Fino a qualche giorno fa pensavamo che questi, forse più di quelli natalizi, sarebbero stati giorni di festa per i nostri ragazzi. I giorni del ritorno alla didattica in presenza, i giorni in cui si sarebbero rivisti e avrebbero di nuovo fatto gruppo.
Non è stato così. La scuola superiore riprende a distanza.
L’evidenza ci dice che in questo paese, ed in alcune regioni in particolare, del benessere degli adolescenti interessa veramente poco a tutti. Proviamo rabbia, come genitori e come cittadini, e ci sentiamo impotenti.
Come professionisti ciò che possiamo fare è ribadire perché la scuola in presenza sia un bisogno primario delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Lo è perché è essenziale all’apprendimento il condividere uno spazio-tempo in presenza: la persona nella sua interezza viene coinvolta in ciò che accade, può partecipare e costruire attivamente l’esperienza, rielaborare in modo attivo ciò che avviene nel contesto classe. Chi ancora pensa che la scuola trasmetta contenuti si ricreda: quando funziona essa fa molto di più e di meglio, favorisce infatti esperienze di apprendimento che cambiano le persone coinvolte, insegnanti compresi.
Ma la scuola in presenza è essenziale anche perché in adolescenza le ragazze ed i ragazzi devono stare fra di loro, imparare a costruire relazioni fra pari, sganciarsi dall’ambiente domestico, dall’influenza dei genitori, e costruire gli strumenti per rapportarsi in autonoma con il mondo adulto. Devono poter fare la fatica di guardare negli occhi un professore “difficile” ed inventarsi un modo per andarci a patti, affrontare gruppi di compagni “antipatici” e “stronzi” superando insicurezze e timori di essere giudicati. E devono poter sperimentare vari modi di essere un po’ adulti, negli affetti, nelle passioni, nelle amicizie, negli errori e nei fallimenti.
Questi mesi di didattica a distanza ci stanno invece regalando l’opposto: ragazzi chiusi in casa, una scuola che si limita a tentare di inculcare contenuti, sperimentazioni sociali, relazionali, affettive, amicali ridotte a meno del minimo.
Ed il risultato è una generazione sempre più fragile, insicura, impaurita, spaventata. Il mondo fuori fa sempre più paura, perché c’è il Covid, certo, ma anche perché si teme tutto ciò che non si frequenta e non si conosce. Aumentano i segnali di disagio e sofferenza (ansia, fobie, attacchi di panico, depressione) e si ricorre sempre più al terapeuta. Non si contano più le ricerche che lo attestano scientificamente.
Le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di tornare a scuola e hanno necessità di sentire che attorno a loro c’è un mondo di adulti che si prende cura di loro e delle loro esigenze.
“Dottoressa, non lo so cosa mi sta accadendo! Non mi interessa più di nulla! Anche se le amiche mi vengono a chiamare per uscire, io preferisco stare a casa….. anzi mi danno fastidio perché sento che mi guardano male e hanno ragione perché io non ero così…ma non so cos’ho … i pensieri mi arrivano e io non so come cambiarli… non è colpa mia”
Ciò che porta le persone a rivolgersi allo psicologo è la necessità di essere aiutate rispetto allo stato di sofferenza in cui si trovano. La scelta di confrontarsi con uno specialista spesso è frutto di una lunga riflessione, che a volte, può anche essere consigliata, se non addirittura imposta, da alcuni membri della famiglia.
L’incontro con il terapeuta è accompagnato da numerose aspettative e connotato da una forte carica emotiva.
Chi chiede un aiuto si interroga sul senso del proprio malessere e cerca spesso una risposta che possa meglio definire la sua situazione. Avere una valutazione o meglio una diagnosi sulla propria la sofferenza sembra aiutare a comprenderne la natura per meglio affrontarla.
Tale richiesta è simile a quella che viene rivolta al proprio medico per cui, una volta identificata la malattia, si cerca la cura più adatta a procurarne la guarigione. Ma, trattandosi di una difficoltà in ambito psicologico, la richiesta di una precisa definizione del proprio stato può condurre ad effetti diversi sia personali che relazionali.
Quando le persone stanno male e sono bloccate nella loro sofferenza, spesso vivono anche un forte senso di colpa per il loro stesso immobilismo. Riconoscersi in una malattia può anche essere, per certi versi, un sollievo dal punto di vista della propria responsabilità verso gli altri. In qualche modo sentirsi dire “lei soffre di depressione” può apparire preferibile che scontrarsi con la continua incapacità di trovare una soluzione o una via d’uscita al proprio malessere o a quello provocato ai propri cari.
Dare un nome a ciò che si prova solleva dall’idea di essere i soli ad avvertire quel tormento. Ancora prima di arrivare dallo psicologo, chi sta male cerca risposte nella rete o in altre fonti per trovare suggerimenti o per giustificare il proprio comportamento nel quale fatica ad identificarsi.
Ma quali possono essere le insidie di riscontrare nel proprio malessere i sintomi di uno specifico disturbo?
Riconoscersi in una patologia porterà la persona a leggere i propri pensieri e le proprie azioni in modo coerente a tale disfunzione. In tal modo non verrà favorita una risoluzione del problema, un cambiamento, ma piuttosto permarrà l’inerzia e l’immobilità.
Anche dal punto di vista dello psicologo, la sola definizione in un’etichetta diagnostica, ad esempio “depresso” piuttosto che “schizofrenico”, non rende più comprensibile il vissuto della persona e non favorisce la possibilità di costruirla in modi diverso o di trovare soluzioni migliori alle circostanze che l’hanno imprigionata in quel ruolo.
Ogni categorizzazione facilita la lettura e l’attribuzione dei significati nel senso coerente all’etichetta individuata per inquadrare lo stato di disagio. La persona allora si comporterà in modo coerente alla definizione affidata e implicitamente favorirà, nei suoi interlocutori, un’analoga interpretazione del suo comportamento, bloccandola ancora di più nella sua sofferenza.
Questo significa che la diagnosi non è utile??
Gli autori del costruzionismo sociale allertano sul potere del linguaggio nel generare significati che, proprio perché condivisi socialmente, diventano realtà acquisite e date per scontate.
Tornando alla persona che sta cercando il nome giusto al suo vissuto, sperando in qualche modo di liberarsi dalla prigione in cui si trova, diventa più utile favorire in lei una lettura del disagio in termini di processo più che di stato. Le situazioni che viviamo derivano dall’interpretazione che facciamo di ciò che abbiamo di fronte e da come anticipiamo possano andare le cose. I motivi per i quali una persona sta male sono innumerevoli ma certamente sono personali e soggettivi, dipendono da come sta guardando gli aspetti della sua vita e dalle possibilità che sente di poter avere.
Gorge Kelly, autore della Psicologia dei Costrutti Personali, definisce prigione la situazione di chi si non riesce a trovare vie di uscita o alternative possibili a ciò che momentaneamente vive. Secondo l’autore lo scopo della diagnosi non è indovinare “come stiano in realtà le cose per quella persona” ma favorire la ripresa del cammino dell’esistenza, secondo i modi e le possibilità che la persona riesce a crearsi (Armezzani, Grimaldi, Pezzullo).
Allora ha più senso spostare l’attenzione su quali scelte può fare chi sta male, dove può andare piuttosto che stare su chi “è” o cosa le sta accadendo. Il lavoro terapeutico è quello di accompagnare chi chiede aiuto a intravvedere nuove possibilità o strade da percorrere con le risorse di cui dispone.
Il supporto può essere dato nello svincolare l’idea che la soluzione delle difficoltà inizi con definire uno stato ma piuttosto nel capire, insieme a chi chiede aiuto, quale è il movimento su cui aprire una via.
Comprendere gli altri in termini di scelta significa interpretare i pensieri e l’azione umana in ottica di processo piuttosto che di stato, rivolgere l’attenzione a ciò che le persone possono fare anziché ancorare il disagio ad un esito del loro passato.
La mente umana è di per se stessa dinamica perché cambia continuamente, così come le persone, nel fare esperienza, modificano il loro modo di vedere le cose e di affrontarle. Nel crescere, acquisiamo abilità relazionali, cognitive ed emotive via via più complesse e articolate, ci creiamo un nostro sistema di significati per interpretare e vivere il mondo. Il disagio psicologico nasce quando questo nostro sistema di significati non è più in grado di supportarci nell’affrontare la realtà che ci troviamo di fronte.
L’aiuto che può dare lo psicologo è di sostenere la persona in un percorso di lettura e di conoscenza di quali aspetti di sé debbano essere elaborati in modo da permetterle di individuare possibili vie d’uscita dalla situazione di stallo in cui si trova e di rimettersi in movimento.
Alla domanda iniziale seguirà un lavoro di accompagnamento nel quale lo psicoterapeuta sosterrà la persona a guardare a se stessa in un modo diverso e favorirà una diversa relazione con gli altri allo scopo di ampliare le sue possibilità di fronteggiare le difficoltà che sta vivendo.