gay” che non sapevo nemmeno esistesse: al mondo, ne ero certo, omosessuali eravamo solo io e Renato Zero! Immaginatevi lo stupore quando quest’ultimo negò di esserlo: rimanevo solo io…

Riuscii a limonare qualche ragazza di tanto in tanto, quel po’ che bastava a darmi una parvenza eterosessuale per stare in società. Ma crescendo, sapevo che mi attendeva l’incubo di dover affrontare il rapporto sessuale con una donna: non ci sarei mai riuscito, ne ero certo. E quel giorno mi sarei ammazzato per la vergogna.
“Quel giorno” divenni abile a spostarlo sempre più in là e, fortunatamente per me, sfortunatamente per i miei amici etero, le occasioni in paese non erano poi molte.

Avrei proseguito la mia vita così, credo. O forse sarei davvero arrivato a porvi fine tragicamente. Ma un giorno, due sconsiderate ragazze lesbiche venute dalla città, spinte da chissà quale folle idea di poter fare soldi nell’osteria di un minuscolo paese, rilevarono il più famoso dei bar vicino casa. Ovviamente, i loro amici pordenonesi, molti dei quali gay e lesbiche, presero l’abitudine di venirle a trovare e io, con la scusa di arrotondare qualche spicciolo la sera, mi ritrovai a lavorare in quello che ai miei occhi appariva come un “bar gay” a duecento metri da casa in un paese di 800 anime! Incredibile: la montagna che andava da Maometto. E la mia vita cambiò.

Appena maggiorenne non resistetti alla corte di un bellissimo vicino di casa, trentenne (all’epoca mi sembrava così adulto, oggi potrei avere un figlio di 30 anni…) che tutte le sere veniva a bere il caffè al bar: una sera volle mostrarmi i suoi gatti a casa… oggi gli darei un pugno sul naso solo per la banalità della scusa, eppure mi innamorai come una pera cotta e fu il mio primo bacio ad un uomo. Niente altro che un bacio, che cambiò la mia vita.
La mattina successiva, da solo nel mio letto, aprii gli occhi e li richiusi subito come a cercare dentro di me il turbamento per “quell’atto immondo” compiuto la sera prima: avevo baciato un maschio. Ma dentro di me trovai solo pace.

E da quel giorno decisi che non avrei mai più avuto paura.

Tanto che quando mia madre, vedendomi dalla finestra di casa scendere dall’auto del mio moroso in piena notte, mi attese arrabbiata in cucina e cominciò ad attaccarmi io, con una calma che non sapevo di avere, la fermai e le dissi: “Io ci ho messo anni ad accettare me stesso da solo ed ora sto bene. Se adesso tu ci stai male, è un problema solo tuo e te lo devi risolvere tu”. E andai a dormire. Non si permise mai più di usare quel tono con me.

Poi l’amore del bel trentenne finì presto, imparai le delusioni che tutti provano, forse però senza la palestra di un’adolescenza passata a nascondermi invece che a sperimentare affettività e sessualità. Altri uomini passavano nella mia vita ed uno in particolare mi volle davvero tanto bene. Un mentore per me, si prese cura della mia inettitudine al mondo e mi insegnò a vivere. E a scopare anche, lo facevamo spesso e volentieri, io inesperto ma nel pieno dei miei vent’anni, con l’entusiasmo di chi aveva scoperto un giocattolo nuovo. E lo si faceva, senza preservativo, tanto quel virus che anni prima avevo sentito che uccideva i gay e che adesso aveva un nome, e aveva ucciso Freddie Mercury, era roba da Londra o New York. O Philadelphia. Cosa rischiavo io, ragazzino di periferia?

Fu così che nel sapere che questo importante compagno di tante avventure, all’improvviso, stava morendo di AIDS senza che io avessi mai saputo nulla della sua sieropositività, arrivò una doccia fredda. Avevo davvero rischiato molto ma non gliene ho mai fatto una colpa: eravamo entrambi vittime dell’ignoranza, della paura, dell’abbandono a noi stessi al quale ci condannava questa società. Eravamo diseredati e perciò lui era la mia famiglia. Come Boy George. E a 25 anni dalla sua morte, lo ricordo ancora con immenso affetto e gratitudine.

Nel 1995 sentii parlare del primo “Gay Pride” a Bologna: sentivo che era un evento storico e che non potevo mancare! Soprattutto mosso dagli ormoni e dall’idea dei tanti ragazzi che avrei potuto incontrare, lo ammetto. Ma la sera al Cassero, sede dell’Arcigay bolognese all’epoca ancora nella medievale Porta Saragozza, mentre attendevamo che iniziasse la festa, assistetti ad un dibattito dove questo donnone biondo e riccioluto diceva cose che, parola dopo parola, mi aprivano la testa per ficcarci dentro cose nuove e visioni innovative: seppi poco dopo che era Marcella Di Folco, presidente del Movimento Identità Transessuale e prima donna transessuale al mondo a ricoprire una carica pubblica (consigliera al Comune di Bologna). Quel simbolo di intelligenza e coraggio mi incantò e ancora oggi penso che la sua voce e le sue idee furono forse la mia prima, vera esperienza politica e da attivista. 

Fu poi nel 1996 che incontrai un compaesano che conoscevo solo di vista. Coetanei, elementari e medie nella stessa scuola, ricordavo di averlo visto verso gli 8 anni a ricreazione in cortile e di aver pensato, per la prima volta in vita mia di un altro maschio: “Che bello che è!”.
Ci conoscemmo però in una discoteca gay a Vicenza! Lui, bellissimo e padre di una splendida bimba di 3 anni, credo mi scelse più per disperazione che per il mio fascino. Ma fu così che mi regalò un’esperienza di vita che ci ha visti crescere insieme per 21 anni fino al 2017.

E insieme, nel 2010, posammo per la campagna contro l’omofobia “Civiltà prodotto tipico friulano”: io e lui ci scambiavamo un semplice bacio seduti ad una tavola imbandita, fra vino, prosciutto di San Daniele e Montasio. Un bacio che rivendicava la nostra esistenza alla luce del sole, probabilmente il primo bacio omosessuale in una campagna pubblica nella storia d’Italia. I due manifesti (c’era anche la versione al femminile) scatenarono lo scandalo ma costrinsero, famiglia per famiglia, a discutere del tema dell’omosessualità in ogni casa della nostra regione. Cambiandola per sempre.
Quelle immagini, pubblicate su ogni rivista e quotidiano italiano, vennero in seguito citate come una delle migliori campagne contro l’omofobia per la rivista Wired, richieste dall’Università della California per una pubblicazione universitaria, esposte in una mostra sui temi lgbt in Polonia ed utilizzate per settimane come immagine profilo di tantissimi utenti Facebook in tutta Italia e anche in giro per l’Europa.

Quel ragazzino spaventato aveva definitivamente sconfitto il terrore della sua adolescenza e, a testa alta, si mostrava orgoglioso negli stessi luoghi che lo avevano tanto discriminato.

*Giacomo Deperu, sardo-carnico, nato a Tolmezzo (UD) nel 1969 e dal 1975 cresciuto a Spilimbergo (Pn), vive oggi a Pordenone ed è titolare dello STUDIODEPERU – Grafica e comunicazione a Fiume Veneto (Pn).
Per anni attivista in Arcigay Friuli, ha ricoperto in associazione la carica di vicepresidente prima e presidente poi, dal 2009 al 2015 e di Consigliere nazionale Arcigay dal 2011 al 2015.

Quando i sogni dell’adolescenza diventano progetti di vita e di carriera

di Giuseppe Miceli*

Durante il tempo trascorso in quarantena, le cose più interessanti che ho potuto fare – al di là di prendere atto di avere una preadolescente filmaker in casa prestata al mondo di “tik tok”, ed una bambina che assomiglia a Jane Fonda in versione cheerleader – sono state leggere e riflettere. Letture e riflessioni che mi hanno portato inevitabilmente indietro nel tempo, a quando l’adolescente ero io stesso.

L’opportunità di scrivere di quella fase della mia vita, offertami da Teen&20, capita insomma al momento giusto.

Non sono stato il classico ragazzo adolescente problematico, che dava grossi grattacapi ai propri genitori. A parte qualche insuccesso scolastico, non avevo né richieste esose né particolari esigenze di libertà, come tanti altri coetanei di allora. Il motorino lo comprai con i miei primi risparmi, sudati durante un’estate passata a fare l’operaio, e cominciai a frequentare le discoteche non prima della maggiore età. Ero consapevole di vivere in una famiglia dove si facevano sacrifici e lo accettavo con responsabilità. Ma questo non mi ha permesso di uscire comunque indenne da quegli anni.

Non avevo ancora quindici anni (era il 1985) quando il mio migliore amico, compagno di scuola e squadra, morì in un tragico incidente stradale. Non feci in tempo di uscire da quel trauma che se ne ripresentò un altro, toccandomi ancor più da vicino. Venni coinvolto, un anno dopo, in un altro brutto incidente, insieme a mio fratello e due suoi compagni di scuola, uno dei quali perse la vita. Fu un’esperienza straziante per tutti noi ed i nostri genitori. Dover sbattere, in così poco tempo, ripetutamente contro una realtà come la morte a quell’età, rappresentò una prova difficile da superare. Seguì un periodo in cui i miei sentimenti sembrarono appiattirsi e nel tempo mi resi conto dei danni psicologici subiti.
I risultati scolastici non mi aiutarono, nel frattempo mio padre decise con perentorietà che dovevo lasciare il calcio e con esso tutta la rete di relazioni che ero riuscito a crearmi, con non poche difficoltà. Alle soglie dei diciasette anni, insomma, le cose per me non si stavano mettendo per niente bene.

Erano gli anni di Videomusic e più tardi anche di Mtv, la radio inoltre era ancora un mezzo di svago e di informazione importante, attraverso cui cercare qualcosa di nuovo ed inesplorato. Pordenone, la città dove studiavo, vantava un sottobosco culturale ricchissimo che non tardò ad influenzare, sul finire del 1986, le mie scelte in campo musicale ed estetico. I miei genitori, purtroppo, non mi avevano trasmesso nulla da questo punto di vista, non avevamo ricche librerie a casa (a parte un paio di enormi enciclopedie) o collezioni di dischi dalle quali attingere e trarne ispirazione, quindi qualsiasi sforzo facessi, sapevo che era frutto della mia intraprendenza e curiosità. Sentivo che qualcosa stava cambiando in me, ero alla ricerca di una identità. Nulla di nuovo in un adolescente, se non fosse che per me identità voleva dire innanzitutto distinguermi dagli altri, non omologarmi. 
I media erano diversi e meno invasivi, non eravamo sottoposti alle pressioni di oggi naturalmente, molti giovani si ispiravano alle cosiddette “controculture”, attraverso le quali potevano esprimersi ed affrancarsi dalla società generalista e da famiglie iperprotettive come la mia. E così, grazie anche ad alcune nuove amicizie, riuscii a ritagliarmi piano piano il mio piccolo angolo di “paradiso”, nel quale misi tutto quello che mi faceva stare bene, innanzitutto la musica. Musica che avvertivo come qualcosa di fortemente identitario, che mi ha portato a scoprire l’emozione di andare ad un concerto, il mondo della radio, dell’editoria indipendente, ed in seguito universi paralleli come il cinema, la letteratura, l’arte e la fotografia.

Ero felice e spensierato, forse ancora un po’ introverso ma non più l’adolescente insicuro e inadeguato di prima, anzi tutt’altro. Mi trovavo nel migliore dei mondi cui potessi aspirare in quel momento. Il processo attraverso il quale elaborai le mie dolorose esperienze, fu del tutto naturale e partì da me stesso. L’aver scoperto quel vaso di Pandora ebbe su di me un effetto salvifico. 

I fatti che seguirono tracciarono il mio percorso futuro. Contribuii alla realizzazione di una “fanzine”, ovvero una rivista artigianale fatta di pagine fotocopiate (in uso negli anni 70/80), in cui scrivevo articoli musicali, recensivo dischi e concerti. Successivamente, a vent’anni circa, collaborai per un breve periodo con la redazione della rivista musicale “Rockerilla”, fino alla conduzione di programmi in radio e all’organizzazione di concerti in Italia, che è diventata nel tempo la mia professione.

Foto di Marco Luchetta

C’è da dire che negli anni del raggiungimento della maturità, la vita non mi trattò sempre bene, avvenimenti negativi e delusioni erano sempre dietro l’angolo. Devo ammettere comunque che ogniqualvolta mi sono trovato ad affrontare delle difficoltà, la musica era sempre presente, e la sua forza propulsiva mi ha aiutato spesso a superarle. 

Vorrei tanto che il mio racconto arrivasse a quei ragazzi che hanno pensato ad un certo punto di non farcela, e li stimolasse nella ricerca di qualcosa di sano e solido – che per me è stato il mondo della musica ma per qualcun altro potrebbe essere il teatro, l’arte, il fumetto, lo sport… – a cui aggrapparsi per esprimere se stessi e ritornare a credere nel proprio futuro. 

* Lavoro professionalmente nel campo dell’organizzazione di concerti ed eventi musicali, in tutto il territorio nazionale, per la mia agenzia Solid Bond Agency dal 2001 , anche se iniziai in maniera semi-professionale già dal 1991. Organizzo concerti di artisti internazionali per club, festival ed eventi. Negli ultimi anni ho fatto parte della direzione artistica di Fiera della Musica di Azzano Decimo e collaborato con Fabrica di Treviso.