Adolescenti in DAD

di Teen&20 e Alessandro Busi

Sappiamo tutti che la DAD è stata l’unico modo grazie al quale i nostri ragazzi hanno potuto mantenere un rapporto con la scuola e con il mondo degli apprendimenti. Sappiamo tutti che è stata una risorsa, e siamo altrettanto consapevoli di quali siano stati e siano i suoi limiti, stiamo pian piano capendo quali sono le implicazioni dell’aver fatto così tanto affidamento su di essa. E’ stata una fortuna che ci fosse, ma probabilmente questo è stato anche uno dei fattori che ha reso così facile,  immediato e rapido decidere di interrompere la frequenza scolastica in presenza non appena i numeri del contagio salivano. Come se la scuola fosse solo apprendimenti, come se la scuola non fosse primariamente relazione. 

Più di ogni altra fascia d’età, in questo tempo di Covid, le ragazze e i ragazzi sono stati deprivati del loro mondo relazionale: via lo sport, via la scuola… Azzerato lo scenario che normalmente è co-protagonista della loro crescita. 

Come è cambiato il loro mondo? 

Quanto è cambiato? 

Hanno la possibilità di riflettere su questi temi? Di provare a dare un senso a tutto questo? 

E i loro genitori come stanno? 

Come è stato averli sempre a casa, vederli sempre di fronte ai monitor, assistere al loro cambiamento mentre anche la famiglia cambiava le sue routine e il lavoro chiedeva nuovi adattamenti?

Vorremmo provare a rispondere assieme a queste domande e proponiamo due percorsi di confronto di gruppo, uno per adolescenti e uno per genitori, che possano essere di sostegno e stimolo in questo sforzo comune di rielaborazione. La conduzione del gruppo sarà professionale, a garantire la sicurezza emotiva di ciascuno e di tutti, e ogni incontro svilupperà un tema specifico: la scuola, le relazioni amicali e quelle più periferiche, la famiglia e il modo in cui il corpo ha risposto all’isolamento.

Gli incontri per i ragazzi si svolgeranno nei pomeriggi di venerdì dalle 18.00 alle 19.30, quelli per i genitori nelle serate del mercoledì dalle 21.00 alle 22.30.

Per informazioni teenand20@gmail.com

Ripresa a distanza, ancora

di Francesca Del Rizzo

Fino a qualche giorno fa pensavamo che questi, forse più di quelli natalizi, sarebbero stati giorni di festa per i nostri ragazzi. I giorni del ritorno alla didattica in presenza, i giorni in cui si sarebbero rivisti e avrebbero di nuovo fatto gruppo.

Non è stato così. La scuola superiore riprende a distanza.

L’evidenza ci dice che in questo paese, ed in alcune regioni in particolare, del benessere degli adolescenti interessa veramente poco a tutti. Proviamo rabbia, come genitori e come cittadini, e ci sentiamo impotenti.

Come professionisti ciò che possiamo fare è ribadire perché la scuola in presenza sia un bisogno primario delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Lo è perché è essenziale all’apprendimento il condividere uno spazio-tempo in presenza: la persona nella sua interezza viene coinvolta in ciò che accade, può partecipare e costruire attivamente l’esperienza, rielaborare in modo attivo ciò che avviene nel contesto classe. Chi ancora pensa che la scuola trasmetta contenuti si ricreda: quando funziona essa fa molto di più e di meglio, favorisce infatti esperienze di apprendimento che cambiano le persone coinvolte, insegnanti compresi.

Ma la scuola in presenza è essenziale anche perché in adolescenza le ragazze ed i ragazzi devono stare fra di loro, imparare a costruire relazioni fra pari, sganciarsi dall’ambiente domestico, dall’influenza dei genitori, e costruire gli strumenti per rapportarsi in autonoma con il mondo adulto. Devono poter fare la fatica di guardare negli occhi un professore “difficile” ed inventarsi un modo per andarci a patti, affrontare gruppi di compagni “antipatici” e “stronzi” superando insicurezze e timori di essere giudicati. E devono poter sperimentare vari modi di essere un po’ adulti, negli affetti, nelle passioni, nelle amicizie, negli errori e nei fallimenti.

Questi mesi di didattica a distanza ci stanno invece regalando l’opposto: ragazzi chiusi in casa, una scuola che si limita a tentare di inculcare contenuti, sperimentazioni sociali, relazionali, affettive, amicali ridotte a meno del minimo.

Ed il risultato è una generazione sempre più fragile, insicura, impaurita, spaventata. Il mondo fuori fa sempre più paura, perché c’è il Covid, certo, ma anche perché si teme tutto ciò che non si frequenta e non si conosce. Aumentano i segnali di disagio e sofferenza (ansia, fobie, attacchi di panico, depressione) e si ricorre sempre più al terapeuta. Non si contano più le ricerche che lo attestano scientificamente.

Le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di tornare a scuola e hanno necessità di sentire che attorno a loro c’è un mondo di adulti che si prende cura di loro e delle loro esigenze.

Ma questo mondo c’è davvero?

Il voto

di Francesca Del Rizzo

A costo di ripetere concetti triti e ritriti, vorrei affrontare con voi la questione “voto”. La ragione per cui credo sia importante ribadire alcuni punti è che continuo ad incontrare ragazzi e ragazze ossessionati dai voti, dalle medie e da tutto quello che ruota attorno all’idea di prestazione nel mondo della scuola.

I ragazzi e le ragazze che vedo non sono studenti che arrivano a stento alla sufficienza, sono invece persone che si impegnano molto ed ottengono buoni, o ottimi, risultati di cui, però, non riescono a godere per due motivi: il primo è che, dal loro punto di vista, per quanto un voto sia bello non lo è mai abbastanza; il secondo è che sono comunque talmente terrorizzati dall’idea di prendere un brutto voto, alla prossima interrogazione o verifica, che la soddisfazione e la gratificazione del buon risultato di ora durano, se durano, lo spazio di qualche secondo… e forse è più sollievo – per il brutto voto sventato – che reale appagamento…

Vorrei sottolineare che non si tratta di “capricci” o di isterismi da prime donne, la loro sofferenza è reale ed intensa. E lo è perchè sui voti questi ragazzi e queste ragazze misurano la loro intelligenza ed il loro valore personale. E’ per loro abbastanza scontato pensare che chi prende brutti voti (dal loro punto di vista lo è tutto ciò che è sotto l’8) è uno stupido e che, quindi, se vogliono capire se sono o meno intelligenti, è ai loro voti che devono chiedere il verdetto. Ed è altrettanto scontato per loro pensare che solo chi è intelligente vale, chi non lo è non vale nulla. Credo peraltro che queste credenze siano condivise in gran parte anche dal mondo degli adulti, altrimenti non se ne spiegherebbe la pervasività nei ragazzi.

Mi piacerebbe pensare che sia un’operazione superflua tentare di confutare queste idee, ma l’evidenza indica che non è proprio così, che forse è necessario ribadire e ripetere, affinchè le consapevolezze si possano consolidare.

Cominciamo dalla convinzione che il brutto voto sia frutto di stupidità. Immagino che chi legge abbia chiaro in mente che un brutto voto possa essere il frutto di scarso impegno, comprensione insufficiente, giornata storta (mal di testa, pancia, febbre…), preoccupazione ed ansia. Sì, perchè quando siamo molto preoccupati ed in ansia, la nostra mente è talmente sovraccarica di pensieri legati ai nostri timori, che non ha proprio lo spazio per elaborare efficacemente le consegne di un compito di matematica, o impostare la traduzione di una versione di greco, o costruire la scaletta di un testo di italiano. Ed allora accade che, nonostante un’ottima preparazione, il risultato della prova non sia eccellente. Cioè, può accadere che il timore di prendere un brutto voto generi una situazione di confusione mentale tale da generare proprio le condizioni per una prestazione scadente. Tra ciò che sappiamo e come lo dimostriamo, insomma, ci sono molte variabili, anche, ma non solo, di tipo emotivo.

Tuttavia, forse è venuto il momento di capire cosa sia questa stupidità. Mi si potrà rispondere che essere stupidi è l’opposto di essere intelligenti. Ma, anche accettando questa definizione per negazione, ci rimane da definire cosa sia l’intelligenza. Ed a questo punto avremmo bisogno di interi scaffali di biblioteche di psicologia, perchè è questo un tema su cui fin dagli albori della disciplina si è esercitata la riflessione degli studiosi. Io però non vorrei andare a ripescare la letteratura scientifica. Intanto vorrei cercare di capire cosa intendono i ragazzi, ed i loro genitori, con la parola intelligenza e poi mi riserverei di proporre un diverso punto di vista. Ho l’impressione che i ragazzi – in particolare quelli che temono i brutti voti – spesso pensino all’intelligenza come ad una sorta di app che possono avere o non avere nel loro sistema cognitivo e di cui emerge la presenza o l’assenza nei momenti delle verifiche e delle interrogazioni. Una sorta di dotazione di base che, o ce l’hai o non ce l’hai. Credo anche che spesso ereditino questa concezione dal mondo degli adulti che li circonda, mondo che tende ad enfatizzare, nella prestazione di atleti di eccellenza, ma anche di musicisti, attori, artisti, scienziati… il ruolo del talento a scapito di quelli della passione, dell’impegno, del duro lavoro e della perseveranza di fronte agli insuccessi (che sono i veri determinanti della prestazione eccellente).

Ricapitolando, fino ad ora, fra le nostre cause possibili per un fantomatico brutto voto, non abbiamo ancora rinvenuto la “stupidità”. Forse anche perchè, se ci fermiamo a pensare un attimo, ci rendiamo conto che le verifiche riguardano i contenuti di un insegnamento non le abilità delle persone. Ma procediamo con la nostra riflessione. Ribadisco, fino a qui possiamo dire che fra le cause di un brutto voto non sembra esserci la stupidità.

Ora, se i ragazzi partono dal presupposto che l’intelligenza sia una dotazione innata, è chiaro che vivono le verifiche come il momento in cui verrà sancito se sono stupidi o meno. Questo presupposto, però, non è vero: l’intelligenza non è una caratteristica “genetica” che alla nascita o c’è o non c’è, come gli occhi azzurri.

Dal mio punto di vista l’intelligenza è un qualcosa che ha molto a che fare con la capacità di imparare. Ritengo che questo un punto di vista sia utile almeno per un paio di ragioni. Innanzitutto ci permette di focalizzarci su qualcosa, l’imparare, di cui possiamo fare esperienza diretta ed inoltre, poiché è evidente che tutte le persone possono in generale imparare, ci permette di concepire l’incapacità di imparare, la stupidità, come un’eccezione alla regola, eccezione che deve essere spiegata di volta in volta da ragioni specifiche.

Ad esempio, sappiamo che esistono dei disturbi dell’apprendimento che hanno a che fare con la difficoltà specifica ad apprendere a svolgere alcune attività, come leggere o scrivere, ma non altre. Una persona con dislessia è in grado di imparare tantissime cose, è molto intelligente, ma fa molta fatica ad apprendere i meccanismi della lettura. Oppure sappiamo che gravi condizioni di denutrizione pregiudicano la capacità di imparare, perchè, in questo caso, sono proprio i meccanismi neurobiologici di base ad essere messi in difficoltà dalla mancanza dei nutrienti necessari al corretto funzionamento dei circuiti neuronali. Sappiamo anche che la nostra capacità di apprendere dipende tantissimo dalla nostra attenzione e sappiamo anche che quest’ultima viene molto influenzata dalle nostre emozioni. Per cui, banalmente, di fronte ad un medico che ci comunica una diagnosi, agitati come siamo, non riusciamo ad essere attenti e non memorizziamo bene ciò che ci dice.

Insomma ci siamo capiti: tutti possiamo imparare e, se a volte non ci riesce, la cosa interessante ed utile da fare è capire perchè, non pensare che siamo stupidi (=incapaci di imparare), perchè è evidente che non lo siamo (magari siamo dei maghi di Fortnight, o siamo in grado di suonare la Patetica di Behethoven senza spartito, o ancora ricordiamo perfettamente i compleanni di tutti i nostri amici). Allora, come adulti potremmo provare a trasmettere ai ragazzi la curiosità per i loro processi mentali piuttosto che dei giudizi sulla loro persona, l’entusiasmo per l’apprendere piuttosto che la paura dello sbagliare, e la serenità della consapevolezza che sì, sono in grado di imparare e quindi sì, sono intelligenti.

Un’ultima breve riflessione sul collegamento fra valore personale ed intelligenza.

Potete in parte intuire la mia linea argomentativa, immagino. Se con intelligenza intendiamo la dotazione di base che o c’è o non c’è, legare il valore personale all’intelligenza significa affermare che esistono persone che valgono e persone che non valgono. Legare, dall’altro lato, il valore personale all’intelligenza come capacità di apprendere significa, di fatto, affermare che tutte le persone hanno valore, ma apre alla possibilità che questo valore possa essere situazionalmente diminuito (come negli esempi fatti sopra), temporaneamente diminuito (come nei casi legati a patologie neurologiche reversibili o stati di shock) o definitivamente azzerato (come nei casi di gravi traumi cranici e demenze). Credo che la soluzione possa essere, semplicemente, pensare ed insegnare ai nostri ragazzi che come esseri umani il loro valore è assoluto e non risiede nella loro biologia, nella loro genetica, nella loro fisiologia o nella loro prestazione, ma nel loro essere persone, ai loro stessi occhi ed agli occhi delle altre persone.

Rassicurante, deludente quotidianità

di Sara Feltrin

Quanta intrepida attesa per il rientro a questa “normalità”, a quella quotidianità che ha sempre saputo scandire, con ordinaria costanza, le nostre giornate, i nostri impegni, i nostri appuntamenti di vita. Per quanto l’abbiamo aspettata, questa rassicurante quotidianità, dopo mesi e mesi di un lockdown che ha messo un freno ai quotidiani programmi in agenda, ai progetti futuri e a quelle banali ma fondamentali abitudini che sanno di conforto e ci danno la sensazione di avere il controllo delle cose, avere in mano la nostra vita! 

Quella rassicurante quotidianità che per bambini e ragazzi significa alzarsi ogni mattina per andare a scuola, fare una colazione da campioni per tenere a bada stomaco ed energie fino all’ora della ricreazione, prendere il bus e tenere il posto all’amico o percorrere la strada in auto in compagnia delle solite raccomandazioni di mamma o papà; significa anche l’entusiasmo e la voglia di ritrovarsi fuori della scuola con amici e compagni e, perché no, anche meno amici e concorrenti, perché anche loro, in qualche modo, rientrano in quella significativa famiglia, la seconda famiglia, che dà senso di appartenenza ad un gruppo, comprensione e vicinanza; significa anche didattica: interrogazioni e verifiche che hanno sempre portato quel pizzico di sale e angoscia per delle prestazioni che poi finiscono sempre con un voto, un giudizio, un numero, capace di portare l’umore alle stelle o affondare nello sconforto. Rassicurante quotidianità per i nostri giovani significa anche responsabilità scandita a piccole dosi, e l’ottica di un futuro prossimo nel prepararsi vestiti e zaino per la curiosa aspettativa del giorno dopo. 

Per i più grandi invece, la rassicurante quotidianità può significare un rientro al lavoro più pacifico e distante dal pensiero dei figli bloccati a casa; può significare più tempo libero per sé: dallo sport allo svago dello shopping, le uscite in famiglia e gli appuntamenti con gli amici; rassicurante quotidianità vuol dire anche riprendere il proprio ruolo professionale, tornare alle proprie competenze lavorative, con stress più o meno annesso, e a quella sensazione di padronanza che fa sentire vivi, attivi e intraprendenti; significa anche stipendio, possibilità economica e progetti, magari lasciati in sospeso.

Dopo lunghi mesi vissuti in balìa di un Virus, direttive e regolamenti ministeriali, ognuno si riprende i propri desideri, obiettivi, oneri e doveri. Ognuno si riappropria, pian piano, della propria libertà e della propria autonomia tornando ad essere protagonista attivo e proattivo verso il futuro. Quel futuro che era stato lasciato momentaneamente da parte perchè “con sto Virus non si può sapere”; quel futuro che era stato frenato improvvisamente perchè l’incertezza era all’ordine del giorno. 

E’ da poco iniziata la scuola, siamo a due settimane dalla ripresa e ancora ci sono ragazzi che quest’anno la scuola non l’hanno ancora mai vista e che, dopo un lungo, lunghissimo periodo in cui anche le vacanze estive si sono mescolate alla penombra del lockdown, si sono trovati nuovamente di fronte allo schermo di un pc in attesa della videolezione o della chiamata del compagno di classe che riferisse i compiti assegnati. 

Un flashback.

Un déjà-vu.

Ecco che allora espressioni come “Sono stufo. Non ho voglia di alzarmi. Voglio tornare a scuola e basta. Svegliarmi, prendere il bus e rompermi le scatole perchè non ci sono posti” diventano lecite di fronte all’aspettativa dell’entusiasmante rientro a quella rassicurante quotidianità a cui tutti siamo ancorati. Perché sì, nel marasma dell’incertezza, anche quelle piccole, seppur scomode, incertezze diventano abitudini significative e pilastri resistenti a cui appendersi in caso di oblio. Parlo di oblio perché è difficile pensare ad un panorama fiorito, per loro, in questo momento. E’ difficile immaginarlo per noi adulti, figuriamoci per chi, come loro, non riesce nemmeno ad immaginarsi in che direzione sia il futuro, né, tanto meno, che strada intraprendere. Così sogni e desideri, già annebbiati e insicuri in partenza, faticano sempre più a trovare conferma e un collocamento stabile in quel futuro che, chissà. E’ vero che sogni e desideri sono sempre stati, per definizione, concetti astratti in cui credere e sperare. Questa volta però, in questi anni a venire, manca l’ingrediente fondamentale: la motivazione. Si è motivati nel momento in cui si crede profondamente che la scelta fatta sia valida e piacevole e che l’obiettivo porti serenità e soddisfazione, nonostante ostacoli e difficoltà. Si è motivati nel momento i cui si crede nei propri sogni. E quando si crede fermamente nei propri sogni, si possono superare tutte le difficoltà.

Banalmente, è un pò come alzarsi dal letto la mattina per andare a scuola: non importa quali siano le difficoltà, trovare posto o meno nel bus, la voglia di andare a scuola, intraprendere e seguire un obiettivo, rimane ferma.  

Non è facile crescere su queste basi poco sicure, crescere e maturare la propria individualità, soprattutto se il massimo dell’espressione, ora, è nascosto dietro mascherine, gel igienizzanti e distanziamento sociale. E’ una battaglia, non tanto contro la società o le Istituzioni, quanto piuttosto contro quel Sé ideale, quel vorrei essere che, già difficile da scovare e scoprire, non è facile inseguire poiché spesso si trova sconfinato in un profilo social, non riuscendo, nella vita reale, a trovare una sana e coesa manifestazione. 

Ecco che allora quella rassicurante quotidianità ha profondamente deluso ogni aspettativa: oltre a non aver portato alcuna rassicurazione, ha aggiunto sconforto e disillusione per quel futuro già precario di per sé. Forse, essere troppo ancorati alle abitudini del passato con una legittima, ma disfunzionale, pretesa che l’adesso sia come il prima, ha deviato troppo il panorama che ci avrebbe aspettato.

Forse quindi, non ci sarà una rassicurante ripresa, ma sicuramente ci aspetta una nuova partenza che molto probabilmente non ha nulla a che vedere con le riprese degli anni passati, ma avrà un altro sapore mai provato prima, altre opportunità e altre rassicurazioni su cui potremo ri-adattare i nostri progetti futuri. 

Quanto ai nostri ragazzi, in una società che ha perso molte certezze, hanno bisogno di un’àncora che li rassicuri e li aiuti ad intravedere la luce anche nel più tenebroso dei panorami; un’àncora che li protegga dai venti avversi per evitare che perdano di vista la strada, il loro obiettivo, le speranze dei loro sogni. Che ricordi loro chi sono, da dove vengono e dove vogliono andare. Così, nel peggiore dei panorami, se anche molte cose intorno si sgretolano e crollano, loro, grazie a noi, figure di riferimento essenziali, sapranno imparare a stare a galla. 

Notte prima degli esami

di Sara Feltrin

Antonello Venditti

Scriveva così Antonello Venditti nel 1984 quando ancora la notte prima degli esami era fatta di serate con amici, una pizza con i compagni di classe tra grandi risate e qualche beffa ai professori, ma anche lunghi pianti, prime follie d’amore e, per alcuni, l’ultima sfida scolastica.

Notti insonni in preda all’ansia e all’immaginazione che non smetteva di pensare all’ultimo giorno di scuola, ai banchi occupati da quei compagni di scuola che forse mai, come in quel momento, rappresentavano solidi pilastri di un’identità collettiva e unita, elementi di conforto di un vissuto che, in quei giorni prima degli esami, solo loro avrebbero potuto capire: la maturità. O meglio, l’attesa per la maturità. Sì, perché la maturità mica arriva con la prova di italiano o di matematica, né tantomeno all’esame orale; anche perché insomma, agli esami ci si abitua prima o poi. E’ ciò che la maturità nasconde implicitamente che angoscia più di tutto: la maturità quella vera, quella che arriva quando non sai che arriva. Ma la senti perchè è lì, lì dietro l’angolo ad aspettarti. E sai che, da quel momento, tutto cambia. Tutto cambia: la scuola lascia spazio all’università o per altri al lavoro, i compagni di classe chissà, ognuno prende la propria strada, amori che vanno e amori che vengono, mamma e papà pronti a consegnare “le chiavi” per l’autonomia, responsabilità che aumentano, insomma: si diventa grandi. Volenti o nolenti, è ora di crescere. Tutto cambia e l’angoscia del futuro sale alle stelle. 

Ecco che, nella notte prima degli esami, il pensiero di rivedere per l’ultima volta i propri compagni di banco all’interno di quella classe che, come un’amica fedele, ha saputo contenere per anni gioie e dolori, la mamma e il suo abbraccio di conforto, il papà e la mano sulla spalla, diventano cure di sollievo, fondamenti sui quali costruire la propria identità, il proprio futuro, la propria vita.  

Ma non siamo nel 1984, siamo nel 2020 e l’immagine che salta in mente se pensiamo a esami di stato 2020 è, più o meno, questa:  

con un grande punto di domanda.  Seguito dall’ordinanza del Miur (O.M. del 16 maggio 2020) che cita: 

Esami del primo ciclo: L’esame di Stato delle studentesse e degli studenti coincide, quest’anno, con la valutazione finale da parte del Consiglio di Classe e terrà conto anche di un elaborato prodotto dall’alunno, su un argomento concordato con gli insegnanti.

Esami del secondo ciclo: Gli Esami del secondo ciclo avranno inizio il 17 giugno alle ore 8.30. Previsto, per quest’anno, il solo colloquio orale. I crediti e il voto finale si baseranno sul percorso realmente fatto dagli studenti.

Il Covid-19 ha destabilizzato tutto, ha anticipato senza alcun preavviso quel tutto cambia angosciante già di per sé. Nessuno era pronto e nessuno si sarebbe aspettato un colpo di scena così drastico. 

I nostri ragazzi e i nostri nuovi maturandi si prestano a lanciarsi in una nuova missione verso un territorio da mesi abbandonato e rivisitato in vesti diverse: non più l’ennesimo ritrovo tra compagni e professori, la lotta del prendersi i posti migliori tra i banchi e la forte sensazione di condividere insieme un’esperienza collettiva unica, ma un ritrovarsi con i professori allineati dietro dei banchi resi insipidi dal disinfettante e una mascherina che non lascia trasparire nemmeno l’accenno ad un sorriso amichevole di un rassicurante tranquillo, andrà tutto bene. E’ una maturità insolita che non ha dato la possibilità o meglio, l’opportunità, di vivere quell’esperienza unica, tra ansia e adrenalina, che ha contagiato i maturandi degli anni passati. Il lockdown ha impedito i momenti, forse più significativi, che colorano l’immaginario degli adolescenti in questo momento di crescita difficile e delicato: l’ultima gita scolastica, l’ultima settimana di scuola appesantita dalle interrogazioni di recupero ma alleggerita dal calore del sole di giugno che apre le porte all’estate, agli ultimi giorni di autogestione, al suono dell’ultima campanella, agli ultimi scambi di sguardi celati e agli ultimi baci segreti durante la ricreazione, fanno il saldo di tutte quelle esperienze d’oro che per mesi hanno fantasticato e sognato all’interno delle loro stanze, tra videochiamate e social network. Hanno fatto i conti con loro stessi, con ciò che vorrebbero e non vorrebbero, con ciò che avrebbero fatto appena usciti dal lockdown, una considerazione su qualche amicizia persa e per alcuni un maggiore apprezzamento all’ambiente di casa.

La scuola non rappresenta più solo il luogo in cui imparare e sperimentare il successo scolastico e prestazionale, ma è diventata il luogo in cui più di ogni altro, si lotta alla valorizzazione e al successo personale e affettivo. E’ diventata una seconda casa in cui ognuno investe in tante relazioni affettive e, come succede a casa, se queste relazioni sono sane e positive allora favoriranno maggiormente partecipazione e apprendimento; al contrario, se queste relazioni dovessero rivelarsi mendaci e deludenti, allora tutto il palco crolla: ascolto, partecipazione, apprendimento, relazioni e, di conseguenza, valorizzazione personale. 

Un momento in cui, per gli adolescenti del giorno d’oggi la ricerca al rispecchiamento (condivisione di sentimenti ed emozioni), all’essere cioè riconosciuti, ammirati e valorizzati si rivolge prevalentemente nella cerchia dei coetanei che molto spesso vengono percepiti, a scapito degli adulti, più competenti nel riconoscere e valorizzare le loro modalità espressive e creative (Matteo Lancini, Adolescenti navigati).

L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha letteralmente sradicato i nostri ragazzi fuori del loro habitat naturale (la scuola, le piazze, il cinema o qualche centro commerciale) impedendogli vicinanze, fisiche ed emotive, fondamentali per la crescita, la costruzione della loro identità, per quel famoso diventare grandi che la prova di maturità, questa maturità ancor di più, sembra imporre.

Penso principalmente ai maturandi o coloro che dovranno salutare la loro scuola per affrontare, a settembre, il critico passaggio alle scuole medie o ancor più determinante, all’università o al lavoro. In questo momento in cui l’incertezza regna sovrana, trovare un luogo di attracco quanto più sicuro e fermo non è per niente semplice. “Sto cambiando io, stanno cambiando le mie idee, sta cambiando il mondo là fuori e non c‘è niente di fermo.” 

Con i test di ammissione e gli open day delle università rimandati, è diventato ancora più difficile prendere decisioni; e l’insicurezza del futuro, di questo futuro post Covid-19, porterebbe anche lo studente più deciso e convinto a mettere in discussione le proprie priorità e le proprie scelte. D’altronde come può un adolescente che sta crescendo e cambiando, vedersi proiettato verso una realtà che sta cambiando a sua volta? Come è possibile pensare ai prossimi mesi, o per i più caparbi al prossimo anno, quando oggi non sappiamo nemmeno se programmare le ferie delle prossime settimane? Beh, una cosa è certa: potranno raccontare ai loro nipoti di essere stati dei veri e propri sopravvissuti ad una delle più grandi epidemie mondiali degli ultimi secoli, ma soprattutto, potranno vantare l’onore di aver affrontato una delle più grandi sfide personali.

Percorsi tortuosi: adolescenti e scuola

di Francesca Del Rizzo

Questa settimana si è celebrato l’anniversario della nascita di Don Milani (27 maggio) e questa ricorrenza mi ha fatto riflettere: mi sono chiesta cosa avrebbe pensato lui della didattica a distanza di questi giorni, lui che faceva lezione all’aria aperta, lui che aveva con i suoi alunni un rapporto di prossimità, ancor più che di vicinanza. Sono certa che si sarebbe inventato qualcosa di bellissimo ed entusiasmante, per poter conservare la vicinanza nella sicurezza. Certo, non so se glielo avrebbero lasciato fare… ma sicuramente lui ci avrebbe provato ed avrebbe perseverato.

Perché amava educare ed amava i suoi ragazzi, tutti.

Don Milani fa scuola a Barbiana

Io ho invece l’impressione che, nella scuola di oggi, come in quella di ieri del resto, forse, non tutti gli insegnanti amino sempre tutti i loro studenti. Alcuni tendono a valorizzare e gratificare quelli che seguono percorsi lineari, che lavorano, si impegnano ed ottengono bei risultati, mentre tendono a svalutare, svilire, a volte umiliare chi invece sembra fare più fatica, magari si impegna poco ed ottiene risultati insufficienti o al limite. Credo che sia naturale, da un certo punto di vista. Insegnare non è per nulla una professione facile ed un insegnante può vivere il disimpegno di uno studente, il suo palese disinteresse per la materia e per i compiti, il suo scarso apprendimento come una sorta di insulto personale, mentre i risultati e l’abnegazione dell’allievo studioso lo gratificano e ripagano di tanta fatica.

Naturalmente non intendo assolutamente suggerire che agli studenti “bravi” non debba essere riconosciuto il lavoro che fanno, anzi probabilmente dovremmo riflettere – e non escludo che ci proverò – su come farlo in maniera davvero costruttiva, forse, però, un pensiero diverso su quelli che “non hanno voglia” potremmo articolarlo proprio ora, anche in memoria dei percorsi tortuosi dei ragazzi di don Milani.

Ho letto recentemente un libro che una persona che stimo mi ha prestato e che consiglio a tutti, senza distinzioni di età o di preferenze letterarie: è un libro che val la pena leggere. Si tratta di Bianco come Dio di Nicolò Govoni.

L’obiettivo di Nicolò nel libro non è raccontare il suo percorso scolastico, tuttavia a tratti egli ci parla di un’adolescenza difficile, caratterizzata da colpi di testa e da un difficile rapporto con il padre e con la scuola ed i suoi insegnanti. Alla fine delle superiori Nicolò, a diciotto anni, si sente vuoto: “Mi era stato detto che non valevo nulla così tante volte che avevo finito per crederci”.

Ed è proprio così che capita anche a molti ragazzi che io conosco in studio: è stato detto loro che non sono capaci, che non sono in grado di fare niente di buono, che non hanno combinato nulla nella vita (appunto, a 15, 16, 17, 18 anni…) così tante volte che queste sentenze sono diventate la definizione che loro stessi danno di sé.

Queste parole sono state dette da “adulti” (non solo insegnanti, certo, anche genitori, allenatori… ) che non hanno saputo fare qualcosa di diverso dal giudicare la persona sulla base di un comportamento, o una serie di comportamenti, senza mai chiedersi davvero: perché? Senza mai provare a guardare il mondo con gli occhi di quei ragazzi o di quelle ragazze (perché, intendiamoci, spiegare il comportamento di un ragazzo che non studia dicendo che non ha voglia di studiare mi sembra vagamente tautologico). Forse varrebbe la pena di chiedersi: e perché non ha voglia di studiare? Magari perché, con il passare degli anni, e delle parole degli adulti, si è convinto che non ha senso provarci, visto che tanto non può riuscirci… oppure perché è talmente impegnato a combattere i demoni dentro di sé che non ha energie o risorse da investire negli apprendimenti… o ancora perché ormai l’unico ruolo in cui si sente riconosciuto è quello del deviante. Le ragioni possono essere tante quante sono i ragazzi, ma, appunto, sono ragioni: c’è sempre un perché e concedersi di comprendere quel perché apre a mondi personali in cui anche le scelte apparentemente più sbagliate appaiono ragionevoli…

Le sentenze che gli adulti emettono con tanta, troppa leggerezza segnano i ragazzi e le ragazze, li inchiodano ad una versione temporanea e affaticata di loro stessi, e troppo spesso finiscono per stabilire e tracciare il loro futuro.

Nicolò si è ribellato a queste definizioni, ha scelto di abbandonare l’Italia e di andare a fare un periodo di volontariato in un orfanotrofio in India. Lì, fra molte altre cose, si è dedicato all’appoggio ai ragazzi dell’orfanotrofio nello svolgimento dei loro compiti scolastici. In un passaggio scrive:

“Dopo tre anni, i ragazzi parlano un inglese eccellente. Sono i primi della loro classe. […] Sono così orgoglioso dei loro progressi da stentare a credere di esserne stato in qualche parte il fautore. Stando con loro ho imparato qualcosa di fondamentale: un bambino crescendo si rivela sempre all’altezza delle tue aspettative. Se lo consideri un buono a nulla, ti crederà sulla parola e non andrà da nessuna parte. Se invece hai fiducia in lui, non c’è nulla che non possa ottenere. Non ho mai creduto nei miracoli, ma se assistere allo spettacolo di un bambino che impara qualcosa di nuovo non lo è, non so cos’altro possa esserlo.”

Ora Nicolò Govoni, ragazzo del 1993 cui gli insegnati avevano predetto che non avrebbe mai combinato nulla nella vita, è un giovane uomo la cui ultima, ma non unica, impresa è stata costruire, nell’isola di Samos, sostanzialmente dal nulla e con donazioni solo di privati, una scuola per bambini rifugiati sfuggiti alla guerra:

Nicolò Govoni a Mazì

“Oggi, oltre 150 bambini e adolescenti imparano e vivono nello spazio più sicuro, adatto e, lasciatemelo dire, bello dell’isola. Oggi cento minori altamente vulnerabili hanno la scuola che meritano, la scuola che era stata loro negata, la scuola per cui sono sopravvissuti a una guerra e attraversato mari e monti, la scuola che offre loro un’alternativa alla prigione in cui vivono. Questa è Mazì—Insieme.”

Mazì è un progetto che mi sembra molto simile alla scuola di Barbiana di Don Milani: un luogo dove gli adulti educano i piccoli e li accompagnano con amore e comprensione nei percorsi tortuosi cui la vita li costringe affinché possano liberarsi dalle sentenze definitive emesse da mondi violenti ed ingiusti e, come dice Nicolò, possano costruire, per sé e per gli altri, “la migliore versione di se stessi”.

La scuola ai tempi del CoronaVirus

di Sara Feltrin

Alzati, sono le 9!

Non è la solita sveglia delle 7 del mattino che preannunciava l’ennesimo giorno di scuola. E’ una sveglia più soft, quasi come quella della domenica mattina. 

Ma non è domenica mattina.

Alzati che tra mezz’ora hai videolezione con la prof di inglese!” 

Una lunga colazione, l’abituale TG di sottofondo, e via, davanti allo schermo del computer, con la felpa di scuola indossata sbrigativamente per coprire il pigiama, tutti pronti a fare lezione così, a piedi scalzi e un biscotto mezzo masticato in bocca.

Doppio click sulla cartella 1B. Inglese. D’un tratto, dal nulla: “Ah, eccovi! Ecco ecco, vi vedo quasi tutti….mancano Stefano e Giulia…” è la voce dell’insegnante, leggermente imbarazzata ma, stranamente, calma. Sì perché in classe non esiste “la calma” e si urla sempre per farsi comprendere. Agli occhi dei ragazzi l’immagine dell’insegnante suscita un’inaspettata, rassicurante familiarità. Per un attimo, sembrava di essere in classe. 

Si è trasformata così la scuola ai tempi del Coronavirus, alunni e docenti separati da uno schermo e connessi attraverso il network dell’era digitale che asseconda operosità e produttività senza lasciare spazio a emozioni e sentimenti. Si perchè si può digitalizzare un documento, un’immagine, un suono, ma non si può digitalizzare uno stato d’animo. 

Vi lascio i pdf da completare e riconsegnare nella cartella “lezioni settimana 16-21 marzo”, mi raccomando, entro sabato! Ci vediamo la prossima settimana, a presto ragazzi!

Le lezioni “in classe” durano 20-30 minuti al massimo perchè “Oh raga, non ho più internet, ho finito i giga” , “Bro, non ho capito l’ultima parte perchè c’era poca connessione” oppure “Ciao raga vi mollo perchè mia sore rompe che le serve il pc”, senza contare chi manca come Stefano e Giulia della 1B che a casa il wi-fi non e ce l’hanno proprio. Esistenze affidate totalmente agli schermi, che poi va a finire che “Oh ma raga, voi avete capito dove la prof mette i compiti?” e ci si perde, ci si esclude, per mancanza di segnale.  

Mai come in questo momento, navigare in internet ha portato un mal di mare così angosciante: un totale disorientamento annessa ad una profonda estraneazione. 

Sì perchè, chi lo poteva immaginare che quel saluto così sbrigativo ai miei amici, tre settimane fa, poteva mancarmi così tanto, ora? Chi lo poteva sapere che mancasse così tanto non vedere i volti dei miei compagni di scuola, compagni di vita?

Eh ma li puoi vedere su skype o su Whatsapp, o su Messenger!” 

Sì, ma non è la stessa cosa. Possiamo guardarci, possiamo parlarci, ma non ci possiamo avvicinare, non possiamo stare vicini. No, non è la stessa cosa.

Ora, della scuola è rimasta solo la parte peggiore: quella dei compiti e delle verifiche (che poi, che verifiche sono se posso tenere il libro sotto il naso?). 

Per non parlare poi delle boccate d’aria pura: sport, condivisioni al parco, le passeggiate con gli amici del paese, eccetera. 

Ora ringraziamo il cielo per aver permesso l’esistenza della tecnologia che ci permette di amplificare la nostra esistenza in ogni dove, distraendoci dal qui ed ora, dalla realtà attuale. Perché è proprio questo che fanno i telefoni, i tablet e qualsiasi schermo sia connesso ad internet: portarci via dal qui ed ora. Proiettarci in un realtà virtuale pericolosissima: quella del nostro “cerco, voglio”, estranea e lontana a quella del nostro “evito, scappo”. Quella dei desideri lontano da quella delle paure. 

E oggi, questi mostruosi quanto indispensabili, schermi sono diventati l’equilibrio tra quell’inesauribile “voglio tutto” e il catastrofico “vietato uscire”. 

Sono diventati la libertà di chi a casa non sa stare. 

Come siamo arrivati a tutto questo?

Ci sorprendiamo di noi stessi quando facciamo fatica a gestire la nostra vita a casa, quando ci hanno insegnato che la casa è il luogo più sicuro e rassicurante di tutto il mondo. Com’è che ora, la nostra casa, fa così paura? Perchè la percepiamo così pericolosa? Perché sentiamo l’esigenza di uscire a tutti i costi?

Siamo diventati un popolo più adattato al lavoro che a casa, più “al sicuro” nel fare (lavoro) anziché nell’essere (casa). Beh, la risposta sembra ovvia: perchè a casa non siamo abituati a stare, come non siamo abituati a gestire non tanto la casa in sè, ma noi stessi, nell’essere e non nel fare.

Noi stessi, senza gli impegni quotidiani, i doveri delle cose da fare, lo stress per gli obblighi del lavoro, le mansioni da svolgere a casa e le rassicuranti, quanto angoscianti immagini del lavoro del giorno dopo. Noi stessi. 

Questo siamo diventati. Un popolo alla mercé dell’operosità. E ora, che ci è chiesto a tutti di #stareacasa, facciamo fatica a farlo. 

Forse è il caso di abbandonare tutti quel caotico e continuo fare e ci lasciamo andare a quel difficile essere che sì, ci mette in discussione, ma mette alla prova emozioni e risorse che forse prima non sapevamo nemmeno di avere. 

Risorse che in questo momento ci possono salvare in una situazione di emergenza come questa, in cui sono necessari spirito di adattamento e gestione emotiva. 

Lontano dai telefoni, lontano dagli schermi. 

Guardate di fronte a voi, guardate in alto nel cielo. Per farlo, non serve raggiungere la cima più alta di una montagna e nemmeno il lungomare di una suggestiva spiaggia. 

Basta una sedia, fuori nel terrazzo accompagnati da un buon libro, un calice di vino, un giornale, un gatto sulle gambe o assolutamente nulla. 

Voi e nient’altro.

Aprite gli occhi. 

Avete il mondo, quello vero, davanti a voi.